Lo Scrittore e la
Letteratura.
di Aldo Busi
Perché,
nella svagata giurisdizione sull'origine e il fine dell'essere; l'essere scrittore è
spesso paragonato a Dio? Non certo perché crea - lo fanno tutti, Dio non meno di
qualsiasi lattoniere. Lo, scrittore, a differenza di ogni altro triviale addetto
all'umanità da Quadrivio, è divino perché è Colui che non ha sensi di colpa. Il che
esaspera il senso di colpa degli altri, a tutto vantaggio dello scrittore che,
impossibilitato a considerarsene il Motore Primo, si accontenta di descriverli facendo le
veci di Dio - che se né frega a tal punto del senso di colpa specifico a ogni uomo che
non solo non ne ride, ma non ne sorride neanche. Perché un uomo qualsiasi possa diventare
uno scrittore (un auto-re) deve prima sgombrare ogni falsità con se stesso, deve
impugnare il proprio senso di colpa (uno almeno è garantito a tutti indistintamente) e
brandire, la propria colpa sotto i raggi del sole fino a accecarli, di modo che fra lui e
il sole non ci siano più personali barriere interposte. Il sole, o Dio, diventa il suo
unico possibile specchio: lo scrittore ha eliminato da sé, esponendola fino alle estreme,
superstiziose conseguenze, la colposa rifrangenza dell'essere/sentire/sembrare/esprimere
che vincola le spicce umanità delle comuni Arti e Mestieri. A uno scrittore non importa
né stare oggettivamente né considerarsi soggettivamente sopra gli altri - compresa la
sua piccola e fugace umanità - né - se ha sposato l'altra matrigna dell'ascesi: la
megalomania del masochismo, del maledettismo, dell'espiazione - starci sotto: gli importa
pervenire alla neutralità divina che sancisce una dannazione in terra per ogni uomo
secondo il suo proprio particolare senso di colpa mentre per lui no, perché ha capito il
trucco dell'assoluta democrazia negata da Dio a ogni uomo: impedirgli di essere Dio di se
stesso e in sé considerare Dio ogni altro. L'uomo delle caverne - un intellettuale in
portantina di tipo cinico - ha creato Dio prendendo l'andata e il ritorno - ma non è
ancora tornato indietro.
Lo scrittore, invece, va e viene a piacere. Dio è per sua innatura mondato da ogni colpa
- non esiste per Lui il Bene e il Male, il lecito e l'illecito, esiste il Creato, e la
promessa fatta agli uomini di non farglielo sapere. Se Dio non fosse neutro come farebbero
gli uomini a crogiolarsi nei loro sensi di colpa? e se uno scrittore continua a
crogiolarsi in un suo personale senso di colpa come potranno le colpe dei suoi personaggi
risaltare in tutta la loro fetida ma incontaminata purezza? E con ciò sono arrivato al
punto di vista il quale, dopo "l'autobiografia di uno scrittore consiste nella sua
abilità di fare ginnastica col linguaggio" di Brodskji, è il punto fondamentale
dell'essere scrittore.
Sono rari gli uomini che dispongano di un punto di vista nella vita che non sia altro che
il loro: lo scrittore, invece li possiede tutti, storicamente e socialmente tutti - il
Creato, quel che c'è. Anzi: ciò che l'umanità sofferente e meschina nel suo fabbisogno
di sensi di colpa consapevoli relativi al proprio essere carnalmente imperfetta e
socialmente non-conforme chiama Dio affinché le rimetta anche i suoi impazienti
peccatucci, lo scrittore chiama punto di onniveggenza. Così, non solo avrà tutti i punti
di vista, na ne avrà addirittura Uno in più.
Se Dio non può essere a servizio degli uomini perché verrebbe messo alla porta senza
neanche preavviso, che almeno sia a servizio di qualche buon romanzo sugli uomini scritto
dal suo sub-dio, lo scrittore. Solo lui è riuscito fino a ora a far timbrare il
cartellino all'inventore del Tempo e a farGli mettere lo Spazio a verbale - costringendoLo
ogni volta a andare punto e a capo. Lo scrittore è Dio perché è uno e nessuno: se poi
vuole essere qualcosa di più un grande scrittore - deve essere almeno centomila, e Dio
uno dei tanti.
Ma a questo punto tanti aspiranti sub-dei si chiederanno come non avere sensi di colpa e
di conseguenza:
Come si nasce scrittori?
Si nasce scrittori come si nasce accordatori di pianoforti: non appena lo si è diventati.
Si sale su una baleniera diretta al Polo inciampando e sbuffando come quando prendi
l'autobus in ritardo. Comincia il viaggio. Più che ghiaccio non vedi - un pinguino, un
orso bianco, una foca su un album che ti sei portato da casa, gli stessi che vedresti in
uno zoo o da nessun'altra parte. Ghiaccio chiama ghiaccio, tutto qui il viaggio polare?
Finché un bel giorno cominci a interpretare, le ramature sui lastroni galleggianti e,
interpretandolo, lo intraprendi. Puoi fare la decifrazione del ghiaccio anche in pantofole
davanti al televisore, ma se tiri dei sermenti per non andare a,
sbattere contro un iceberg è meglio, - come la vita: non indispensabile, ma meglio di
niente.
La scrittura ha bisogno ogni tanto di vestirsi a festa con il giubbotto anti-proiettile
della realtà più che con lo smoking della verosimiglianza. Si possono scrivere cose
sublimi e geometriche mentre stai a poppa sbattuto di qui e di là da un ciclone e vai
tutto storto. Attenti a che non scappino i fogli. Retorica per retorica, il fortunale
della realtà non è dammeno della brezza in un Hótel Des Bains.
Le vocazioni uno le ha se fa di tutto per inventarsele.
Ho già detto come si nasce scrittori, adesso articolo il corredino:
1) Il concepimento: non casuale, tipo un figlio maschio tira un figlio maschio perché i
miei di maschi ne avevano già abbastanza e volevano una femmina a tutti i costi (per
aiutare in casa gli altri maschi, mica perché femmina è bello). Padri che ripartono per
una guerra di trincea e madri che li raggiungono a piedi e in biciclette prestate e, in un
casolare, durante una licenza che vada al sodo, ghiandola contro ghiandola contro
corteccia di platano, mentre le mine del ricordo brillano, hanno ancora voglia di
esprimere un desiderio trascendentale: "speriamo che sia femmina". Nemmeno
madame Rousseau, con il bell'esempio di marito che si trovava (raramente) avrebbe mai
potuto formulare un "speriamo che sia uno scrittore" soprassedendo al sesso, e
quindi nessuno dei miei due neppure.
La mélange bianco e nero del corredino a uncinetto la dice lunga sul sesso inviso ai
genitori traditi: scrittile. La disperazione, il sentimento di essere stati burlati per la
terza volta contribuirà a dare il gusto delle cause prime e di quelle ultime le quali,
non esistendo al di fuori dell'iconografia popolar-religiosa, sono però in un primo
momento la macchia di bellezza inchiostrale e il biberon affabulatorio del neonato.
Infatti, a poca distanza, e dopo molta erudizione, scoprirà un terzo tipo di cause:
quelle perse. Siamo quasi già del tutto sul ciglio di un traguardo.
2) L'infanzia dello scrittore: senza libri di fiabe in giro, solo un calendario dei frati
appeso sopra il fornello ultimo modello con la bombola incorporata che non si vede. Cure
di erbe, indovinelli, proverbi, usi e costumi, i frati hanno un armamentario infinito col
loro fare di ogni erba un particolare degno di descrizione. Loro ci campano, al dettaglio.
Senso picaresco del tempo e dello spazio: sentirsi diversi quasi per dispetto, sono tutti
troppo uguali. Sono già chiari i primi e definitivi stimoli estetico-sessuali (uno
scrittore sa tutto subito, non c'è cosa fondamentale di sé a quaranta che non sappia
già a quattro), aderisce a un rovo di biancospino fino a indagarne interiormente la
mimesi, si fa emulo di una rotula di contadina in bicicletta, di un maiale sventrato, di
una macchia di viole bianche, di un ricamo a punto erba su un cuscino.
Senso di essere dappertutto senza appartenere a niente perché c'è dell'altro che incalza
e chiede di essere riidentificato da te: spuntare e tramontare del sole, travestirsi di
luna fino a cadere nei fossi con essa. Dire no, fare come se le giornate degli altri
fossero cellulosa compressa fra n e o. Chi nega, afferma; chi afferma, non afferma niente.
Gli altri bambini non sentono così, te ne accorgi subito: non sono scrittori. E pensi
anche a due cose immediate:
che peccato, non sarò mai come loro, chissà che leggerezza la vita; la seconda: che
peccato per loro, non saranno mai come me, che peso la vita.
Può durare decenni una cosa così e come per incanto ti ritrovi tre manoscritti da parte.
Nella tarda infanzia letture tipiche per l'infanzia: Freud, Poe, Baudelaire (Povero
Belgio) e I Peccatori di Peyton Place. In altre parole: un'infanzia vale un'altra,
l'infanzia dello scrittore vale meno, cioè è quel che è.
3) Adolescenza: nella prima adolescenza è importante che lo scrittore in erba raccolga
attorno a sé tutti i pre-testi per farsi notare, dare scandalo e considerare tutti gli
altri ragazzi e ragazze degli oggetti sessuali a cui insegnare, invano, a fare il
baciamano e altro. Egli dà il via alla drammatizzazione di se stesso.
Non starà nel mezzo di niente, non avrà il senso della misura e neppure aspirerà a fare
bene quanto gli altri ciò che egli riesce già a far male tanto perfettamente da
costituire una sicura salvezza contro il gioco del pallone, i boy-scout, il catechismo, il
ginnasio, la prima motoretta, la prima ragazza, il primo ragazzo, la prima sigaretta. In
questo senso meglio che abbia tutto dietro alle spalle e opti da subito per
un'enumerazione da ottuagenario. Lo scrittore in erba deve essere altro, sentirsi
ingiustamente escluso dal consorzio umano delle gite coi preti, accumulare una scorta di
offese mortali e, chissà, una punta di gelosia e di invidia, che ne so.
L'importante è che la rabbia cresca e cresca tanto di più quanto maggiormente lasciata
scoppiare e sparsa attorno -formulare l'odio per evitare la calamità del livore represso
e inespresso. Lo scrittore sarà pieno di lividi, verrà fatto passare di picchiatore in
picchiatore, rientrerà a testa alta sanguinante, riuscirà a trionfare nella durezza
della sua inaccettabile inermità, e se ne andrà da casa prima dei quattordici anni.
Altrimenti, se affronterà razionalmente la sua diversità costruendosela al tavolino
della Civica Biblioteca, tanto vale che si rassegni a essere uguale, perché lo sarà:
chieda perciò ai padrini e ai genitori di essere iscritto a una scuola di
creative-writing e si faccia tenere alla cresima da qualche Calvinista.
Io sono del parere che un po' di disagio sessuale non guasti (conoscere la carne degli
altri per non capirci più niente della tua), ma non è una condizione imprescindibile per
nascere scrittori.
Prime peregrinazioni sempre più lontani da un nucleo fantasma - lo scrittore apprende la
sua sintassi staccandosi. Si stacca dalla propria sensibilità, che della scrittura è il
fertilizzante e non certo il frutto: per descrivere la chimera bisogna averla consumata in
tanto inchiostro, bisogna farla esistere quel tanto che basta, non quel tutto che non
basta mai. Vive lo scrittore da giovane in uno stato di sospensione fra il non essere e
l'essere sé - e il cercarsi una rete di protezione perché in entrambi i casi fa fare un
salto mortale alla fantasia. La sua vita poetica soffre delle frustrazioni di essere di
versi e senza alcuna ufficialità sociale, accademica di fatto. Che nessuno intervenga per
aiutarlo. Non si può far niente per uno scrittore, ma tutto contro di lui: che lo si
lasci in balia delle sue bufere e delle sue fami, se le sta guadagnando col sudore della
sua intelligenza. Uno non fa falle alla propria barca e appicca un incendio nella stiva
per poi vedersi buttare a mare un volgare salvagente. Ci si astenga dalle buone azioni con
uno scrittore, o diventerà un cronista poco sportivo.
