"Diario di un
Barista"
Ho comperato un quaderno nuovo, avevo una gran voglia di mettermi a scrivere qualcosa, non
so cosa. Ho tanto tempo a
disposizione e non so mai che farne. In famiglia, ora che mi sanno ammalato sul serio a
causa della nevralgia del trigemino, s'è stabilita una certa calma, una tregua un po'
tesa che potrò comunque scordare trovando uno spunto per scrivere qualcosa. Sono andato
al distretto militare di Ghedi, a quello di Brescia, e poi all'anagrafe: loro leggevano
questo numero sul congedo, 28, e poi guardavano me e poi di nuovo il numero dell'articolo,
increduli.
Perché mi sono deciso a questo acquisto di fogli bianchi da riempire? Ieri, come per
sortilegio dopo tanta attesa, ho sentito che i miei pensieri andavano spontaneamente
componendosi in immagini di linguaggio scritto, da soli, senza alcuna
intenzionalità, come è già accaduto, e che, contemporaneamente, questo filo che mi
brucia tutt'intorno la faccia si raffreddava e io stavo meglio e mi passava il mal di
testa. Non m'importa di quei pensieri e non ne ricordo uno: essi sono stati
l'annunciazione che un'idea poetica va maturandosi in segreto e che devo tenermi pronto a
realizzarla quando verrà
il momento. Aspetto, senza forzare il respiro. Faccio lunghe gite in bicicletta al fiume,
per distrarmi dall'incombenza psicologica di questo evento gratuito, per non molestarlo
con l'impazienza dell'infermo che non vede l'ora di potersi disarticolare. L'importante è
non ridurre tutto a una trama.
Vado a far visita a questo e a quello, se capita, se lo spasimo si cheta un po'; gli
racconto della mia esperienza militare. L'altro giorno ho fatto da manovale a mio fratello
Dolfo. Non c'è niente di più obliante che il sentirsi le vesciche sui palmi delle mani
che si gonfiano e si spaccano e ricrescono e si rispaccano, sino a che non si è fatto il
callo. È un dolore sopportabile, non fosse altro perché per un manovale o un muratore o
un piastrellista è inconfessabile: se vogliono sfogarlo a tutti i costi, si metteranno a
prendersi in giro subito dopo ogni smorfia di dolore, altrimenti finirebbero per perdere
il loro posto se sono degli operai subordinati e s'illudessero di farlo pesare, che ne so,
per avere la paga più alta. Il dolore sussiste e è inutile a tutti gli effetti.
Fortuna che poi, con l'andar del tempo, i palmi si calcificano come la malta che hanno
voltato e rivoltato e trasportato nei secchi; fortuna che la sofferenza si stratifica e
non è più tale, diventa un'abitudine non più logorante di tante altre e chi è
costretto a fare della sofferenza un mestiere per tutta la vita non ne ride più neanche
per scherzo, non fa più le smorfie tipiche degli apprendisti, e finisce per dimenticarsi
di questa sofferenza, di questa violenza, perché troppo
dentro di lui, ormai inscindibile da lui, quasi natagli dentro insieme alla milza e al
fegato. Naturale, cioè.
Bisogna ribellarsi fintanto che si è a tempo, fintanto che ciò che subiamo non viene a
tal punto interiorizzato e fatto nostro da sembrarci così e basta; bisogna espellerlo,
creare un margine fra sé e la propria sofferenza, non permetterle di fagocitarci, di
usare i nostri pronomi al nostro posto, non lasciarle dire "io"; bisogna
ribellarsi sempre, ributtarla fuori, in faccia a chi ce la fa subire, sconfiggerla o farne
un'arma tagliente sempre sospesa, che serva come contrappeso nei contratti, che diventi
denaro contante, cioè capitale, cioè forza contrattuale. È ben difficile, invece, per
chi fa muri -per chi è il lavoro che fa - non diventare muro lui stesso. Come Dolfo: fa
il piastrellista e da un paio d'anni s'è messo da solo e guadagna anche bene. Però credo
che, fra quanti gli pesteggiano attorno, solo io a volte bado a dove metto i piedi.
Perché è troppo tardi: perché lui è diventato a sua volta un pavimento anche per tutti
gli altri, visto che lui par primo non ha fatto niente per non diventarlo. Ormai fra lui e
un pavimento non c'è più differenza; gli si può camminare sopra e non manderà più
lamenti di un mosaico di mattonelle, anche se murate vive, e lui ne è cosciente e mi
irrita che di tanto in tanto non mandi uno scricchiolio di ribellione. Niente. Si potrebbe
misurarlo, prenderne il metraggio tanto è piatto e amorfo, rivestirlo di carta
plastificata per attutire il rumore quando gli si cammina sopra (come mio padre, o sua
moglie, che cammina addirittura altrove e con altri) e lui non reclamerà, non reagirà,
gli sembrerà che se è così non può essere altrimenti.
E la certezza che lui sappia (non stava sveglio di notte per diletto a fare traduzioni dal
latino fino a poco tempo fa?) mi disturba, perché m'impedisce di disprezzarlo a fondo,
perché rende problematico il mio disprezzo nei confronti della sua rassegnazione. La sua
consapevolezza a proposito di questo suo stato di accettata schiavitù sociale e
intellettuale e familiare mette in crisi il mio stato di ribellione continua e totale: non
ce la faccio a condannare la sua passività morale, falsamente cristiana, proprio perché
di questa passività è consapevole e, visto che non ha forza sufficiente per farsi
portare rispetto, ha deciso una volta per tutte che portare la croce sia più
gratificante. La sua indifferenza, la totale accettazione della sua condizione umana di
persona carponi quindici ore al giorno a far pavimenti senza altro pensiero che quello di
riuscire a accelerare il ritmo ancora di più, mentre sua moglie si concede ogni
inquietudine, mette dell'attrito fra me e il mio modo di pensare e di vivere che reclama
la ribellione immediata (e sociale prima che "umana") contro uno stato di fatto
allorché se ne diventi consapevoli.
Chissà che cosa sono in procinto di scrivere, dentro questa emozione di attesa.
Presagire? no, non ne saprò niente fino all'ultimo momento; meglio non pensarci,
disimpegnare le ipoteche stilistiche e "le storie", "le trame",
isolarsi per ora in qualche paesaggio primaverile e respirare a pieni polmoni.
Far ginnastica con gli occhi, lasciarli sui rami di pesco, le siepi di biancospino in
eruzione, i viottoli di campagna, i ruscelli, le sterpaglie del fiume, per adeguarsi a
quell'intuizione di rinnovamento che ho avuto a contatto con una rondine. Non è
fantastica la presunzione primaverile di rivivere in sé le sensazioni di una rondine che,
valicati paesi e mari, ritorna al suo condominio di grondaie e ritrova il nido? e io, con
un nuovo condensato di essenze umane, attraverserò il mondo e gli uomini e tornerò a me
stesso, a ali spiegate, nervi tesi e occhi incandescenti.
Durante la mia prima lunga assenza da casa, Lucia ha dipinto sul muro dirimpettaio del
tavolino su cui scrivo un grosso fiore azzurro, pistilli in eccessivo color arancio.
Attorno ha scarabocchiato col pennello intriso di acquaragia un alone fremente di verde
bizzoso, il capriccio infantile di chiudere le cose in qualcosa di bello. L'ha dipinto per
me, e dalle crepe dei petali esce un profumo affettuoso, il desiderio palesato che la
lontananza non durasse troppo a lungo.
Certo al mattino, senza che me ne accorga, da sotto l'intonaco svolazzano fuori farfalle e
palpitano di gioia quando spalanco la finestra. Ma non se ne vanno. È nella stanza che
consumano i loro voli, e se in segreto muoiono, certo prima restituiscono il nettare nel
fiore di Lucia.
Sul terrazzino, che è poi la nuda copertura cementata del cucinino, fazzoletti, camicie,
mutande, un lenzuolo, una fodera, canottiere, calze: che vedo come tante impronte lasciate
dalle mani buone di mia madre. E poi c'è la gabbia dei pulcini appisolati a ridosso gli
uni degli altri, tutta una massa bionda di vite ignare.
Whisky, la gatta rossa che raccolsi anni fa e era ancora un batuffolo, va su e giù per il
pergolato del cortiletto, si concede un viaggio di svago fra i germogli della vite, si
intrufola nella lettera A della luminosa che la sera fa CAFFE' ... CAFFE', spicca un salto
sul tetto spiovente di lamiera e fissa il vento che ha mosso. Lo crede un topo fantasma,
la preda più invitta della sua carriera di felino.
Sono ritornato a amare le risate a bocca spalancata, il rapporto non superficiale con la
natura che in questa primavera
rappresenta il mio sotterraneo rinascere a forme di vita più semplici, più complete e
più riservate. E nemmeno mi sfiora il dubbio che ciò accada a causa della debolezza
fisica sopravvenuta con la crisi dei nervi del trigemino. Approfitto di questi momenti di
serenità e non gli guardo in bocca, tanto sono rari e memorabili. Poi partirò di nuovo.
Andrò a Parigi.
Certo, le parole non sono prorompenti come una volta, belle e temerarie come allora. Mica
ho più undici anni. Io e la mia penna ci siamo cristallizzati un poco, ma questo lo
sapevamo già prima di riunirci e non c'è acrimonia fra noi due. Finché ci sono
sensazioni e inchiostro andiamo avanti, poi, quando arriverà il tempo magro delle idee,
ci deporremo, ci saluteremo senza rimpianti.
Metà aprile e già furoreggiano le mosche. Per me non sono, fastidiose. Le considero le
rondini private della mia stanza. Oggi non potrei più ammazzarne una: di tante persone
che, mi hanno succhiato il sangue, ne ho forse ammazzata una? Eppure tutte loro erano
tanto più consapevoli di queste mosche di sgravitare il mio sangue e la mia pressione. E
è pensando a quelle persone-mosche, a quegli insetti strapazzacazzo che ho odiato senza
reagire, che trovo sufficiente pazienza per sopportare queste mosche-mosche.