Dopodiché lo scrittore dà la stura alle ideologie personalistiche di un'identità forte,
decisa e, pertanto, in fieri sempre: ricerca di una burocrazia in cui forgiare un proprio
modello di sé a uso e consumo dei propri bisogni, farsi esistere socialmente senza
demordere sul piano privato o intimo fino a ridurlo a una bazzecola purché non puritana,
dare corpo a un'unità sociale di persona dove prima c'era solo una parcellizzazione
macchiettistica.
Essere corpo con tutto il corpo se aspiri al bodoniano, altrimenti, se l'omologazione
dello spirito prevale a tal punto da optare per la via di comodo della scissione dalla
carne, accontentarsi di essere un copro-corpo, un letterato che fa la morale senza saper
raccontare la favola.
Innamorarsi perdutamente dell'amore quel tanto che basta per non ripetere più
l'esperimento: alle proprie grandi e assolute passioni che spengono l'autonomia della
scrittura, preferire quelle di medio calibro degli altri che ti divertono quanto basta per
scriverne. O scrittore adolescente! non restar chiuso per mesi in uno sgabuzzino per paura
che chiunque incontri per strada sia più felice di te, e medita su quest'altro concetto
di felicità: se già scrivi, che te ne fai della felicità? se già scrivi, che bisogno
c'è di vivere?
Imparare a lasciar vivere chi non ha altro da fare. Impossibilitato a scrivere
organicamente (una casa, un reddito, "una stanza per te) ma già dialetticamente
sulla strada giusta per alienarsi il bon-ton dei falsi scrittori parecchi dei quali
maledetti - per cui sarebbe possibile e vivere e scrivere, mentre le due cose,
escludendosi a vicenda, sono solo una e non torniamoci più su -, lo scrittore alle prime
armi vive ferocemente, si dà e prende in pasto, cambia lavori, padroni, città, paesi,
centri infettivi - avrà una salute di ferro unita a lamenti leopardiani su brufoli
scambiati per gobbe cancrenose. Lo scrittore legge moltissimo e nell'uníco modo adeguato:
disordinatamente, così non sarà costretto a uscire dai Normali di Pisa e a dimostrarlo
anche quando espelle il fumo di una gitane. C'è ben altro di zingaresco in lui: egli
capisce subito che sarà il più grande scrittore del suo secolo. Se non lo capisce o
tergiversa su questo obbligo morale all'illusione superna, dopo alcuni tentativi fallítí
di romanzo diventerà un direttore editoriale e si ridurrà a uno snob, e che gemiti ogni
volta che gli consegni il manoscritto che avrebbe potuto fare anche lui Se.
4) o 5) La maturità (età di Nessuno per eccellenza: diciotto, diciannove anni? ma se a
tre anni sapevo già che preferivo il pistolino alla fessurina!): lo scrittore comincerà
a rendersi conto che quanto ha scritto in tutti questi anni non ha un senso che per lui
(le poesie!), e quindi se ne sbarazzerà, percepirà il divario incolmabile fra la
propedeutica alle parole e la scrittura. Capisce che il proprio cervello non basta per
scrivere: deve lavorare col cervello di tutti. È proprio venuto il momento (lustri!) di
fare qualcosa che abbia un senso di per sé. L'impresa di raggiungere uno stile è
forzatamente dolorosa: senza una moralità non si impara neanche a tirare in dentro le
punte dei piedi piatti. Dovrà pertanto crearsene una e, cominciando a trasformare le sue
magagnette in scarpette della madonna, diventerà critico e tendenzioso (ma con quale
perentorietà tecnica!), pertanto oggettivo. Nella finzione di una morale diventerà
compiutamente etico, perché la morale è uno sforzo analitico del pensiero narciso per
formularsi in linguaggio evangelico. Se lo scrittore non dispone di io interessante da far
subito narrante (e quindi non ha fatto niente nella vita per rendersi altro da sé e da
ogni sé) è meglio che rinunci immediatamente a narrare la propria vita. Se è ancora sua
risponde a un unico plesso nervoso senza specchio e non interessa a nessuno al di fuori di
lui: un lettore vuole che si parli della propria, e in questo senso subliminale accetto la
nozione di committenza esterna in letteratura: che a sé scrittore è semprep referibile
chiunque altro se si deve proprio scrivere su e di qualcuno. La cosa, ovviamente, non mi
ha mai riguardato. Meglio che lo scrittore si alleni su una storia d'amore fra una scatola
per scarpe e un laccio di ricambio, altrimenti correrà il rischio di diventare un minore
dell'Ottocento russo o del Settecento francese come quasi tutti oggi in Occidente. E non
copiate Italo Calvino, per favore: copiate direttamente Raymond Roussel, ma siate
consapevoli che il mercato è già saturo di chi ha copiato entrambi e fa della carineria
francese non in originale.
6) Qualche anno dopo.
Poiché lo scrittore scrive e non pubblica (se poi siete stati belli e schizzinosi come me
è ancora più difficile) e vuole entrare a tutti i (propri) costi dalla porta principale
dell'editoria per non lasciarsi alle spalle cadaveri di riconoscenza negli armadi
nepotistici, politici, mondani, sessuali (sembra proprio di sì e anch'io ne avrei una da
raccontare: dalla grande azienda alla stamperia con torchio a conduzione
familiar-incestuosa gli addetti ai volumi danno tutti una palpatina all'autore, e se la va
la va), ha imparato a suo tempo un paio di lingue straniere e adesso si offre, quasi
gratis, di tradurre opere di sicuro prestigio letterario e editoriale (Joe Ackerley,
Goethe, Heimito von Doderer, Christina Stead, John Ashbery, Meg Wolitzer, Lewis Carroll
etc.). Passano, diciamo, sei anni di ulteriore tirocinio e eccolo tutto pimpante e a pezzi
con la sua opera prima e le raccomandazioni necessarie sempre e comunque, con la
differenza che è stato lui a farsele. Ormai sono tanti gli editori costretti a aspettarsi
l'opera prima di questo testardo paladino antipatico, presupponente e, non c'è che dire,
ottimo traduttore (puntuale e invero umilissimo: siate umili ogni volta che c'è qualcosa
da imparare in giro), che, per forza o per amore (sempre per forza), devono subire lo
scacco di sapere chi è, si, questo "scrittore" e dovranno pur prendere una
posizione contro la sua opera prima, magari proprio pubblicandogliela. Il dattiloscritto,
cioè e quindi, viene letto subito, come un dente che ci si toglie con uno strappo. Si
pubblica - con rabbia di tutti gli addetti ai lavori che, oziosamente, l'avevano respinto
storcendo il naso. L'opera prima ha successo, meglio se non solo di stima. Se non ce l'ha
non è di per sé un male, ma meglio che abbia successo: i posteri sono già abbastanza
sovraccarichi di insuccesso-adesso = gloria-sicura-dopo e bisogna dargli una mano subito,
materiale in sospeso che da secoli attende di essere evaso, gloria a camionate che
ristagna.
Il primo romanzo in corso di stampa, lo scrittore avrà il buon senso di spaventare
chiunque con la sua prolifica serietà e organicità e determinazione: presenterà, en
passant di là, la sua seconda opera - di 700 cartelle -, senza dire che sta già
scrivendo la terza. Non è vero che gli editori si scandalizzano di fronte a una
produzione intensa e di qualità: si scandalizzano che tu possa e gli altri della stessa
scuderia no, e è impossibile rifare il proprio catalogo trentennale in quattro e
qua-trotto. I letterati si scandalizzeranno comunque, ma di loro non è questione: sappi
che se non ti rivolgono la parola, è perché nelle loro insonnie le hanno spese tutte a
maledirti a alta voce con la consorte (spesso un libico che gli fa gli haiku giapponesi).
L'editore che punta su di te deve vincere. Magari tu no, ma lui sì, a ogni costo.*
L'editore vero e di grande qualità imprenditoriale, se è perfetto, alla fine scompare.
Per un Beato del Nulla si fa tutto e anche di più. Da parte sua l'incitamento alla misura
e alla strategia editoriale («Bisogna spaziare le opere... A proposito, quando consegni
il prossimo romanzo?») è routine, ma guai se lo prendi in parola: da te ormai pretende
abusi di te stesso. Per
questo ti lascia libero, perché nessuno meglio dello scrittore sa distruggersi con le
proprie dita, egli è creatura autistica cannibalesca che mangia se stesso e si rumina e
espelle un'opera. Lo scrittore infatti si morde nella carne e dalla propria carne produce
opere e sapere. Lo fa non perché sia un macellaio che s'è incorporato lo spaccio: lo fa
perché gli piace mangiarsi. Sbranarsi è l'unico modo per colmare un vuoto fra le parole
e le cose: per patire l'offesa insanabile che "non esiste Il Paradiso Perduto di
Milton, ma esiste Il Paradiso Perduto di Milton una volta che costa cinque ghinee".
7) Amicizie: evitare le cosiddette amicizie influenti. Le vere amicizie influenti sono
imperscrutabili nella loro influenza, tanto vale non farci conto. Frequentare gli amici
che ti piacciono e anche i nemici che ti piacciono, non quelli che ti servono, perché non
è comunque detto che coloro che ti sono antipatici siano poi quelli che veramente contano
o, se contano, che siano quelli disposti a perdonarti lo sforzo fatto per soffocare la
nausea che ti ispiravano e ingraziarteli. Segui il tuo istinto (fa' in modo di tener ne
desto uno): non frequentare nessun addetto ai lavori, nessuno scrittore, nessun
intellettuale, o non in quanto tali. Basta aver aiutato una volta uno scrittore a
attraversare la strada per capire che anche lo scrittore più schivo desidera ardentemente
degli amici a vent'anni, si accontenta di un commercialista a trenta e dai quaranta in su
ricorre a un legale.
E così anche nel sesso: a parte la carriera ecclesiastica e i filmini a luce rossa,
consiglierei di non iniziare mai nessuna carriera che attraversi un letto, men che meno
una carriera letteraria - a meno che non siate davvero proprio brutti e schifosi: in
questo caso accettate a cuor leggero, non per la carriera, ma perché vi trovate di fronte
a un amateur e a un'occasione d'oro per far qualcosa di voi.
Le uniche carriere letterarie dove il letto conta dipendono appunto dall'eventualità che
il dirigente o il critico ex-sessantottino o l'anziano portiere scambiato chissà-per-chi
sia così strambo, dopo aver giaciuto con il di solito ranocchietto e giovin scrittore
italiano, da rifargli le stesse inaudite avances entro un limite ragionevole di tempo. In
questo caso il fioretto di prima si è trasformato in un assegno in bianco: lo scrittore
concupito trasformerà in forza contrattuale quella che fino a poco prima poteva essere
considerata una disgrazia di natura. Ma in tutti gli altri casi, lasciate perdere o andate
a letto con gli addetti-ai-lavori-nel-cassetto come se fossero umani come gli altri - se
ci mettete un po' di buona volontà, scoprirete che a modo loro lo sono.
Personalmente non ho mai legato scrittura e sesso, se non quello della scrittura stessa, e
mi sono trovato sempre ottimamente - "Il Dr J è in riunione; il Dr X è in viaggio;
il Dr Y è fuori ufficio", ma più il Dr JYX era assente e introvabile, più io
diventavo presente e lì. Ovviamente questo breve oracolo è rivolto soltanto ai maschi
aspiranti scrittori, perché non è concepibile che una donna, con tutto quello che deve
ancora fare per diventare uomo, perda tempo a scrivere cose che interesserebbero a nessun
uomo e a pochissime donne.
Le femmine che vengono meno al loro moderno compito di castratrici, si accontentino di
fare le ispiratrici e, se gli va male anche qui, le lettrici. È assodato che uno
scrittore si rivolge a qualcuno: se vengono meno le donne, a chi si rivolge? Tant'è vero
che se un uomo non fosse uno scrittore, sarebbe una lettrice.