Nanda cara, stamane ho fatto finta che stavi voltando fangolo del municipio e che eri
diretta a casa mia. Mi si sono accesi gli occhi, mi sono messo a correre, ho giubilato
più volte il tuo nome simile a un vicolo cieco e mi ci sono buttato dentro e ti ho
stretta forte a me. Da dietro, sull'autobus, mi eri venuta accanto, e mi avevi detto:
«Ciao, Barbino ti ricordi quando venivi a chiedermi in prestito gli orecchini e ti
mettevi a ballare sulla sedia?» Dopo tanti anni eri lì dietro di me, e avrei voluto
dirti: «Non sei affatto cambiata» e non sarebbe stata una frase tanto per dire. Ho
sempre questo rimorso dentro: di essere sparito, di non essermi mai fatto vivo, poi, dopo
quella volta a Milano. Ma mi è sempre rimasto un certo desiderio di stare in tua
compagnia, di sapere com'erano i tuoi altri ricordi della nostra infanzia a Vighizzolo. Ma
c'era questo tuo presente che soffocava tutto: da una parte la ripetizione di situazioni
uguali, anche se tu le illustravi con molta ironia (il tuo bambino di tre anni a balia a
Bergamo; tu che, ovviamente, facevi il mestiere di tua madre, "manicure" o giù
di lì), e dall'altra quella cronaca dettagliata del cancro che ti portavi addosso con
troppa, disperante disinvoltura. Il tuo linguaggio automortificante mi feriva, mi faceva
nascere dentro un'emozione indicibile. E in questo mondo di palloncini gonfiati, niente mi
piace più della disistima di sé, quella vera come questa. Tu ti mettevi gli orecchini
lunghi lunghi. Tu dominavi con un solo sguardo gli sguardi di tutti gli altri bambini. Una
dea di pietra, la donna immortale, decisa a dominare con distacco, a non venir mai
sfiorata da una mano ignota venuta da chissà dove a piegarti, a costringerti a accettare
l'immonda carezza delle giustificazioni più glaciali e spiritose per dar sfogo alla paura
di una morte sempre imminente. Mi sei rimasta qui, come una lisca nella gola; dopo esserci
salutati e aver preso il tuo numero di telefono, io ho saputo immediatamente che non ti
avrei mai telefonato: per tutto quel pomeriggio e quella sera e tutto il giorno dopo
andavo in giro e mi sentivo te, cercavo di localizzare nei miei capezzoli il tuo tumore
spensierato e sotto le mie mani mi pareva persino che fossero i tuoi abiti a frusciare,
non i miei. E in testa mi sentivo come un corpo estraneo alla cute che non teneva bene,
che scivolava, come una parrucca messa in fretta o del tutto indifferentemente. Perché io
non ho fatto una parola, ma si vedeva che non erano i tuoi capelli, che questi qui erano
opachi, simili a spaghetti neri, malgrado la foggia fosse rimasta la stessa di quando eri
bambina.
Ma non era possibile che fossi tu, era un miraggio; e la mia lisca riprendeva il suo
posto. Potrai mai perdonarmi? Poi, indagando nella minuscola aiuola sotto la vigna, mi
sono reso conto che i mughetti sono ancora acerbi, che le viole sono passate, che
1'insalatina per le tortore è ancora un'intenzione vegetale, che il geranio ha bracci
d'ottone, che la dalia rossa fiorirà solo fra qualche settimana.
Allora ho cominciato a massaggiarmi la fronte e le guance, mentre la nuova covata di
tortore riprendeva a pigolare
nella gabbia verniciata di nero sopra quella dei pulcini.
Mi guardo attorno senza cercare niente di particolare: la mia camera è delle più
ordinarie, non si presta a sfolgoranti de
scrizioni.
Ci sono ragnatele brune alle travi, chiodi e chiodini nei muri, una grossa chiave di
stalla appesa a un chiodo, le scrostature di decenni. E starmene qui solo, quando i miei
si dimenticano per un po' di inveire contro la mia lazzaronaggine e la mia sofferenza
facciale («tutta una scusa per non fare niente! sei un lazzarone!» sbraita mia madre),
significa essere pronti a aprire la porta a qualcuno, ammesso che riesca a fare il primo
scalino senza essere scaraventato fuori nel cortile da uno dei miei.
Almeno la sera, soprattutto la sera, vorrei incontrare una persona per parlarle, per far
circolare le emozioni, darmi
aria, scoprire me stesso tramite lei, la mia sensibilità mai formulata se non
pallidamente sulla carta. La sera il senso di
vuoto, seppure non angoscioso, genera una malinconia superflua e fastidiosa nei miei
pensieri, perché la malinconia li blocca su se stessa e li sciupa, e da solo non riesco a
staccarmene per andare oltre il mio turbamento.
E quando, camminando per le vie del paese, non ce la faccio più a illuminare lo sguardo
immaginando questa persona amante che avanza verso di me, salgo quassù, accendo una
sigaretta, guardo attorno per i muri e per il cassettone e sopra i letti, fino a che o mi
metto a dormire - e non ci riesco - o ridiscendo, ricaricato di speranza, pronto un'altra
volta a sbircia
re in quei volti che conosco a memoria un'intesa che non c'è e mai ci sarà, in quei
volti omogenei e inespressivi, che non colgono il mio chiaro desiderio di loro. Non c'è
desiderio in giro; o se c'è, c'è anche il funebre rifiuto di farlo partecipe; c'è in
giro una gran paura di se stessi, paura che il mostriciattolo che racchiudiamo dentro
faccia capolino. Nanda e io siamo le sole persone che ho finora conosciuto capaci di dare
voce al proprio segreto e di vivere la parte vitale di ciò che è superficialmente
considerato morte o disonore; parlandone, ci rendiamo conto che non c'era nulla da svelare
e poi passiamo a altro. Gli altri non ne parlano e restano fissati lì, per sempre, e per
tutta la vita ciò che è scacciato dalla porta rientra dalla finestra - e in forme
orribili e tanto più mostruose. Non c'è buon senso in giro, nessuno che annusi il
proprio cervello con un minimo di buon fiuto. Tutti quanti così smaccatamente
sentimentali - e putrefatti dall'abitudine a usare clichés che sono l'altra faccia del
mutismo, della pornografia mentale.
E non avendo di meglio da fare, osservo come tengo la sigaretta fra le dita, come la
infilo fra le labbra piene di sangue coagulato dall'astinenza, come estrometto il fumo
calcolandone l'intensità. Mi specchio con acuto piacere, e non penso che a aumentare il
compiacimento. E se poi nel fumo gira un cerchietto, mi sento, so anche sentirmi felice.
Così mi piace pescare nei miei minuti fra una solitudine e l'altra. Mi piace il mio
collo, così alto e forte, quando i miei occhi scavano nella mia immagine riflessa. Mi
piace il gioco impercettibile delle mie membra che penetrano lo specchio e lasciano i
propri contorni anche quando se ne discostano, per tornare subito dopo a vedere se ci sono
ancora. Apprezzo la mia faccia delinquenziale.