Dunque: nessuna amicizia è da coltivare "in vista di", si diventa ciechi e non
hai amici. Chi porta una sola borsa, ne porterà a migliaia: diventerà un borsaiolo
d'università, uno scrittore mai. Ma i professori, universitari se ne fregano della
letteratura, gli importa solo delle pubblicazioni per punti.
Fare di tutto per non entrare in un giornale: alla fine di una carriera - e purtroppo
durante - scriverai un libro di ricordi che ti autorizzerà a piangere sul latte versato e
a sentirti migliore. Il degrado morale di un giornalista o di un direttore di quotidiano
è parallelo alla sua abilità di prostituire la parola al target senza mai aver sapúto
che cosa essa sia: lo scalfaroso non ha limiti, e della malafede ha fatto la leva del suo
appiattimento.
8) Invio del manoscritto all'editore (non inviare manoscritti agli scrittori: se sono veri
non hanno tempo per le ambizioni sic)degli altri, soprattutto se ben riposte, devono
pensare alla propria; ogni volta che prendi contatto diretto con uno scrittore chiediti
che cosa puoi fare tu, per lui: se niente, com'è verosimile, evita di prendere contatto):
A) (ricordarsi che dovrebbe dovrebbe venire una B) Inviare una lettera al direttore
dittatoriale e informarlo della tua intenzione di sottoporre a giudizio un'opera
letteraria. Di solito una circolare dell'incaricato invita a non inviare il manoscritto
(che sarà un dattiloscritto) perché i programmi editoriali sono al completo per i
seguenti tre anni e l'autore farebbe meglio a rivolgersi a altra casa editrice con
programmazioni meno serrate nel tempo, tuttavia... L'aspirante si aggrappi a questo
spiraglio e espiri il manoscritto e non si faccia scrupolo di richiedere il tempo
approssimativo per ottenere una risposta positiva o negativa che sia. Egli deve inventarsi
una forza contrattuale sin dai primi insuccessi, non deve dare l'illusione di lasciarsi
cadere a peso morto nelle braccia di Orfeo s.p.a.
La lettera di accompagnamento del dattiloscritto deve essere laconica e formalmente
gentile, non un saggio di scrittura anche se poi a modo suo lo è. Una lettera essenziale
è la più apprezzata, la più letta in profondità grazie alla sua carenza di
informazioni e auto-giudizi o supposti giudizi di altri, tanto più supposti quanto più
suffragati da fotocopie di lettere personali. Una lettera di tipo questurino fa volare,
seppure per un attimo, la fantasia di chi per
decenni è abituato a ricevere plichi accompagnati da altrettanti, plichi chiamati
"lettera di accompagnamento". La lettera ideale di presentazione - se si è
superata la barriera del tuttavia - dovrebbe essere così:
Gentile Signore,
La ringrazio dell'attenzione prestatami ed è con piacere che accolgo il Suo invito e
invio il mio romanzo... * Grato di una risposta entro i limiti approssimativi a cui
accenna nella Sua lettera del x. y. w., Le assicuro di non dolermi affatto di un esito
negativo e neppure del non reinvio del dattiloscritto, cosa a cui non deve sentirsi
obbligato. Trascorso il termine indicatomi, in mancanza di una risposta, mi riterrò
libero di sottoporre la stessa opera ad un altro editore.
Sincerarsí sempre che nel frattempo il "Gentile Signore," non sia diventato una
"Gentile Signora,": l'editoria quanto a androdromo forsennato è la Casablanca
del cambiamento di genere. E va da sé che nel frattempo avrete spedito la stessa opera a
tanti editori quanti il capriccio (e le finanze per fotocopie) vi detta. Qualsiasi addetto
ai lavori vi dirà che questo non si fa per lo stesso motivo per cui in un paesino una
boutique vuole l'esclusiva degli shorts col pesciolino rosso sulla patta: la concorrenza.
Fregatevene. Questa clausola vale dappertutto dopo che la stessa boutique ha passato
l'ordine e immagazzinato l'articolo e si è impegnata a una condizione di pagamento, mai
prima. Prima il rappresentante della ditta fa il giro di tutte le boutique, lascia giù il
campione e poi gli shorts col pesciolino rosso li dà:
a) a chi li ordina per primo;
b) a chi ne ordina di più;
c) a chi gode di maggior credito.
Non vedo perché un editore debba esigere un trattamento di favore contrario a ogni legge
vigente del mercato. La mentalità ideale dell'editore ideale è quella del
"Caccia-Pesca" venditore di cagnotti: entrambi amano i loro prodotti e il loro
commercio, ma questo da solo non basta a fargli cambiare mentalità.
Suggerirei quindi all'autore di non lasciarsi mai commuovere da gente senza scrupoli che
vende esche balneari. Non occorrevano manganelli citati in testa: basta assistere una
volta al resoconto del bilancio annuale di qualsiasi editore per rendersi conto che la
letteratura è menzogna. i
Forse l'immagine poco edificante dell'editore si riscatterà un poco non appena l'autore
diventato autore comincerà a conoscere da vicino i primi librai. Essi sono creature
mostruose senza nepure mille teste né una, i quali a loro volta si riscatteranno dalla
loro abbiezione caratteriale grazie alle prime lettere che l'autore riceverà dai suoi
lettori, i quali metteranno in crisi l'autore sino a, che si reputerà il solo
responsabile di tutto questo processo malefico e, finalmente, l'autore esisterà in ogni
sua propagazione mefistofelica, cioè commetterà lo sbaglio di ritenersi più importante,
delle nientità a suo servizio - e questo sbaglio abbiate l'accortezza di commetterlo sino
in fondo: a metà non c'è salvezza per l'autore, solo Statistica.
Ma ritornando alla lettera di presentazione del dattiloscritto e di te, io non metterei
nemmeno la data di nascita né la professione dell'aspirante autore (che di solito fa un
mestiere ma non sa resistere all'angoscia di crearsi un pedigree da scrittore: egli si fa
dovere di credere che ci sia differenza fra la stessa disgrazia di avere uno stato sociale
piuttosto che nessuno) né specificherei se si tratta di un'opera prima, seconda o
copiata. Anche qui valga la legge del cliché dell'amore quando è vero: chi ti ama ha
tutto il fermento intrinseco a cercarti e a prenderti come sei lamentandosene. Lasciare un
recapito - una ricevuta di ritorno per la certezza che il dattiloscritto è arrivato a
destinazione, che ha superato gli scogli più inaccessibili della voce Stampe: quelli
delle Poste e dell'usciere.
Il resto, per quanto riguarda te, d'ora in avanti o è facilissimo o impossibile.
Compromettente bussare e ribussare a porte già di per sé non spalancate.
Non commettete l'impudenza di allacciare la vostra inesistenza di scrittore infiltrato e
basta all'unica esistenza che vi è concessa di utenti telefonici: al direttore editoriale
non si telefona mai prima e raramente dopo. Sappiate aspettare, non è detto che ciò che
vi è andato storto in dieci mesi non vi riesca in diciotto anni di esemplare agguato.
Davanti a una lettera negativa del direttore editoriale, rispondete con una di cortesia,
perché tanto la segretaria che l'ha battuta e che la leggerà non c'entra. Anzi: sappiate
essere grati di questo responso sfavorevole: un giudizio costa, un giudizio negativo costa
ancora di più, e voi non avete ancora reso la carta e il francobollo che siete costati
per dirvi no. L'editore che vi dice no è più generoso di quello che vi dice sì, perché
il sì è un capitale investito e il no uno completamente perso. L'editoria non è
un'opera pia. Un editore lo si può solo lodare di pubblicare schifezze commerciali, non
condannarlo perché rifiuta capolavori ublimi. Se non ci ha ancora pensato nessuna
istituzione statale a
mandarlo alla forca per la sua crassa avidità, non darti tu delle arie giustizialiste se
non gli hai già fatto guadagnare abbastanza da permetterti di mandarlo al diavolo.
Comunque consolati e non disperare: qualcosa scappa sempre nel filtro editoriale anche
più spesso. Io, per esempio.
Non perdere la speranza, o autore respinto: però, visto che non avrai mai più la
possibilità di essere Aldo Busi perché te l'ho fregata io, devi essere almeno Lado Subi
e allora puoi presentare quel che puoi. Sia come sia, come consiglia anche la P.R.
Marquise de Merteuil, con l'editore limitati a far sfoggio di quelle virtù di cui non
riesci proprio a fare a meno.
P.S.: l'eleganza che colpisce favorevolmente un direttore editoriale ti costerà fior di
quattrini in copisteria se ogni volta rinunci alla restituzione del dattiloscritto. Se non
puoi far uso dei miei lussuriosi consigli sull'usi e getti pure, di sicura presa - non
creando false responsabilità o scadenze a chi non ti ha chiesto niente desterai il suo
buon umore e pertanto una tua identità già meno anonima -, fa' in modo di essere,
appunto, già di casa nelle case editrici avendo imparato qualche lingua straniera e
tradotto per sei anni: alla fine dovranno pur riconoscere di averti già visto da
qualche parte, e potrai scroccare tutte le fotocopie che vuoi. Inoltre, senza essere
nipotini di nessuno, già che ci sei, passa nell'ufficio della segretaria e chiedi del Dr
Taldei Tali: passavi di là e, se è possibile, desidereresti riavere il tuo
dattiloscritto respinto.
Di fronte al Dr Taldei Tali che si sforza di non sbadigliare dicendoti ora a voce che
«purtroppo non rientra nelle nostre collane» la perla inviatagli e che hanno rifiutato
di infilare, non fargli sentire tutto il tuo odio né l'esasperata sufficienza del
fallito: guardalo dritto negli occhi, fagli capire che non hai niente da fargli capire di
extra-testuale. Si sentirà kappao e - un istante! - comincerà a temere di essersi
lasciato sfuggire un capolavoro (di fatturato) che migliaia di editori, dall'istante
seguente, sono in procinto di far accreditare per i loro tipi...
Se vieni finalmente accreditato da qualcun altro, come è successo a me e a chiunque altro
sia nato scrittore come me, un lasso di anni quattro prima di ri-rivolgere il saluto al
talent-scout fallato è la giusta quarantena per i suoi rimorsi privati e i tuoi sfottò
pubblici. Se non ti ha permesso di fare qualcosa per la sua carriera, fa' qualcosa per
distruggerla o minarla; insomma, perdona solo se non c'è altro da fare.
In linea generale ricorda che un vero scrittore non viene scoperto: emerge, e poi ha tutto
il diritto di vendicarsi per aver dovuto venire a galla tutto da solo. Ovviamente a nessun
direttore editoriale conviene pensare che sia così e vorrà darti dei consigli -
continuare a darti dei consigli, come se il tuo essere scrittore non fosse che un
continuum del suo carisma. Tuttavia i consigli del direttore editoriale non sono come le
assicurazioni che ti danno l'ombrello quando c'è il sole: chi te li dà ha delle
responsabilità aziendali e non guarda mai fuori prima di darti il suo inutile ombrello.
Se decide di dartelo comunque, accettalo: lo puoi usare come prendisole, pararugiada,
paraculo, lo puoi lasciare giù nell'atrio della casa editrice. Questo omaggio-capestro fa
parte dei segni distintivi dello scrittore arrivato - a pubblicare : qualcuno d'ora in poi
non potrà più esimersi dal proteggerlo perché salta fuori che è pagato per farlo.
Lasciagli l'illusione che non è solo grazie ai tuoi ricavi che si guadagna il diritto di
credere in te, e più la sua sentita partecipazione è sentita più tu, scrittore, sii
mite con lui: pensa all'infausto destino di chi è tenuto a farlo con chiunque, sia con
chi pubblica le opere sia con chi pubblica le pere.