E al massimo del piacere erotico (che non c'è mai stato: il sesso è una faccenda
maledettamente dolorosa, psicologicamente, fisicamente e socialmente; e poi c'è tutta una
prassi poco esplorata del mettersi finalmente d'accordo; insomma, un inferno fatto di
piccole preoccupazioni, di ansie bambinesche, di cretini scatti risolutori, ecc.),
lanciando gridolii, masturbo parole come femore, crostaceo, ecpirosi, mecioacan.
Distesa di mandorle rosolate nello zucchero e vaniglia, palazzine di torrone bianco, un
amico di albume montato, una panchina di caramellato e stendermici, il mio ventre sul tuo,
e provare la dolcezza del vivere.
E parliamone pure di meno: che la lingua taccia e la bocca si faccia gelato alla mela.
Vorrei scrivere tutto il giorno oggi, sento che non smetterei mai. Mi sono procurato le
sigarette in cambio di un libro - uno di meno che finirà nella stufa, non appena mia
madre è «sopra pensiero», come dice lei - e sono venuto qua sopra con la speranza di
avere molte cose da dire. Potrei cominciare col dire che oggi è lunedì di Pasqua e che
pioviggina e che gli uccelli fanno gran gazzarra fra le tegole. E ricordo quel lunedi di
Pasqua di due anni fa a Milano, di pomeriggio, il sole, in un giardino pubblico, seduto
sulla panchina vicino al chiosco delle bibite e di fronte a me stava un ragazzo della mia
età, di una bellezza fine e virile, con qualcosa di molto ironico nella piega delle
labbra; accanto, sulla panchina, aveva dei libri di scuola tenuti assieme da una cinghia,
forse stava andando a ripetizione, e io già pensavo che avevo solo due ore di libertà e
poi dovevo ritornare all'Hotel Terminus a preparare i tavoli per la cena.
Da dietro gli occhiali scuri lui poteva guardarmi a piacere senza essere scorto e questo
mi imbarazzava - troppe le affinità con Giacomino - e per difesa assumevo gli
atteggiamenti più strani per non essere impunemente studiato, definito. Probabilmente
soltanto un contorsionista avrebbe potuto aggrovigliare braccia e gambe come me in quel
frangente. Forse lui pensava semplicemente che ero matto. Sfogliava una rivista di motori,
io avevo un quotidiano ma non riuscivo a concentrarmi nella lettura tanta era la passione
che provavo in quei momenti: potermi accostare e parlargli! Era così bello. Si vedeva che
non era costretto a mangiare carne di maia-' le mattino e sera. Mi sembrava di bruciare.
Non provavo però alcuna invidia, non ho mai per un istante desiderato di essere altri che
me.
Mi misi a scarabocchiare parole da qualche parte, ma non avevo tempo per le parole, non
avrebbero mai potuto eguagliare per intensità quelle emozioni che saettavano assolute e
mute fra noi due. Ogni tanto ci fissavamo, brevissimamente; voglio dire che io facevo
finta che lui stesse fissandomi e ogni tanto improvvisavo a caso uno sguardo fisso, di
risposta. Avrà pensato che ero un caso umano. Forse lui era già così privilegiato,
forse era già così concentrato sulla scuola guida, e si sarà sentito in dovere di
trovarmi commovente.
E questo averlo a pochi metri e non conoscerci e essere attratti l'un l'altro in modo
virulento durò due ore e mezzo,
tempo più che sufficiente per dedurre che non solo io ma anche lui aveva captato quei
richiami telepatici.
Da tempo aveva smesso di sfogliare la rivista. Il mio giornale era finito appallottolato
nel canestro dei rifiuti. Aspettavo. Aspettava. Aspettavamo di maturare la spontaneità
sufficiente per chiedere un cerino, banale pretesto, o... che avremmo mai potuto
chiederci? Tentai di non pensarci, di appisolarmi, di fingere sonnolenza, di distrarmi
voltandogli le spalle, ficcandomi nel becco di un cigno nero che secondo me stava
sbadigliando, stanco di stare in ammollo a fare da testimone a una cosa che non succedeva
mai, che era ineffabilmente già successa e che nel mondo animale non ha senso. Mi mangiai
un fracco di gelati - e io detesto i gelati. Ecco, offrirgli un gelato. Ma no, ma come,
uno mai visto prima e vai lì col cono di gelato e gli dici, scusa, vuoi una leccata? E
nemmeno ci sfiorava il pensiero di prendere una decisione semplice come quella di metterci
a camminare, cambiare viale, panchina, cigno, seguirci per poi attaccare discorso... Lui
si toglie gli occhiali, i suoi occhi sono neri, quasi cattivi, e mi fissano con alterigia,
stizza malcelata nei miei confronti che non ero partito all'attacco, che l'avevo vinto sui
tempi troppo lunghi, tempi da intellettuale o da impotente. E sta facendo il primo passo
verso me. E nella frazione di un attimo faccio in tempo a vedere le sue labbra che si
schiudono in un sorriso, i suoi occhi che da serpenti arrotolati nel tempo della muta si
districano in una pelle nuova e dolce, mentre io correvo via, con lacrime di rabbia
frenate solo dalla necessità di sfrecciare dritto nell'albergo. Assomigliava a Giacomino,
era un altro Nessuno. Mi presi una bella ramanzina dallo chef e il giorno dopo dovetti
rinunciare alla libera uscita per via del ritardo. Così non lo vidi più.............
Tratto dal libro Seminario sulla Gioventù di Aldo Busi
Mondadori Editore, Milano, 1984.
"L'artista"
Riepilogando, l'artista non può e non deve
caricarsi sulla groppa i clichés (di qualunque natura essi siano) della società e del
suo orizzonte mercantil-consolatorio di attesa se non per stigmatizzarli e deriderli nella
loro sfacciata pretesa di assolutismo. Altrimenti produrrà un ennesimo clone rosa, nero,
giallo, verde-balletto tanto per restare nell'ambito dei generi letterari più in voga.
Del resto è biologicamente equo che questa mutazione estetica intrinseca all'essere
scrittore sia di per sé rarissima in natura (e, inoltre, di per sé non basta a produrre
arte) perché a molto l'uomo riesce a rinunciare ma non alla comodità ereditaria di
godere di una, sessualità contemporanea a sé e agli altri, che riconosca o promuova o
rinneghi se stessa non importa - il vittimismo degli omosessuali è un patrimonio facente
parte di questa comodità buttata in dote alla pecorona nera. Nelle sue forme di precetto,
la sessualità risponde appieno, senza consapevolezza di arruolamento, ai canoni dei
tabù, delle madonne sentimentalistiche, delle frustrazioni chimeriche, prona alla
secolarizzazione dell'unico modo di essere sessuali predisposto dalla cautela collettiva,
la quale, per includere il gene, esclude il genio.
Il genio artistico sorvola drammatico e frivolo questa prigione dell'essere sé-ssuali e,
per arcane ragioni che meriterebbero una trattazione a parte, decide di scardinarne le
sbarre, invisibili agli stessi imprigionati ma non a lui - violando così anche il senso
dello spazio e del tempo sessuali a cui quella data società si è convenzionata, e ciò
ha un'enorme portata strutturale nel concepimento dell'opera d'arte del genio (Beuys non
meno di Wilde, Flaubert non meno di Proust, Dante di Wilde, creatori la cui originaria
matrice sessuale ha perduto, secondo me, ogni preminenza per così dire biografica ai fini
di una disamina critico-estetica delle loro opere - e del loro essere uomini).
Un'altra convinzione di tipo ermeneutico, che confido con beneficio d'inventario - ma poi
non tanto, riguardando niente meno che me e il mio essere scrittore -, è che il genio
(prodotto dalla volontà sociale di crearsene uno, più che dalla volontà individuale di
diventarlo) non compie alcun sacrificio castratorio in questa trasumanazione; egli non
castra né sublima il proprio gusto ma i genitali in cancrena del Gusto come Verità del
mondo. Guai alla farfalla che rinnega o rimuove il verme, di cui è la perfetta
sovrastruttura, per fare le moine alla concupiscenza di una rete: viene infilzata a uno
spillo e subito messa in cornice sottovetro - le si fa un monumento da viva. L'opera
d'arte transessualizza il mondo senza per questo rifondarlo meno verista di quel che è:
essa non è del tutto assimilabile né del tutto digeribile dalla particolare società in
cui è stata concepita e recepita, altrimenti verrebbe cannibalizzata e espulsa. Ciò che
i cannibali non riescono a far fuori viene chiamato speranza. E la speranza è un
camaleonte che deve variare costantemente e impensabilmente di sesso se vuole mettersi in
salvo. Occorre quindi sbarazzarsi di ogni mistica mistificatoria del sacrificio di
sé-sessuale e da ogni retorica carmelitana del dono di sé: lo scrittore è il guardaroba
totale del teatrino del suo tempo e non per questa capacità di superiore osmosi coi
costumi dei suoi simili rinuncia alla propria particolare foglia di fico per quel che è.
Esiste l'olocausto volontario in varie carriere pubbliche che, per forza di isterie di
maniera, devono sposarsi a una visione migliore del sesso fino a farsi venire le
traveggole della sessualità esemplare (tanto più reazionaria quanto più di facciata);
nella carriera di un genio, no. II genio è colui che non si appartiene e non appartiene:
toglie la verità dalle mani dei pochi che la emanano e la distribuisce alle unghie dei
molti che la subivano appena, scatenando il gioco del reciproco rispetto dell'effimera e
tenerissima umanità di ognuno. Per lui il sesso, come lo Stato in Marx, finisce per
scomparire come forma di controllo, restando una convenzione ludica fra le parti, un
non-valore di scambio - e da qui alla
Città del Sole il passo è breve...
Specialmente nelle donne in politica vediamo, per esempio, che: una straripante carriera
mestruata dalla Condizione Femminile va1 a braccetto con una sessualità iconograficamente
rinunciataria (sembra che la borsetta sotto gli occhi sia la più fine anche in Camera) se
non addirittura con la mariaverginità più demente o da tuttamamma o da tuttasposa,
perché il potere, essendo l'orchidea all'occhiello del maschio, preferisce, se deve fare
una deroga verso una donna, la donna-santino alla donna-femmina - la donina-persona è di
là da venire. Uno studio della sessualità dietro le quinte degli animali governativi
rivelerebbe, senza ombra di smentita, come costoro avrebbero potuto comunque mettere su
solo il vizio del politico, mai il pelo dello scrittore. Intorno al totem della loro
missione l'auto-sacrificio o l'auto-esaltazione sessuale legifera sull'esito della
carriera (e non c'è nessuna differenze fra l'ascesi mistico-vaginale di Tina Anselmi,
mistico-internazionalista di Nilde lotti, mistico-barricadiera di Adele Faccio e misi
co-mondana di De Michelis), mentre questa genuflessione o impennata è esclusa dagli
obblighi mondani di uno scrittore. Lo scrittore (che è il genio per eccellenza: non può
accettare committenze nemmeno indirettamente dal potere e, garanzia assoluta, nemmeno
volendolo) non cade nella trappola di ciò che reputa di volta m volta, la
rappresentazione del sé-ssuale ideale per gli altri, quindi né corre la cavallina dei
gioppini poietici con look ne infilza le flaccide santarelline della castità per tener
lustre le vetrate delle apparenze claustrali - lo scrittore non ha, propriamente, un fine
oltre a quello di essere scrittore, pertanto il suo ideale sessuale è tutt'uno con la sua
realtà sessuale: non dà alcun esempio a nessuno perché, essendo un genio, l'esempio è
lui in persona. Inoltre, essendo lo scrittore persona di inauditi sensi comuni non è
tenuto a essere né sessuofobico né incontinente né contemplativo né anti-abortista e
non scambia la sua buona stella per tutta la Via Lattea. Più lo scrittore è grande, meno
opinioni ha sul sesso, del proprio e degli altri, a tutto vantaggio di quello
affabulatorio dei suoi personaggi - perché lo scrittore per eccellenza è romanziere, non
saggista né poeta né filosofo, e se è un drammaturgo è già uno scrittore a metà (non
darei una pagina di Guido da Verona per tutti i drammi di Eduardo). L'artista sacrifica se
stesso solo in quanto decide di alienarsi il mondo e il sesso del mondo per quel che è,
perché così facendo infligge uno scarto imprevisto alle verità stagnanti, dribbla le
superstizioni e i pregiudizi e porta la morale nella rete dell'estetica, a scorno del
catenaccio del moralismo sul rigore dell'estetismo. Lo scrittore è democratico più per
acume che per convinzione - non c'è bisogno di essere convinti moralmente della
colorazione di ogni possibile sfumatura del numero infinito dei colori: basta saper
guardare.