Ogni tanto questo qualcuno vorrà darti la dritta in fatto di letteratura: ascoltalo con
carità cristiana, chissà quante volte hai sopportato un refrain di Orietta Berti senza
dire niente. Però se cerca di coinvolgerti al punto da volerti fare un lavaggio di
cervello con le sue saponette di nove Stelle su dieci esprimi tutte le tue riserve fino in
fondo e subito. Se sono riserve gravi e lesive per lui - visto che non sono riuscite a
esserlo per te le sue - e lo scambio di opinioni degenera in uno scontro, evita di
insultarlo a tu per tu: l'avrai ferito senza testimoni, perciò inutilmente. Aspetta
invece di farlo a un pranzo sociale o durante un pubblico dibattito: l'ufficialità rende
tutto meno agile, vendetta compresa. L'unica cosa che conta nello scrivere è lo scrivere
e l'essere come vuoi tu e cosa vuoi tu: tutto ciò che mette in pericolo l'elementarità
anarchica della tua ossessione va stroncato senza pietà alla radice da qualsiasi (dico
qualsiasi) parte si insinui.
Sappiate che i collaboratori dell'editore - entità che aveva una fisionomia fino a tutti
gli anni '60 e che poi è venuta astraendosi sino al punto che oggi esiste un editore in
carne e carta solo quando fa bancarotta - sono dove sono anche perché sono stati
simpatici a tanti di quegli altri che possono esserlo anche per te. Inoltre, di massima,
sono esseri umano-pratici che di ogni faccia devono vedere sempre un'altra medaglia,
spesso nascosta all'autore privo di esperienza editoriale. Sono perciò terribilmente
suscettibili: guai a mettere in discussione la loro autorità solo perché non fai niente
per piacergli e li consideri dei subordinati o perché voluta, mente ignori che anch'essi,
la domenica, scrivono in proprio. Essi restano un'autorità e vanno rispettati perché,
essendo un'autorità necessaria, un'autorità vale l'ltra. i
Chiunque può permettersi di perdere, anche l'editore: lo scrittore no. Perciò non è
possibile che si possano stabilire delle alleanze in cui lo scrittore non occupi, per
diritto naturale, la cima della scala gerarchica, perché lo scrittore sta là per
convenzione, e non vedo come sia possibile per un autore essere anche il paladino-agente
di se stesso (delle sue opere) se comincia - male - lasciandosi scalzare da una posizione
di convenzionale suprema zia da esseri umani che, comunque, non hanno davvero nessun
interesse a esporsi più di tanto, e che lassù si ritroverebbero con le mani in mano.
Aiutali tu, scrittore, a stare al loro posto. Ove possibile, anche con delicatezza e
discrezione. Però, se non hai
una buona stoffa teatrale (l'autore si premunisca frequentando verso la tarda adolescenza
un "laboratorio" ove apprendere a\
simulare delle gaffes - doppie - o a progettarsi una stupidità di facciata per lasciare
agli altri qualche illusione di tuttosommata superiorità), non sforzarti mai di
dissimulare la tua personalità se è la sola che hai: mandali di brutto affanculo. È
positivo essere antipatici a qualcuno, tanto lo saresti né più né meno, e in più non
saresti simpatico a nessuno.
Ricorda, o scrittore: ogni volta che ti si umilia nella tua veste di scrittore troncando i
talloni d'Achille dell'uomo che sei, se subisci passivamente è la tua opera che ne
risente, e ciò non deve succedere. Creati perciò delle piccole zone franche o terre di
nessuno dove nessuno sappia cosa ne fai della tua umanità e subiscile lì le umiliazioni
di routine di un uomo senza portarvi mai lo scrittore e tanto meno la sua opera. Non
andare a impegolarti con l'impegno e le opinioni che o sono sempre l'impegno e le opinioni
del Principe o sono un modo saccente di imporre i tuoi bisogni. Se volete
fare carriera universitaria o, appunto, editoriale, siete scusati: ma allora avrete il
buon senso di non scrivere, cioè non l'avrete, e è inutile che andiate avanti a seguire
i miei consigli.
Autori in cerca di editore: non dovete piacere, dovete scrivere. Pertanto scegliete la
comodità del vostro carattere e l'igiene mentale, sicuri presupposti, seppure non gli
unici, della scrittura di valore: siate, si fa per dire, voi stessi.
Se, come ogni vero scrittore, nascondete in voi una pulsione di criminalità irrisolta in
cerca di sbocchi lasciatela irrisolta. Non cautelatevi contro l'umanità più di quanto
non siate già propensi per struttura intrinseca, cautelatevi pro: la vostra opera, la sua
integrità.
Pensierino dell'ultimo minuto: prima di aver pubblicato nessuno scrittore è tale e
conserva il suo stato sociale di sempre; non bleffare con te stesso al punto da dare un
ruolo alle chimere. Venti manoscritti nel cassetto non autorizzano ancora a nessuna
ineffabilità metafisica, ma solo a "Da Rosina, Cenacolo degli Artisti", sotto
l'ombra del tuo campanile. Kafka non sarebbe stato Kafka se avesse pensato di sé
altrimenti.
Se siete dei bravi scrittori potete permettervi un po' d'arroganza, come me: non verrà
scambiata per timidezza e vi verrà perdonata, perché è lampante che il narcisismo
dell'autore è l'unica forma di umiltà dello stesso davanti alla grandezza delle sue
opere, e in più la superbia strafottente è funzionale al proposito di scindere la
propria caduca contemporaneità esistenziale da quella eterna e artistica dell'opera
stessa. Ma se siete dei mediocri scrittori o avete presentato un ennesimo buco nell'acqua
delle buone intenzioni (né soldi né, almeno, prestigio per l'editore) sappiate stabilire
uno sparti-acque amniotiche fra timidezza e vanità, poiché raramente la seconda è
perdonata se non è sinonimo della annichilente timidezza che suscita ogni grande opera
nel suo autore - timidezza o prosopopea sono uno spettacolo di sé che vale quanto un
altro, espedienti di sdrammatizzazione dell'autore per conferire alla non-ordinarietà
dell'opera i suoi netti, autonomi contorni. Il mio narcisismo e esibizionismo sono così
plateali anche a me stesso che, appena me li tolgo e esco dall'ambitoletterario-per
reinserirmi nella vita normale (?), se qualcuno mi guarda per strada non mi capita di
pensàro ",toh, mi hanno riconosciuto, allora sono davvero Aldo Busi anche per
lorò" ma penso che me la sono fatta addosso, la sto perdendo e non me ne sono
accorto.
Per quanto riguarda l'immagine dello scrittore nei mass-media, toglietevi ogni illusione
consolatoria: non c'è differenza fra uno scrittore che vive in convento e dice di odiare
fotografi e giornalisti e mantiene "segreto" il suo numero di telefono, e uno
che si fa fotografare nudo sopra i denti di una sega elettrica, e non per la scusante
della metafora sulla nudità spirituale dello scrittore (folà rococò dei brutti) ma
perché se lo può fisicamente permettere.
Entrambe sono forme di pubblicità di sé, di cui la seconda certamente più spazientita e
meno arrivista della prima.
Uno scrittore sa tutto. Il suo mestiere è fare calcoli trigonometrici (che non so
neanche cosa_siano) sulla spontaneità e sulla purezza della parola, figuriamoci
sull'immagine massmediale. Stupidi sono i critici e i giornalisti che dicono che Beckett
tace perché sta muto o fa vita isolata perché non si fa vedere. Errato: è una tattica
chiacchierina e mondana quanto un'altra. Ogni scrittore desidera essere disturbato a modo
suo e tutti in ugual misura, solo che prima devono lagnarsi un po' e sentirsi bersagliati.
È l'unica peculiarità che accomuna gli scrittori veri a quelli falsi. A
causa di questo maleficio provocato dall'essere, ahimè, ancora vivi, ogni scrittore
ingenera la sua parte di confusione fra sé e l'opera, ma lo "schivo" di più.
9) Salotti e parties letterari: non pensiate, scrittori all'alba, che fare parte di
cricche, giurie, cerchioni letterari abbia mai resuscitato qualcuno dalla sua naturale
inesistenza. Tutt'al più diventerete uno scrittore per pochi intimi, uno scrittore di
opere tutte prime e tutte ultime ignorate anche da coloro di cui è il regno dei cieli se
non gliele fate avere a vostre spese. Vale la pena? Ai parties letterari non andateci. Io
sono stato a uno una volta, proprio agli albori, e mica c'entrava la letteratura:
l'edilizia, poltrone ministeriali, zuccheri e cementi, quotazioni nella borsa degli altri
sì. Arrivarono anche alcuni letterati "schivi", e la moglie tedesca di un
ex-editore fulminato in circostanze fin troppo poco chiare: zampettavano, zampettavano
tutti e parlavano di tiratura (di libri, s'intende). Mancavano solo i falò e, triste a
dirsi, i clienti.
Quanto ai premi letterari, andateci solo per riceverli e siate contrari solo a quelli che
non danno a voi; visto che li danno sempre a qualcuno che è peggiore di voi, toglietegli
anche questa soddisfazione di essere almeno peggiore di voi: è per questo che di solito
lo premiano, mica per altro.
10) Editing.
L'unico sostegno che uno scrittore deve cercarsi dispiegando tutto il suo perfezionismo è
qualcuno che conosca a fondo la sua lingua e faccia un'attiva pre-lettura del testo prima
che sia inviato all'editore (o alle stampe).
È impresa non facile trovare chi abbia un senso plastico, materico della pagina di un
romanzo dal lessema allitterazioni/assonanze) alla frase, figurarsi quello
dell'organicità dell'opera. Occorrono anni e anni di lavoro pratico, brutale, da manovali
della lingua per sapere cos'è. Personalmente non ho ancora trovato nessuno che mi
soddisfi in grado di correggere almeno gli errori di battitura - per non parlare di quelli
grammaticali (anacoluti, spesso semi-volontari) che ogni scrittore fa (la sua difficoltà
a scendere a patti persino con i fatti dati della lingua, nel mio caso:
volontà di forzare le preposizioni e tutta la transitività/intransitività dei verbi) e
che di solito tradiscono un disagio di tipo psicologico per la cosa che si stava
scrivendo.
Pochissimi correttori sanno cogliere la differenza musicale fra né e nè, e basta uno
spiccato regionalismo per battere come orecchio ti detta. Io, per esempio (e quale altro
mai?), lavorando anche su termini o giri stranieri che voglio snaturare o storpiare per
dargli cittadinanza italiana, molto spesso li storpio volutamente in modo sbagliato e non
c'è correttore di bozze così bravo da riconoscere che l'errore è correggere l'errore.
Ma, a parte queste idiosincrasie linguistiche tipiche e arbitrarie dello scrittore e di
scarsa importanza, per guanto riguarda la lingua e le leggi del romanzo (nel mio caso:
quelle del punto di vista non solo delfio narrante o narrato ma dell'io della lingua, che
è una specie di significante a doppia potenza) è più facile scovare qualcuno molto
preparato in una frazioncina di paese che non in una facoltà universitaria o in seno
all'editoria. I grandi esperti sono: una vecchia maestra bigotta che viva con dei gatti
soli con lei, un parroco di campagna con un debole per i decottí di ortica, stenditori su
commissione di romanzi rosa. Perché? perché sono impudichi, e con le faccende della
lingua hanno un atteggiamento forte, cioè una capacità di sintesi nel minor tempo
possibile. Capaci di qualsiasi allucinazione linguistica, sono altrettanto capaci di
vigilanza critica e di immediata ritorsione contro la stonatura: sottolineano in rosso. Il
che mette l'autore in grado di essere libero o di intervenire o di accumulare consapevolezza del topos passibile di oscurità (stilistica o
sintattica) fino a lasciarlo tale e quale.
Diffidate degli accademici che non consultano i dizionari con la scusa che li hanno fatti
loro: passati due anni, non sanno più niente di lingua e men che mai di lingua parlata se
hanno preso a modello letterario i loro stessi vocabolari. Inoltre non puoi chiedere a uno
che parla sempre e non ascolta mai di avere orecchio- di valutare la fonologia
dell'espressione verbale. Inoltre un professore universitario legge se stesso in tutto e
è incapace di attenersi a un testo che non sia il suo. Gli accademici hanno fatto
carriera a forza di prevaricare sui compitini a cui, in teoria, sarebbero stati chiamati:
docere, che è solo un mezzuccio per impossessarsi di una cattedra e mantenerla sino a
trasformarla in un trono. Non si può pretendere da loro che sappiano che gli accenti sono
almeno due, uno grave e uno acuto.
Vogliamo dire cos'è la letteratura? Secondo Tzvetan Todorov, e proprio all'inizio di un
saggio per cui non siete neanche obbligati a leggerlo tutto fino in fondo, "La
letteratura è... una opposizione al linguaggio utilitaristico, il quale trova la propria
giustificazione al di fuori di sé; essa è, per contrasto, un discorso
auto-sufficiente". Concordo pienamente, anche se avrei qualcosa da ridire su quel
"per contrasto" che mi sembra lesivo dell'auto-sufficienza totale della
letteratura e ne limita l'indifferenza utilitaristica. È come quando dici con cento
sfumature il tuo disinteresse personale per la religione e per un Dio istituzionalizzato e
ti dicono sbrigativamente «ah, ho capito, sei ateo», sottolineando non la tua assoluta
autonomia ma la tua dipendenza in negativo per opposizione all'unica entità a esistere
anche se non esiste (per te). Non voglio soffermarmi ulteriormente su questo punto: come
chiunque abbia scoperto un'elementare legge di fisica, vorrei appellarmi anch'io
all'oggettiva prerogativa di ogni scienza esatta: "insomma, ci si capisce".
Dunque, d'ora in poi sei uno scrittore.
Non credere che la magia onnipotente della scrittura si sposti dal foglio di carta e
transumani nella tua vita una volta che hai finito di scrivere quella pagina o quel
romanzo. C'è una grandezza che non ha eco e è quella che si dà la scrittura senza
elargire niente allo scrittore. Questa grandezza è statica in sé e non rifulge in altro
luogo che in se stessa - tu scrittore non esisti più, non illuderti di portartela
appresso come un distintivo, di esibirla come un valore, di farne merce di scambio nel
gioco mondano delle rifrangenze socio-simboliche dei ruoli. Se sei uno scrittore vero come
sei vero quando respiri, scrivi e basta, a nessuno verrebbe in mente di rivalersi di una
specie di status symbol per il fatto che respira. Altri tendono a scambiare questa
operazione meccanico-necessaria con un gesto continuativo del libero arbitrio della
creazione perché hanno bisogno di riscattarsi dalla propria mediocrità personale con una
maschera da scrittore. Non c'è trasloco fra opera e autore, non c'è mobilità di liquidi
possibili, perché l'unità di entrambi in un solo essere cessa con il compimento
dell'opera e non è mai neppure esistita appena l'opera è fatta pubblica. Non esiste
grandezza in uno scrittore vivente. La grandezza è data dall'eroe che vince o perde
perché tutt'uno con la sua spada , anzi, è eroe se muore, non se continua a vivere. Gli
scrittori vivono, eccome, e i più a lungo, perché l'età media di uno
scrittore non si è abbassata neppure con l'introduzione della radioattività nella sorte
dei mortali comuni.
Uno scrittore però può essere anche cortese e educato, compiaciuto mai. Egli sta al
gioco delle lusinghe sulla sua persona nella misura in cui sta imparando qualcosa sulla
follia degli altri e si sforzerà di non mandare a casa deluso il suo pubblico (pubblico
di se stesso) ma saprà quando è il momento di buttar fuori qualcuno a calci e senza
tanti riguardi. Non dar retta a qualcuno che ti ama perché sei uno scrittore e non un
imbianchino. Gli imbecilli sentimentali identificano l'opera con chi l'ha scritta per
meglio pretendere di sapere qualcosa su chi l'ha scritta, non sull'opera.
Tutto ciò è superficiale e ci fa invidiare di non essere un imbianchino, perché
senz'altro gliene capitano di migliori. Non è possibile lusingare uno scrittore, seppure
per effimero tornaconto, se non per farlo star male.
Mi è successo di trovarmi di fronte qualcuno in un giardino pubblico, al chiar di luna;
ci stavamo manipolando ma lui mi
guardava in modo strano e era come se temesse di venire al dunque - le manipolazioni di
sole mani mi stancano, e io probabilmente non ero in vena ma fuori. Ho capito di essere
stato riconosciuto e gli ho detto «tu sai chi sono, vero?», «si» ha risposto «sei
Aldo Busi». Io ho sospirato (odissea minima del raccapriccio) e ho detto «be', facciamo
finta di non saperlo» ma poi era impossibile per lui, e stavo per riabbottonarmi e lui mi
fa «io con te vorrei fare all'amore», immaginandosi chissà quale differenza di alchimia
fra far l'amore con Aldo Busi e sesso con me. Io mi sono
adeguato al suo scarto linguistico e gli ho detto «accontentiamoci del sesso». «Ma io
ti amo, non puoi sapere che cosa provo in questo momento!»
Identificava. Il che, se magnifica la potenza del lettore, riduce lo scrittore
all'impotenza.
Probabilmente non ho mai ricevuto dichiarazione d'amore più sincera di quella (ce l'avevo
in mano), ma per l'appunto me ne
sono andato. A.B. può ben scrivere struggentemente del suo bisogno d'amore o dell'isteria
dell'amore negato, ma poi è un essere pratico e va in giro esattamente come me a farsi
fare un pompino e chi s'è visto s'è visto. Il ragazzo aveva sbagliato ogni proporzione e
distanza fra me e me, che sono, sì, uno e bino e trino, ma a capriccio mio, giammai a
capriccio del recettore. Così non solo non mi ha fatto un pompino ma ha perso l'occasione
di amarmi magari proprio come intendeva lui.
Chiavare con qualcuno incantato dalla tua opera o, di solito, dalla tua fotogenia sulle
riviste rock, è una possibilità che mi fa accapponare la pelle - e certamente falsi
scrittori lo fanno, approfittano del falso essere di scrittori (sono in effetti solo
uomini pubblici e noti come tanti altri) e della loro congenita falsità predatrice e
sommaria che mira allo scopo, tralasciando ogni stile.
Uno scrittore vero quando esce dalla porta lascia a casa i romanzi che ha scritto perché
un falegname non va in giro con le sedie e i tavoli piallati del suo passato. Se lo fa, se
usa le sue pagine per darsi un'allure, esse non sono più opera, ma carta igienica e i
suoi volumi pareti di latrine (anche di lusso, come no) coperte di graffiti per oltretutto
molto improbabili appuntamenti e facilities.
Le persone veramente in gamba che attirano l'attenzione dello scrittore come tale sono i
lettori educati, quelli che nei luoghi pubblici vorrebbero rivolgergli una parola
qualsiasi ma se ne astengono. Un sorriso e un cenno del mento da lontano e in maniera
prussiana hanno il potere di commuovermi per giorni e, state sicuri, se capiterà un'altra
volta di incontrarci, sarò io a farmi avanti per conoscere una persona così
straordinaria. Ma nessuno si deve prendere con uno scrittore quelle confidenze che non si
prenderebbe con qualsiasi altra persona della strada. Solo gli stupidi uomini pubblici
sono sempre pubblici e vivono per essere riconosciuti come tali. Uno scrittore non va in
giro per farsi osservare, ma per osservare. Uno scrittore, poiché non fa niente di
specifico, lavora senza sosta. E a nessuno piace essere interrotto
quando lavora.
Se incontrassi me stesso in treno (oh! che tentazione!) non gli terrei un interrogatorio
sulle decine di interrogatori che rilascia e tanto meno gli farei il ginocchietto:
lascerei immediatamente lo scompartimento se proprio non stessi più nella pelle di
entrarmi in contatto: non esserci è stoico. E poi chissà: in balia del caso, un secondo
treno, un secondo incontro fortuito...
Scrivi e sii grande come puoi e come vuoi, e per il resto continua a fare come hai sempre
fatto. La scrittura è una ragione di vita solo se la vita fa affidamento su altre
ragioni. Non vale la pena di costruirsi un personaggio da scrittore se uno è scrittore,
che non dovere di rappresentazione di sé al di fuori delle proprie opere. Niente look,
non sei mica un cantante, un assessore o una soubrette. Scrivere è come per un italiano
pubblicare un'opera prima o una qualsiasi dopo per Adelphi: un lusso che si paga, non che
paga. Se paga - e di solito lo fa, dipende dalle esigenze personali, dal milieu dello
scrittore, ma lo fa - stare in guardia: può diventare un mestiere, gli altri ti stanno
facendo fare quella carriera che è contraria alla condizione neutra dello scrittore che
è quella non di salire, ma di non scendere e di non spostarsi da dove è da sempre. Puoi
prenderci gusto, montarti la testa, fino a non essere più in grado di scrivere una riga
se non entro un Vittoriale degli Italiani medio-borghesi.
I compartimenti stagni fra l'essere stato scrittore vero, non esserlo più o non esserlo
temporaneamente mai più, non sono così difficili da vedere. Se diventi un commerciante
di stracchini e mortadelle rilegate, impara a riconoscertelo per evitare il ridicolo
subito e, ovviamente, cerca di cavarne più vantaggi possibili, fatti intitolare una
piazza o una rubrica di critica letteraria su una rivista femminile, ma lascia stare la
letteratura. Infatti è ben triste scrivere per avere successo, sacrificare tutto il resto
e poi non avere successo. Dicevo di lasciar perdere la letteratura perché non c'è
peggior sacrificio di continuare a illudersi di immolare qualcosa che non si è mai avuto.
Risultato: fiasco garantito anche con la vendita delle mortadelle. Se siete dei velleitari
farete il libro giusto al momento sbagliato, se siete dei commercianti abili farete dei
libri giusti al momento giusto, se siete degli scrittori farete dei libri sbagliati al
momento giusto, se siete dei geni farete dei libri sbagliati in un momento qualsiasi.
Siate suicidali, il resto viene da sé.
Lo scrittore non è più desiderabile di un sacchetto della spesa una volta svuotato il
sacchetto. Sciocco aspettarsi dalla scrittura le cose che rendono sopportabile la vita
nelle attività normali e importante il risveglio degli uomini comuni: un amore, un
viaggio, un miraggio di charme, sete di giustizia, una vendetta andata a segno. Niente del
sublime pettegolezzo della vita dei suoi simili è possibile allo scrittore riconosciuto
per tale, e le stesse istanze della vita dei suoi, per modo di dire, simili, per lui
perdono ogni senso se avanzano nella sua anonimità di uomo. Non c'è per lui salvezza né
abbandono al di fuori dei meccanismi immediati della parola scritta e composita, la quale
esercita brutalmente l'eserci
zio di tenerlo libero e gonfio delle attese nominali dei suoi personaggi, e una nuova, non
recente consapevolezza dello scrittore del meno che è gli impedisce ogni compensazione di
superomismo nell'auto-distruzione. Tutto ciò che non è riconducibile alla scrittura
viene meno - non è consolante, ma è così. Del resto, guai alla serietà postera dello
scrittore che si suicida: avrà dovuto pur farlo in un dato momento e non si capirà
perché non l'abbia fatto prima e, visto che non l'ha fatto adesso, non gli si perdonerà
di averlo fatto in qualsiasi dopo. Non è sensato che esista la scrittura
e anche la vita, un vero scrittore lo sa e non ne fa una tragedia men che meno personale.
Vi si ribella con tutte le sue forze (va per esempio in Marocco o a un convegno su di lui
che è andato in a Marocco sapendo che sta andando nello stesso posto) perché egli sente
la meschinità servile di votarsi a una qualsiasi cosa - scrittura compresa - ma non
riesce a sfuggire alla stessa gabbia che cambia formato per lasciarlo temporaneamente
circolare spostando le sbarre a sua insaputa. E malgrado ciò lo scrittore non perde il
senso delle proporzioni (gli servono per i suoi personaggi) e non
si sente schiavo di un particolare destino. Il destino e l'infelicità sono per lui figure
retoriche non meno della volontà di rivolta e della felicità. Non è possibile lasciare
una gabbia per preferirne un'altra, finisce che era solo per cambiarle nome e allargare il
proprio vocabolario. Non si ritorna indietro da una vocazione: se fai un patto con Dio,
non puoi romperlo per fare un patto col Diavolo, questo farebbe parte del patto con Dio, e
il Diavolo lo saprebbe ma non te lo direbbe mai. Tutto ciò si chiama letteratura dello
scrittore vero: prenderla o farsi lasciare.