La morale della favola dello scrittore è tanto più sua quanto più di tutti e di
nessuno, eppure inalienabile, pregnante, viva - anticamente nuova. Questo attrito fra arte
e società, fra l'autonomia emotivamente rivoluzionaria dello scrittore (che sovente ha in
testa meglio di tanti conservatori il valore liberatorio della tradizione) e la
mansuetudine sentimentalistica che la società vorrebbe da lui per fagocitarlo nei propri
inestetíci animalismi del tiriamo a campà, non è senza dolore nella vita dell'uomo
scrittore e spesso rende impossibile la sua vita sociale e affettiva, nel senso che la
società e gli individui non smettono di blandirlo per conquistarlo (per azzerarlo), lo
mettono alla prova per saggiarne la serietà di fondo (l'effettiva eccentricità), lo
tentano per vedere se, infine, la sua eversione estetica non sia che un passeggero
mascheramento in vista di una nomination da salotto, da parlamento, da segreteria di
partito o di holding, e se lo scrittore comunque non ci sta (egli è lungimirante anche
per conto della società, appunto, e le sta facendo il favore della propria pianificata
emarginazione), crea scandalo, testimonianza assoluta del consenso popolare a dissentire e
quindi a proclamare l'autenticità dello scrittore inviso e necessario, parte integrata e
integrante della stessa società che si accanisce, la sciocchina, a spingerlo ai margini -
la gente normale, cioè gli omosessuali e gli eterosessuali normali, è talmente
maleducata nella propria abominazione millenaria che si scandalizza per niente.
Se lo scrittore è sano non avrà agnizioni improvvise per questo o per quello e,
facendosi sempre nuovi nemici dove gli altri trovano solo dei parenti, creerà isolato
ciò che più ci sta a cuore: un'e pera d'arte nuova e mutante nel tempo insieme al tempo,
a& storia dell'uomo, all'infinito processo estetico di cui è il precursore precorso.
Questa è, grosso modo, la fisiologia fissa di uno sarti tore: cosa volete mai che
importi, e che gli importi, di essere s suale in un modo piuttosto di un altro? Semmai il
discorso da fati sarebbe un altro, cioè come mai esistono più scrittori veri conun
impianto neurologico omosessuale che non eterosessuale e se questa ascesi estetica non
trovi forse terreno più fertile nella natte lezza degli uni che degli altri. Ma queste
sono trite sineddochi: lo scrittore può scambiare benissimo la propria parte in vista dd
funzionamento del copione. Nell'arte la sessualità sta nella buca del suggeritore: è
positivo che ce ne sia almeno una, ma il teatro è un'altra cosa, tanto vale che la recita
di questa momentanea tragedia non comprenda balbettii né vuoti di memoria ad arte. Il
grande tragico della scrittura sa che c'è questa buca del suggeritore non la ricusa, ma
guai se si dimentica chi è e prende a guardasi attorno altrove che in sé; qualcuno gli
tapperà la bocca con le sue parole, il suo sesso...
«Guardalo qui lui! » esulto davanti alla figurina che si dinoccola nella notte fra i
sentieri del tanto acremente caro parcheggio di Sommacampagna.
«Mah! » È Demetrio, cioè M., uno dei personaggi minori di Vita
Standard, che rivedo dal vivo dopo tanti anni. Sempre in camiciia sempre infreddolito,
sempre che non ha pensato a mettersi tgi maglioncino, sempre incapace di sapere se ha
freddo o caldo Sempre minuto, sorridente di sghimbescio e meravigliato, già seaza più
niente da dire. Stupefacente. M. è diventato Demetrio io tutto e per tutto e adesso anche
M. diventerà M. «Io quest'anno sono stato in Russia, e tu?»
«Io in Kenia, e mi sono annoiato. Pensavo di andare a Lisbona lunedì, ma in aereo non
c'è posto fino al tredici.»
«A me il Portogallo non dice niente. Sarebbe una bella idea. Perché Lisbona?»
«È l'unica capitale europea che non ho ancora visto. Però ho anche poco tempo, non
posso aspettare fino al tredici.»
«Sono in ferie a casa» fa lui. «Ci si potrebbe andare in macchina.»
«Non posso stare via più di sette giorni contati e fare una tirata in macchina fino a
Lisbona... E se andassimo a visitare i castelli di Ludwig? con tutte le volte che siamo
stati in Germania non...»
«Ottima idea. In quattro giorni ce la sbrighiamo. Io, poi, ho anche pochi soldi.»
«Splendido! partiamo domani. Ti ricordi in Cecoslovacchia, appena dentro Brno che si era
rotta la macchina e ti è venuta la congiuntivite? Adesso sì che potremmo arrivare a
Praga. Eravamo già alle porte.»