Uno scrittore vero non prende appunti per strada o al caffè perché significherebbe che
sta rubando tempo alla scrittura interna che non deve cessare mai - e che va celata
sempre. Nessun amante di scrittore che non tenga conto di questo tradimento permanente -
di cui gli appunti non sono che boccate di zolfo in un oceano di ossigeno - riuscirà mai
a prevalere sulla scrittura. Una volta fattasi, essa non ammette rivali: li inchiostra. La
scrittura tollera solo complici o, meglio ancora, comparse - amanti, mogli, mariti, anche
se io non capisco nessuno dei tre né da una parte né dalla parte dei partners... Uno
scrittore, secondo me, non solo non ha bisogno di compagno/a, ma neppure di un servo di
scena,
un essere di servizio che badi a lui e ai suoi bisogni più elementari.
Uno scrittore dovrebbe lavarsele lui le sue mutande o non portarle. Non riesco a
immaginarmi la vita di uno scrittore costretto a gratificare in qualche modo qualcuno
perché gli lava e gli stira un paio di mutande al giorno e gliele presenta posate sulle
braccia come il sacrificio di tutta una giornata di canina ubbidienza, la dedizione in
persona che si aspetta un cenno di riconoscenza, come se il permettere di lavargliele non
fosse già un onore sufficiente. Non riesco a immaginare la vita di uno scrittore in
compagnia di una moglie o di un'amica o amico con cui faccia coppia.
Infatti sono sempre tutte coppie mostruose particolarmente mostruose, un quadrupede senza
testa né coda, quattro zampe di
cui tutte e quattro vanno tutte e quattro per conto suo, pedinandosi. Da uno scrittore non
ci si deve aspettare niente sul piano personale: egli, se è vero, usa e getta, e non
accumula debiti affettivi, sessuali, sentimentali etc.
Uno scrittore è amato solo quando è adorato come un idolo di pietra la cui immagine non
dà la misura originaria della sua uma nità nell'immaginazione di chi si assume il
compito e la responsa bilità di adorare rinunciando a amarlo e a tante cose belle della
vita altrove e con altri.
Essere un vero scrittore non è allegro. Tutto ti scorre fuori dai polpastrelli se batti a
macchina: e né i tasti né la carta né i caratteri al tatto hanno la consistenza. Eppure
tutto passa di li. Lo scrittore è i suoi polpastrelli: un ponte che di per sé non
congiunge niente né è toccato dalle rive che congiunge né sfiorato dall'acqua che gli
passa sotto e trasporta. Lo scrittore si attraversa per fare attraversare la sua tribù, e
se l'avesse immaginato prima forse non ci
sarebbe stato. Ma è scrittore solo quando e se è ponte, e non c'è altro da fare o da
essere e, come ogni altro essere umano, ha nostalgia di non essere una barca o una
bicicletta o un furgoncino - nostalgia del paradiso perduto mai esistito, una nostalgia a
denti stretti che riduce la grandezza di ogni ponte a una riga, di fatto simile a niente,
e anche a meno.
Mi è caduto il dente che mi ero fatto mettere a Firenze quanti anni fa non ricordo. Il
dentista aveva pulito la cavità del nervo con pazienza da certosino, tutto un infilare
aghi sempre più sottili, e un fissare un ulteriore appuntamento fino a che finì per
servirsi di aghi invisibili. Si vedeva che ci teneva molto, e a me piaceva adeguarmi.
Stare a aspettare il mio turno nella sala d'attesa mi dava il senso di una chiamata.
Mi è caduto intanto che mi stavo sollazzando su una panchina ai Giardini Giusti di
Verona, mi sono sentito il dente scendere giù per la canottiera perché sono curioso e
stavo piegato a guardarmi l'uccello (è pur sempre un oggettino curioso) e una frazione
della caduta verso terra dell'uomo del monumento giù nella piana.
Era un'ora che stavo lì a camminare sulle mura, verso un crepuscolo tardivo da morirne,
aspettando che tutte le donne con cani, i vecchi con cani, i bambini con cani levassero i
guinzagli per prendere io il largo con le ali nella destra e l'uccello nella sinistra,
anche se non mi tira né si ritira perché non c'è ragione. A volte provo a eccitarmi col
pulviscolo che i cipressi o la luna diurna lasciano dietro le palpebre quando chiudo forte
gli occhi, ma da un punto di vista vegetale e cosmico ho le seghe impossibili (Barzelletta
da Modit: «Signorina, quanto costa fare l'amore con lei?», «Un milione.», «Oh, la
vacca, così tanto? E un pompino?», «Mezzo milione.», «Ma è cara, da matti! E una
sega?», «Una sega due milioni.», «Due milioni una sega?», «Eh, ma è fatta a mano
sa?»). Però al tramonto, all'inizio dell'estate, in un luogo relativa mente pubblico,
con il trambusto del traffico dalle strade laggiù attorno ai pendii, mi piace tentare
altre libidini, sconosciute. Ho tentato anche di concentrarmi su un sacchettino di
rifiuti, una siringa dentro un cespuglio di biancospíno, un preservativo rosa col nodo.
Inoltre scalda, è un calore diverso da quello della bruma di giugno dentro a un paesaggio
che sfiata. Il calore di una volontà. Forse di una violenza. Il calore di un indocile
odio per se stessi.
Quando non ci sono più né cani né umani faccio la solita cagatina accanto alla
panchina, che è quella più in alto di tutte, perché da bimbo io andavo a farla nei
campi e il riflesso della natura mi risolve ogni stitichezza. Vengo qui anche per
tributare un omaggio alla terra arsa dall'afa e dai veleni invisibili che la minano minuto
dopo minuto, darle un antipastino sifilitico del mio concime finale, modesto. Qui adesso
guardo nel buio, occhieggio le sagome che si spostano sulla scalinata centrale e non
possono vedermi. Il pensiero solitario, il pensiero più religioso è piacevolmente
ridimensionato: Onan è anagramma di nano e, riducendo, si arriva di nuovo lì... Al meno
del meno appunto: un buco. Chi sta salendo con un transistor sottobraccio scaccia la
possibilità che si tratti della Nona: la vecchia canzonetta invece fa "tu mi fai
girar tu mi fai girar come fossi una bambola", la bambola riconoscente perché se non
girasse su se stessa non farebbe nient'altro e penserebbe che la sua vita è stata
inutile. Poi fumo.
Un'atmosfera coi fiocchi, post-nucleare, i nervi cresciuti sopra l'invisibile tuta di
amianto incorporata. Un genere umano nuovo: 1'in-qui-nato. Da qui non mi vede nessuno, non
fosse per la brace della sigaretta, perché la mia panchina preferita, semidivelta, è a
ridosso della striscia di terreno di riporto che si erge sino alla rete metallica dei
giardini. Oltre la rete, sotto, ci sono i viali della Stazione Ferroviaria, l'enorme
parcheggio con le carovane degli zingari, macchine che vanno e vengono per via dei
travestiti. Una zingara esce e stende il bucato, canta una nenia, e alla fine del lamento
sento una risata scarcassata. Neanche dal basso nessuno potrebbe vedermi perché sono
nascosto dal tronco del cipresso e avrei un'eternità a disposizione per rimettere in
braga il tutto e il nulla o lasciarlo dov'è, nel non-luogo della mia mente e di chi si
avvicinasse...............................
Tratto dal libro Sodomie in
Corpo 11 di Aldo Busi, Mondadori Editore, Milano, 1988.
Indice
Il
Senso dell'Arte di Andros
"Tutta l'arte è perfettamente inutile",
scriveva Oscar Wilde. Questo è il concetto che molti pensatori hanno
diffuso, come un virus. Questo è quello che solitamente sì pensa; e spesso
non lo si dice in senso negativo ma, al contrario, con questa frase si
intende aggiungere ulteriore valore all'esperienza artistica.
Liberata da antichi scopi (religiosi, celebrativi, magici, esoterici,
rituali, storici, edonistici...), oggi ancorai di più, l'arte sembra non
avere scopo alcuno se non quello di riempire le tasche di, qualcuno.
L'essere umano ha bisogno dell'arte? No. Questo è probabilmente vero.
L'arte è utile alla vita.
Ne ha bisogno come della procreazione. Questa è la verità.
Ne ha bisogno per legarci a sé in maniera ancora più forte; per legare a sé
anche chi non la ama, anche chi con l'arte crede di poterle sfuggire, anche
chi non ha una funzione, anche chi non genera.
Persino gli uomini (intesi come maschi). Sì, perché gli uomini, non potendo
procreare, hanno qualche problema in più nel trovare una giustificazione
alla propria esistenza; dovendo così gestire un vuoto esistenziale che una
donna non riuscirà mai neanche ad immaginare (spesso neanche gli uomini se
ne rendono conto).
L'arte è uno degli stratagemmi, uno dei più riusciti, che la vita ha scovato
per legare a sé chi avverte l'inutilità del proprio esistere.
Questo perché gli esseri umani nascono, ma poi muoiono.
Tutta la nostra esistenza è soggiogata da una verità che in genere scopriamo
tra i sei e i nove anni di vita: siamo destinati a morire.
E in questo le donne, che per un attimo possono godere dell'illusione di
immortalità tramite la propria prole, non sono messe meglio, in quanto
procreatrici di futuri cadaveri.
Una tragedia di proporzioni immani!
La vita che, per quanto strana, stiamo imparando a gestire e ad amare, un
giorno finirà.
Non sappiamo quando. Non sappiamo come.
E quello che viene o non viene dopo, è solo una chiacchiera da bar.
Come se non bastasse, diventa sempre più difficile trovare un posto per
parcheggiare la macchina!
Cosa può esserci di più fastidioso?
Siamo degli esseri senza senso e senza scopo, su questa terra che conosciamo
appena, in un universo che non potremo mai comprendere a pieno, destinati a
spegnerci, a caso, forse all'improvviso o forse in seguito ad un lento
stillicidio.
E dopo?
Altro che "complesso di Edipo"; quello che ci distrugge è il complesso di "e
dopo?".
Se la vita, notoriamente più scaltra della volpe achea di omeriana memoria,
non, avesse approntato degli opportuni salvagente, con, questa prospettiva
davanti, annegheremmo tutti nel giro di pochi anni; pazzi, catatonici o
suicidi.
Procreazione... Religioni...
Ideologie... Amore... Arte...
Tutto fa comodo alla vita per tenerci a galla, per ingannarci e distrarci;
perché per la vita è fondamentale che ognuno di noi faccia parte del gioco:
anche se, presi singolarmente, la nostra presenza e il nostro operato sono
per lei del tutto ininfluenti.
Gli esseri umani vivono e accumulano esperienze alla rinfusa, non hanno
bisogno di domande la cui risposta non sia già scritta da qualche parte; non
cercano di capire cosa sia la felicità, purché qualcuno gliene fornisca
un'imitazione credibile.
Si aggrappano con tutte le forze a regole, buon, senso e ad una confusa
nozione di normalità, per sopportare l'esistenza, troppo complessa e troppo
sconfinata per non viverla sentendosi alla deriva.
Saziano la propria umana brama di eternità limitandosi a mettere al mondo
dei figli e ogni volta che lo fanno si dicono: "Sono io che lo voglio".
Intanto la vita, sorridendo con benevolenza, sentitamente ringrazierà.
Sono assolutamente funzionali a se stessi, alla vita e al genere al quale
appartengono.
Si applicano per adattarsi ai cambiamenti, capendoli o meno.
Studiano i nuovi, dubbi che hanno soppiantato i vecchi assiomi, assumendoli
passivamente come nuovi principi.
Sfruttano le proprie lauree applicando e mettendo a frutto i passi avanti
compiuti da altre menti, magari meno titolate.
Portano avanti una parvenza di società in grado di perpetuare la grande
illusione di democrazia, così falsa, eppure utile per non passare dal triste
al tragico.