«Andiamo a Praga. I cechi sono... sono..., mi rícordo» dice M. pensoso.
«Io mi ricordo che a Brno abbiamo visto solo negri e un giapponese e un giardino alla
Pace pieno di carrarmati e di cannoni.» «Ma a Budapest non erano male, sono di quella
razza lì.» «Ah, ti ricordi quel ragazzo ungherese al bagno turco con quella cappella
enorme rossa che tremava e non sapeva da che cazzo cominciare? Si rassomiglieranno certo.
E com'era la Russia, che impressione ti ha fatto. A me Leningrado mi ha messo una di
quelle tristezze...»
«Prima sono stato in Basilicata con mio fratello scapolo, l'ho accompagnato, s'è sposato
con una di là.»
«Ah, di quelle che le agenzie Astri Perfetti mandano su la foto e poi gliele fanno
conoscere portandole su col pullman e poi sposare in quattro e quattrotto?»
«Sì, una cosa così. Come farà a entrare nello stesso letto non lo so. Ma a lui piace,
è come una del medioevo, fa quello che dice lui, ha anche un po' di peli. E io l'ho
portato giù con la macchina. Poi in Russia.»
«E come te la sei spassata in Russia? hai preso su qualcosina o niente?»
«Certe idee possono venire solo a te. Sposarsi con una umana! e
alla tua età, con il buco del culo che smania per i cric degli autotrasportatori... Cosa
non fanno i matti per ammattire secondo normalità! la tua stanchezza mentale non ha
limiti. Allora ciao, ti aspetto a casa mia.»
«Mia madre resterà di sasso.»
«Meglio se ci resta di merda. Quando crepa dovresti portare un cero alla madonna... Mica
male quel tipo, ciao M. che gli vado dietro.»
E si parte via Austria. M. ha portato con sé una ventiquattro ore, perché, tanto, non si
cambia mai. Continua a grattarsi, mi sembra, specialmente sul cuoio capelluto. Parliamo
del meno e dell'ancor meno. Quando guida mette la cresta. Ma le gambe sono troppo corte
per il pedale della frizione e le marce rosicchiano prima di essere scalate del tutto. M.
è così introverso, ma di carattere leggero, che anche quando fischietta lo fa
mentalmente.
«Hai fatto dare una guardatina alla macchina, hai preso la carta verde, hai visto se le
gomme sono a posto, hai la gomma di scorta e la I dell'Italia sulla carrozzeria...»
«Tutto O.K. Ti figuri che parto così.»
Tratto dal libro Sodomie in Corpo 11 di Aldo
Busi, Mondadori Editore, Milano, 1988.
"Un incontro"
Dalla parte opposta della strada sta
attraversando un malconcio e dinoccolato Clark Gable meticcio che mi sorride
bambinescamente a piene labbra - dice, ha una sigaretta, signore l'italiano? vieni da me,
io abito in palestra, faccio il guardiano - ha un solo incisivo da una parte e un canino
dall'altra, avrà sì e no ventidue anni, baffetti e grandi occhi neri. Oltre una
cancellata effettivamente due squadre stanno giocando a calcio in un campo sportivo
ridotto - ma al posto dell'erba il terreno è catramato, che se cadono... Vieni, vieni,
signore lo straniero - parla francese come gli viene. Apre una porta situata vicino agli
spogliatoi: ci stavano una donnona allungata con grazia per terra, una ragazzina sotto le
coperte - vestita -, un vecchio corpulento stravaccato sul matrimoniale e il tutto che
rigurgitava sotto e sopra stracci e coperte rotte, pelli di capra e di coniglio,
bottiglie, scarpe a decine, robe vecchie e secche, il televisore acceso - una nenia
cantata dalla solita sciantosa che sembra tirare gli ultimi e invece può andare avanti
anche fino a mezzanotte sempre così, cullando una culla. Trambusto per i saluti e le
deferenze; quand'è sereno, mi spiega la ragazza mettendosi a sedere interessata, vedono
anche i programmi italiani, di cui citano i principali disgraziati. La prima cosa che ho
fatto entrando è stato di porgere la bottiglia di ambra annacquata alla signora e il
ragazzo tutto contento ha detto qualcosa al vecchio che, vengo a sapere dalla ragazza che
si fa largo fra gli stracci, non è il padre ma lo zio, e che lui è sposato ma in
un'altra città e è qui a Sousse in cerca di sistemazione e intanto vive con loro tre. Il
ragazzo continua a sorridere intorno come se mostrasse ai parenti un parafango cromato
trovato per strada, io mi sento morire e lui via a sorridermi in maniera sublime, come un
angioletto fotografato dal vivo in una nuvoletta luminosa, e fa niente se ora il vecchio
energumeno s'è messo a sbraitare agitando un mazzo di chiavi, che il ragazzo cerca di
prendergli senza riuscirci. Usciamo alla svelta, e ho capito che il vecchio ha capito
quello che il nipote, spiantato ma spudorato, intendeva fare delle chiavi: portare me in
qualche posticino confortevole e con un tetto sopra. Usciamo dall'immobile, costeggiamo la
muraglia e siamo sulla spiaggia buia e molliccia, dove scogli bassi rifrangono le onde
d'inizio marea. C'è anche molto vento, tanto che non sento bene quel che farfuglia, poi
ci troviamo di fronte l'uno all'altro e prendiamo a baciarci forsennatamente - dopo pochi
secondi io ho la marea ai ginocchi e lui no, perché, premunendosi, non era più in piedi
ma accucciato su uno scoglio e s'è limitato a sporgere le labbra con comodità, che non
molla. Cazzo mondiale da sotto i pantaloni stracci, e lui che col suo sorriso da via col
vento intacca il buio, lo scuote, lo irrita di una luce antica, accecante - maliziosa. Mi
risucchia la lingua all'interno dei due denti rimastigli davanti, sembra voglia farle fare
un giro di boa attorno al canino, me la ammaina sull'incisivo con la sua - saliva dolce di
sale, di miele, proprio un dolce di saliva. Glielo tiro fuori, mi fa cenno di spostarmi
perché potremmo essere visti da chi entra in palestra, ci inoltriamo nell'acqua fra gli
scogli, io inzuppato dalla vita ai piedi ma come istantaneamente asciugato dal vento e
dalla mia infingarda allegria che strizza le mie risa represse. Che simpatico! Si sistema
su uno scoglio, mi abbassa bene i pantaloni, mi sistema per benino sul suo cazzo e
comincia a chiavarmi in modo atletico, storcendomi la testa con infinito amore verso la
sua, affamato di baci - ride anche quando bacia, anzi, ride di più. Sul più bello
omogeneo, Ardi mi blocca col culo a metà asta:
«Combien tu me donnes?»
«Tariffa nazionale cinque dinari» faccio io prontamente, e lui felice mi rischiaccia
dentro il suo cazzo sussultante nell'orgasmo entusiasta del lavoratore pagato il giusto
prezzo. E sborro anch'io, sghignazzando per le battute non nuove, ma sempre stupefacenti.
Ormai sborro per dispetto, butto via sperma su sperma, la mia sola materia grigia
veramente, niente può farmi desistere dal godere di me a ogni costo, dal provare
sentimento e gratitudine dove un pivello troverebbe solo altra umiliazione. Pago Ardi, che
mi abbraccia ancora e ci salutiamo reciprocamente grati. E così inzuppato, con la tela
attaccata alle gambe, faccio la mia solita entrata nella hall dell'albergo con la solita
gente improvvisamente di cera che fa ala in silenzio senza più battere ciglio. La tela è
trasparente e le mutande gliele ho regalate, deambulando verso la scalinata mollo una
teoria di scoreggine a chiappe strette e sento un rigagnolo colarmi giù sulla coscia. Ah,
se un giorno questi pantaloni bianchi potessero parlare! Passo per la pista, affollata
come una camera ardente senza un cadavere in particolare. Sono del tutto indifferente ai
commenti. Cosa dovrei dire io di come passano il tempo loro? L'intrattenimento del Jawhara
Club stasera consiste in sei coppiette che devono mimare tre animali ciascuna. Bello
sforzo! E io che, stanco morto come sono, devo ancora andare a montare di sentinella
vicino al pertugio nella rete, e Kabir arriva trafelato, è scappato momentaneamente dalla
guardiola per dirmi «Je Vous aime, monsieur Aldo» e io rispondo «Moi aussi» e stretti
fra gli arbusti che ci dilaniano (hanno le spine) consumiamo il più alla svelta possibile
perché deve rientrare subito, gli infilo in tasca di che fare dichiarazioni sincere per
un mese, insiste, non vuole, ma io insisto più di lui e se ne fugge via strizzando le
palpebre - e non lo vedrò più (ma in una lettera mi dirà che stava per diventare
ragazzo-padre e che era obbligato a sposarsi, che dopo avermi conosciuto aveva trascorso
settimane combattuto fra il dovere e la fuga - in Italia -, che se io gli avessi fatto un
cenno sarebbe venuto con me per sempre, perché lui non era mai stato tanto felice, dice,
e non lo sarà mai più - io ho inviato un pacco natalizio con indumenti da neonato,
intanto, e la promessa che se si sposa con l'amante-bambina - tredici anni - e non
l'abbandona gli farò un grosso regalo. Ma non ho mai più avuto sue notizie. Deve proprio
essersi sposato).
Qualcuno stanotte s'è preso la briga di gettare sulla mia veranda un paio di mutandine
con pizzo in jersey e mestruo fresco. Adesso giacciono per terra invase dalle formiche e
leccate dal mio gatto preferito. Avvertimento, sfregio, promessa?
Mi sono svegliato come sempre alle sei, dopo un'ora che tenevo del tutto gli occhi chiusi.
La caffetteria era già aperta, non lo sapevo, ma è per turisti che partono presto per le
escursioni. Mangio qualcosa, mi scivola il coltello e mi impiastro di marmellata di fichi
e, leccandomi le dita per tutto il tragitto, vado in spiaggia a vedere sorgere il sole.
Eccola là, la sfera strafottente attraversata da una barchetta nera. Sembra dapprima una
mongolfiera a rallentatore, per via del riflesso sull'acqua che schiaccia la rotondità
della palla, e poi un salvadanaio di terracotta. Un monito a mettere via la vita, e
capitalizzarla per quando ce ne sarà poca - avvertimento stupido: chi risparmia vita
adesso non solo non avrà di più dopo ma avrà sempre meno a misura che aumenterà il
risparmio. Certi tesori si guadagnano solo disperdendoli. E così eccolo lì, il dio luce,
che viene da queste parti ogni mattina, puntuale a modo suo, metodico nel non lasciar
stare niente: tutto deve muoversi al suo arrivo e tutto deve respirare a occhi aperti,
spinto a vivere per attrazione verso la morte, che vuole chiudere il ciclo alla svelta e
chi s'è visto s'è visto, gli altri no.
Piccioni rosso-crema sulla rena fra i rifiuti di plastica, un tronco imponente di palma
fra i flutti calmi; corridore in lontananza. L'acqua è tiepida, un inno a se stesse
l'andare e venire delle onde basse. E ecco, s'è levato, i secchi sono stati di nuovo
distribuiti...................
Tratto dal libro Sodomie in Corpo 11 di Aldo
Busi, Mondadori Editore, Milano, 1988.
Leggi un interessante pezzo sugli
"scrittori" di Aldo Busi all'interno del Forum
del Daimon Club sulla teoria della letteratura!
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