Mettono su famiglia, spesso anche più di una, cercando di dare una strada ai
propri, figli, molti dei quali, con un po' di sfortuna, saranno gli esseri
umani procreanti di domani. Permettono insomma all'umanità, di essere quella
che è, in quella zona grigia tra ciò che viene considerato bene e ciò che
viene considerato male; tra mille contraddizioni e qualche ossimoro.
Ma la cosa più sublime è che fanno tutto questo senza rendersene conto.
Come lo faranno i loro figli, convinti di fare tutt'altro.
Lo faranno i figli dei loro figli, certi di essere degli innovatori.
Semplicemente esistendo.
Gli esseri umani, quindi, non hanno fatto altro che dare dei nomi carini ad
un loro bisogno primario.
Noi chiamiamo "arte" il patetico tentativo di dare un senso alle nostre
esistenze.
L'arte è la voce della nostra paura della morte. Senza lo spettro della
morte, niente potrebbe essere definito arte.
Ancora una volta, l'arte si dimostra essere una distrazione; confermando la
pigrizia del tempo, che finge di cambiare le cose per lasciarle inalterate.
Luigi Pirandello ne "Il fu Mattia Pascal" scrive: "Per quanti sforzi
facciamo nel, crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che
la provvida, natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per
fortuna, l'uomo si distrae facilmente".
Vincent van Gogh scriveva: "Non vivo per me, ma per la generazione che
verrà". E ancora: "Ebbene, per il mio lavoro rischio la vita e vi ho perso
metà della mia ragione".
A che pro? Chissà quante volte se lo sarà chiesto, pur avendo ben chiara la
risposta.
Creare illudendosi, di dare un senso a tutto; di allontanare la morte, di
assicurare una parte di sé all'immortalità, di allontanarsi dal nulla che è
già addosso a noi, dentro di noi, come una ferita mortale, e che, con, la
distrazione che abbiamo chiamato arte, riusciamo a far dolere meno;
nell'attesa che il dissanguamento si compia.
Arte come forma di lenta e rateizzata eutanasia...
L'artista conosce la verità, ma non gli riesce di fare a meno di prestarsi
al gioco dell'arte, perché senza creazione la vita, fa troppo male.
Il senso dell'arte è inesistente come quello della vita.
Il senso dell'arte è il senso della vita.
Eppure, è proprio questa la nostra fortuna, artisti o meno: vivere una vita
che non ha senso e che quindi ci permette (di cercarne uno della nostra
misura, che non sia universale, precotto, già scritto, ma che sia nostro. Il
nostro senso della vita.
Cercarlo è inevitabile. Trovarlo, è possibile?
Sesso e Arte
Sesso: sublime calamità!
Base e motore della vita, il sesso è il fine ultimo di tutte le cose dette,
fatte e pensate dagli esseri umani. Vero centro di gravità dal quale tutti
ci sentiamo attratti e intorno al quale ruota il cosmo intero.
In fondo, cosa è stato il Big Bang da cui tutti proveniamo, se non una
clamorosa e primordiale penetrazione del nulla, con conseguente eiaculazione
di tutta la materia presente nell'universo?
Alle donne dà la possibilità di creare senza fantasia, dare forma senza
plasmare; è ciò che le rende forti di una debolezza che le ha segnate per
millenni.
È ciò che le rende uniche nella loro banalità; possibilità preclusa a noi
uomini, che dobbiamo accontentarci dell'arte.
Agli uomini dà l'illusione di poter rientrare nell'utero che li ha
partoriti, per poterne poi uscire rinati; e rinascere ancora, e ancora, e
ancora... intere vite spese nel tentativo di rientrare in una donna!
Pensare che una pratica così piacevole come il sesso, l'esperienza più
avvolgente e completa che la vita ci offre, possa essere causa di un
disastro di immani proporzioni, come la nascita di un nuovo essere, mi ha
sempre fatto riflettere; mi ha fatto capire che tutto nella vita ha un
prezzo, e che se non siamo noi a pagarlo, qualcuno sarà costretto a farlo
per noi.
Quello che facciamo ha un prezzo, quello che diciamo ha un prezzo, la vita
stessa ha un prezzo, persino quello che non facciamo e quello che non
diciamo hanno un prezzo; e la vita passa sempre a riscuotere!
Indice
Riflessioni sul Copyright?
Per la Corte di cassazione scaricare da internet files protetti da copyright
non è reato se non c'è scopo di lucro. Benché si riferisca in realtà a fatti
coperti dalla normativa precedente alla legge Urbani, questa sentenza è
un'utile occasione per discutere di proprietà intellettuale (copyright e
brevetti) in un'economia moderna. Sulla carta, la legge Urbani (che peraltro
non verrà mai applicata) è tra le più severe d'Europa. Ma ha ancora senso la
proprietà intellettuale? Lo dico come provocazione personale. So per esempio
che il direttore del Sole-24 Ore, anche perché ha fatto l'editore, la pensa
in maniera opposta. Ma parliamone... Partiamo dal caso più semplice, il
copyright artistico, cioè la proibizione di copiare, rivendere o utilizzare
in pubblico un cd o un dvd, che di fatto attribuisce al produttore un
diritto di monopolio. L'argomento usuale della Siae e della sua controparte
americana, la Riaa, è che questo monopolio permette agli autori di
recuperare i costi fissi per produrre una canzone.
Continua u pagina 12In sua assenza, molte opere d'arte non verrebbero
prodotte, e il mondo sarebbe più povero culturalmente. Ma questo è falso.
Lo sostengono Michele Boldrin e David Levine (due economisti della
Washington University di St. Louis) in un bellissimo libro disponibile su
internet, su cui gran parte di questo articolo è basato. Bach, Mozart e
Beethoven scrissero la loro musica quando il copyright non esisteva e gli
spartiti (i cd del XVIII secolo) venivano copiati liberamente. E certamente
Picasso avrebbe dipinto Guernica anche senza royalties su ogni poster che
riproduce il quadro.
Abolire il copyright non significa che un artista non possa vivere del
proprio lavoro. Se un cd di Madonna potesse essere copiato e rivenduto
liberamente, la prima copia costerebbe molto più del prezzo attuale, perché
porta con sé il diritto di rivendere il contenuto a qualsiasi prezzo il
mercato accetti. Le copie successive scenderebbero progressivamente di
prezzo, esattamente come oggi molti spendono 10 euro per guardare un film il
weekend dell'uscita mentre potrebbero vederlo a 3 euro dopo due mesi al
cineforum.
I profitti degli autori sarebbero in ogni caso sufficienti per coprire i
costi iniziali e offrire una remunerazione aggiuntiva; verrebbero però
grandemente ridotte le enormi remunerazioni dei cantanti e attori di punta.
Si dice spesso che questi guadagni sono determinati dal gradimento del
pubblico, e quindi dal mercato. Vero, ma sta a noi decidere se vogliamo che
il mercato sia monopolistico o concorrenziale. Per chi crede nel mercato, ma
non riesce a riconciliarsi con l'idea che un'artista possa guadagnare
milioni per cantare mentre si fa crocifiggere su una struttura di vetro
pensando di fare chi sa quale operazione culturale, oppure per fare
monologhi più o meno incoerenti alla televisione, la soluzione non è la
censura (che non funziona mai), ma l'abolizione del copyright.
Né il mondo sarebbe culturalmente più povero senza copyright, anzi.
Scomparirebbero le case discografiche, che oggi si accaparrano enormi
rendite e di fatto consentono l'accesso a pochi artisti. Molti più di questi
ultimi avrebbero quindi accesso al mercato, non essendovi più bisogno della
Siae che, di fatto, tiene alti i prezzi e i costi proteggendo il monopolio
di quei pochi che vengono distribuiti. Dobbiamo però temere che gli artisti
esteri diserteranno il mercato italiano perché non protetto dal copyright?
No, perché il prezzo che potranno ottenere è sempre maggiore di zero.
Lo stesso discorso vale per gli altri casi di copyright artistico, cioè per
libri e film, e in genere per la proprietà intellettuale, inclusi quindi i
brevetti scientifici. Quasi tutte le industrie nuove non avevano copyright
nella fase iniziale e più innovativa. In decine di settori tra i più
innovativi (moda, banche d'investimento, open source software) i costi fissi
sono alti eppure non ci sono brevetti.
Si dice spesso che il brevetto consente la ricerca in farmaci con alti costi
di sviluppo e domanda limitata, e quindi beneficia tutto il mondo. Ma i
costi fissi sopportati dall'industria farmaceutica sono più limitati di
quanto si creda, e la domanda è elastica. Fino al 1978 in Italia i brevetti
farmaceutici erano proibiti, eppure la nostra industria farmaceutica era
composta di decine di aziende con una reputazione mondiale di innovazione;
sappiamo tutti cosa è successo negli ultimi 30 anni.
Questi sono argomenti delicati, che richiedono un dibattito serio e
rigoroso. Per ora potremmo accontentarci di un passo più modesto ma
significativo. Se il ministro Bersani cerca già idee per la prossima
lenzuolata, eccone una: ministro, abolisca la Siae.
Roberto Perotti Il Sole 24 Ore 7 febbraio '07
http://www.micheleboldrin.com/research/innovation.html
Il libro di M.
Boldrin e D. Levine Indice
Più
cultura e a titolo gratuito.
Chi fa cultura a titolo gratuito? docenti, studenti, studiosi, autodidatti,
casalinghe, disoccupati, collezionisti, fotografi e disegnatori amatoriali,
ecc. (può darsi che me ne sia dimenticato qualcuno).
Insomma tutti i liberi cittadini che in tutte le parti del mondo stanno
arricchendo la rete di contenuti liberi e intenzionalmente condivisibili.
Forse dovrebbe essere la SIAE a far mettere sottochiave le opere degli
artisti che intende tutelare e permetterne l'accesso tramite password e a
pagamento. A quel punto nessuno degli artisti beneficerebbe più di tutta la
pubblicità gratuita che la rete potrebbe dispensare loro attraverso la
pubblicazione del/la loro nome, immagine, video, audio... Evidentemente il
libero web fa comodo alla SIAE!
Fatto curioso: spesso mi giungono delle richieste di pubblicazione sul mio
sito web, da parte di gruppi editoriali di rilevanza nazionale, di
recensioni di libri scolastici e di romanzi realizzati da autori
SIAE-dipendenti. Quando li informo che la pubblicità si deve pagare per
finanziare parte del nostro lavoro volontario, spariscono come un fulmine...
Circa dieci anni fa mi ritrovai a discutere con il responsabile di una
notissima casa editrice di libri scolastici sull'idea di un prodotto
editoriale accessibile a tutti (libri di testo, romanzi di autori affermati
ed emergenti, ecc.) e che, soprattutto, costasse poco. Mi guardò stralunato
dicendomi che quando quelle cose sarebbero entrate nella sua casa editrice,
lui sarebbe andato via dalla porta...
Risultato: lui siede ancora su quella poltrona (anche grazie all'esistenza
dell'assurda adozione obbligatoria dei libri di testo), i libri, i cd, i dvd
costano più di prima e in più dobbiamo pagare degli invisibili balzelli che
vanno a finire nelle tasche della SIAE. Anche per quello che non leggiamo.
Le case editrici, i gruppi editoriali e moltissimi enti inutili vengono
finanziati con i soldi delle nostre imposte e delle nostre tasse; la RAI
prende i nostri soldi per fare dei programmi spazzatura e poi, se li
vogliamo rivedere, li dobbiamo acquistare. Così li paghiamo due volte (se
non di più).
Spazzatura sono anche i progetti di lettura dei quotidiani a scuola: molta
carta straccia e trash-informazione che sottraggono soldi alla scuola
istituzionale indebolendola sempre di più senza............... contribuire
ad "aprire" la mente alle giovani generazioni.
Proposta: boicottiamo la SIAE non solo per le immonde richieste fatte al web
scolastico nazionale ma soprattutto perché vuole continuare a speculare
sulla cultura ad uso e/o di produzione dei privati cittadini che, grazie
alla condivisione delle reti e dei computers, sta (fortunatamente) crescendo
a vista d'occhio.
Boicottiamo le case editrici e le major discografiche per il prezzo
esagerato dei libri e dei prodotti multimediali.
Partecipiamo attivamente a rendere più libero il web incoraggiando i nostri
studenti e i nostri colleghi più o meno giovani a pubblicare e a condividere
le proprie idee e conoscenze attraverso la rete (esistono migliaia di
progetti liberi che lo permettono).
Pubblichiamo i nostri appunti e mettiamoli a disposizione dei nostri e di
altri studenti e ricordiamoci che la prepotenza di pochi loschi individui si
consolida laddove le maglie del tessuto sociale sono sfilacciate.
Davide Suraci
Indice
Letteratura e Giustizia
(Un caso concreto)
Parallelismo tra il pensiero di Gennaro
Francione e quello di Visar Zhiti (1)
DALLA PARTE DEI VINTI di Visar Zhiti (2)
Sono sempre dalla parte dei vinti,
con i loro sforzi
(che avvicinano luce).
Fino alla vittoria
dopo fuggo, li abbandono
e mi unisco
ad altri vinti,
…quando conseguo qualche vittoria,
mi separo anche da me stesso
per combattere nuove battaglie…
solo le vittorie
senza vinti,
amo!
Per il poeta albanese Visar Zhiti, come per la sua connazionale santa Madre
Teresa, i Vinti sono i poveri. Sono gli indigenti materialmente e
spiritualmente; sono gli affamati e gli assetati; sono quelli che hanno
bisogno di vesti; sono i senza tetto e i senza asilo; sono i malati;sono i
portatori di handicap fisici e mentali; sono i vecchi; sono i prigionieri;
sono quelli che sono soli; sono gli ignoranti e i dubbiosi; sono quelli che
soffrono; sono quelli privi di aiuto; sono i perseguitati; sono le vittime
dell’ingiustizia; sono i maleducati e gli irascibili; sono coloro che
peccano e parlano con scherno; sono quelli che ci fanno del male; sono i
paria della società. Insomma, i Vinti sono, in un modo o nell’altro…noi
stessi.
Quando il 15 Febbraio 2001 il giudice – scrittore dott. Gennaro Francione
stava giudicando i 4 venditori in strada di CD contraffatti, la sua
coscienza di uomo e di magistrato si trovava davanti ai Vinti di Madre
Teresa e di Visar Zhiti.
Nietzsche fa dire a Zarathustra : “In colui che vuol essere profondamente
giusto, persino la menzogna diventa filantropica”.
Ne “I fratelli Karamazof” Dostoevskij riflette sul fatto che “se il giudice
fosse giusto, forse il criminale non sarebbe colpevole”.
Tucidide afferma: “Pensiamo che non sia un disonore riconoscersi poveri, ma
che sia un’autentica degradazione non tentar di liberarsi dalla povertà”.
Platone ne “La repubblica” insegna: “Il giudice non dovrebbe essere giovane;
dovrebbe avere imparato a conoscere il male non dalla sua anima, ma da una
lunga osservazione della natura del male negli altri; sua guida dovrebbe
essere la conoscenza, non l’esperienza personale”.
E Gennaro Francione è uomo di conoscenza. Recita, tra l’altro, la sua nota
sentenza di quel giorno: “…gli imputati hanno agito in stato di necessità
essendo mossi nella loro azione di venditori di CD contraffatti dalla
necessità di salvare se stessi dal pericolo attuale di un danno grave alla
salute e alla vita rappresentato dal bisogno alimentare non altrimenti
soddisfatto”.
Dice, nella sua poesia, Visar Zhiti:
Sono sempre dalla parte dei vinti,
con i loro sforzi
(che avvicinano luce).
Il giudice Francione, ben conoscendo i pericoli personali cui si stava
esponendo con la sua sentenza (la successiva interrogazione parlamentare di
due deputati reazionari e l’immediato intervento del ministro della
Giustizia per sottoporlo a provvedimenti disciplinari lo comprovano)
seguiva, senza alcun tentennamento, i dettami della propria coscienza.
La coscienza – dice Somerset Maugham, nel suo libro “La luna e sei soldi” –
è la custode, nell’individuo, delle norme che la comunità ha messo a punto
per la propria conservazione. Swedenborg ne “Gli arcani celesti” afferma che
“la coscienza è la presenza di Dio nell’uomo”.
E i Vinti di Visar Zhiti “con i loro sforzi avvicinano luce”, la luce che
riporta a Dio. Stare dalla parte dei Vinti significa dunque accrescere la
propria energia spirituale fino ad innalzarsi alle supreme vette cui gli
esseri umani possono aspirare.
Gennaro Francione, come Visar Zhiti, è ben consapevole di ciò. Il padre
della psicosintesi Roberto Assaggioli, ripete che “…Occorre dire ben forte a
questa umanità tutta volta a cercare all’esterno il benessere e
l’appagamento, assetata di piacere e di potenza, che tutte le conquiste
sulla natura, tutto il dominio della materia, tutta l’intensità e la
rapidità meccanica possono avere tutt’al più valore strumentale, significato
simbolico, ma che soltanto per mezzo del risveglio dell’anima profonda,
soltanto con la riconosciuta e realizzata sovranità dello Spirito, l’uomo
può acquistare quella vera potenza, quella pace sicura, quella divina
libertà, che è la suprema, inconscia aspirazione”.
I Vinti consentono che si realizzi il risveglio dell’anima profonda. La
sentenza “anticopyright” pronunciata il 15 Febbraio del 2001 dal giudice
Francione scaturisce dalla profondità della sua anima.
Ma prosegue Visar Zhiti:
“Fino alla vittoria,
dopo fuggo, li abbandono
e mi unisco
ad altri vinti”.
Non può che essere così. I Vinti hanno un grande coraggio per condurre la
vita che conducono.Sono obbligati a vivere come vivono perché questa
condizione è stata loro imposta. Sussurra l’albanese Madre Teresa: “Noi
scegliamo la povertà, loro sono obbligati ad accettarla”.
Gennaro Francione accompagna i Vinti, sottoposti al suo giudizio, fino alla
vittoria, dopo fugge, li abbandona e si unisce ad altri Vinti. Allo stesso,
identico modo indicato da Visar Zhiti. Per questo magistrato ci sono ancora
tanti altri uomini da sollevare, da recuperare nella dignità umana, da
giudicare con equità, serenità e piena coscienza. E spiega, nella sentenza,
tra l’altro: “L’azione degli oligopoli produttivi appare in contrasto con
l’articolo 41 della Costituzione Italiana secondo cui l’iniziativa economica
privata libera non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza.
- Dante Alighieri, Inferno, XXVI, 118 – 120
Conoscenza e rispetto della dignità umana operano in modo simbiotico verso
la strada che porta alla crescita spirituale.
Roberto Assaggioli ci conforta ancora, su questo punto, chiarendoci come la
spiritualità consista anzitutto nel considerare i problemi della vita da un
punto di vista elevato, comprensivo, sintetico: nel saggiare tutto in base
ai veri valori, nel cercare di arrivare all’essenza di ogni fatto, senza
lasciarsi arrestare dalle apparenze esterne, senza lasciarsi illudere dalle
opinioni tradizionali, dai preconcetti personali.
Ancora Visar Zhiti:
…quando conseguo qualche vittoria
mi separo anche da me stesso
per combattere nuove battaglie…
Si, per poter essere giusti talvolta bisogna separarsi dall’Io egoista che
reclama privilegi e vantaggi; ce lo ha spiegato molto bene George Ivanovitch
Gurdijeff. “E non è facile - ci dice questo maestro spirituale – perché
l’uomo non ha un “Io” permanente ed immutabile. Ogni pensiero, ogni umore,
ogni desiderio, ogni sensazione dice “Io”. E ogni volta sembra doversi
ritenere certo che questo “Io” appartiene alla “Totalità” dell’uomo,
all’uomo intero, e che un pensiero, un desiderio, un’avversione sono
l’espressione di questa “Totalità”. In realtà nessuna prova può essere
portata per convalidare questa affermazione. “L’uomo è una pluralità”-
conclude Gurdijeff – “Il nome dell’uomo è legione”.
Se si aspira alla crescita spirituale bisogna superare il meccanicismo che
ci condiziona; bisogna impadronirsi della conoscenza della macchina umana e
di tutte le sue relazioni con quelle che chiamiamo Mente e Coscienza. Non si
possono combattere battaglie a favore dei Vinti, se si è dominati
dall’attaccamento alle cose materiali.
“L’egoismo comune necessita e cagiona l’egoismo di ciascuno” – dice Giacomo
Leopardi nello “Zibaldone”-
-“Necessitas non habet legem” – continua Gennaro Francione nella sua
sentenza sui Vinti. Ogni attaccamento al privilegio viene stroncato
inesorabilmente dallo stato di necessità. Ciò altro non significa che il
rispetto della dignità umana è prioritario su ogni altra cosa.
Sussurra ancora Madre Teresa: “I Vinti (poveri) sono meravigliosi. Hanno una
loro dignità che è del tutto evidente. Di solito non li conosciamo e quindi
non siamo in grado di scorgerla”.
Visar Zhiti e Gennaro Francione del rispetto della dignità dei più deboli ne
hanno fatto una ragione di vita. Visar Zhiti scontando 8 lunghi anni di
carcere duro nei gulag comunisti d’Albania; Gennaro Francione sottoponendosi
spesso alle umiliazioni di chi avrebbe voluto, e tuttora potrebbe volere,
imbavagliato il suo grande grido di Giustizia.
Conclude Visar Zhiti:
“solo le vittorie
senza vinti,
amo!
Il poeta albanese così come il giudice nostrano, non vogliono il
combattimento; rifiutano lo scontro, le rivalità, le guerre. Vogliono sono
una Giustizia Giusta, senza vincitori né Vinti. Vogliono che trionfi la
Solidarietà e l’Amore: la stessa identità di pensiero, dunque, unisce ed
affratella il grande poeta albanese e l’altrettanto grande giudice –
scrittore italiano.
Roma 13–09–03 Costanzo D’Agostino
Articolo pubblicato nel sito
www.antiarte.it
(1) Visar Zhiti nasce a Durazzo nel 1952. Laureato in letteratura albanese,
giovanissimo insegna a Kukes, località al confine col Kosovo, dove viene
incarcerato a ventisei anni per le sue poesie e processato per propaganda
sovversiva contro il realismo socialista.
Condannato a tredici anni di carcere duro, condivide la prigionia politica
ed i lavori forzati nei gulag dell'Albania con altri intellettuali tra i
quali il pittore russo-albanese Valeri Dyrzi Tarasov, che sarà poi autore
della copertina del suo libro Croce di carne(Ediz. Oxiana, Napoli 1977).
Nel 1987, scontata la pena, viene liberato e come tutti gli ex condannati
politici, la cui macchia resta a vita, può lavorare, solo da manovale, in
una fabbrica di mattoni.
Oggi, notissimo nel suo Paese per l'intera opera poetica, assurge a simbolo
dello persecuzione con ruolo primario nella letteratura contemporanea
albanese. La notorietà internazionale lo premia con traduzioni in greco,
macedone, rumeno. E' presente in antologie francesi, tedesche, inglesi.
In Italia vince il premio per la Poesia Leopardi d'oro nel 1991 e il premio
Ada Negri nel 1997. Un suo racconto è pubblicato negli Oscar Mondadori. E'
citato nella Piccola Treccani. Ha pubblicato Dalla Parte dei Vinti(Suoni e
colori d'Albania), Edizioni D'Agostino, 1998, intervenendo con Le piaghe non
hanno patria in Una santa albanese di nome Madre Teresa, Edizioni
D'Agostino, 1998.
Deputato al Parlamento del suo Paese nel 1996, è stato Ministro consigliere
alla Cultura dell'Ambasciata albanese a Roma. E' membro dell'Accademia
Internazionale delle Arti "Alfonso Grassi" di Salerno.
Ecco un caso esemplare di poeta candido, troppo per il sistema, per ciò
stesso degno di essere imprigionato. Reo di non essere il robot che il
sistema pretendeva che fosse.
Un Libero.
(2) La traduzione dall’albanese è stata curata da Elio Miracco, direttore
della cattedra di letteratura albanese all’università “La Sapienza” di Roma
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