Gli scienziati non hanno ancora chiarito che
cosa ci sia dietro questa straordinaria capacità; per prevedere la riuscita nella vita ci
si deve basare sul quoziente intellettivo o bisogna considerare anche l'emotività?
Che cos'è l'intelligenza
di
Aljoscha C. Neubauer
Ha 90 anni, ma è una sigla sempre sulla cresta dell'onda: QI. Sono poche le persone che
non sono mai state tentate dal calcolare il proprio quoziente intellettivo, il QI appunto.
Ideato dallo psicologo William Stern (1871-1938), passa per essere un mezzo sicuro di
valutazione dell'intelligenza delle persone. Ma che cos'è in realtà l'intelligenza? Se
consideriamo la storia della ricerca scientifica a questo riguardo, che copre circa un
secolo, si può arrivare a concludere che esistono tanti diversi concetti d'intelligenza
quanti sono i ricercatori che si sono occupati di questo fenomeno. Le molte e diverse
definizioni di intelligenza - parola che deriva dal latino intelligere: capire,
comprendere, riconoscere - sono accomunate dall'idea che il possessore di una tale
qualità sia capace di destreggiarsi in situazioni nuove o insolite. Il fatto di saper
cogliere i significati e i rapporti fra gli oggetti senza dover passare attraverso un
lungo tirocinio o molti diversi tentativi costituirebbe poi il fondamento di questa
capacità.
Un Problema di inflazione
D'altronde molti test si basano su domande relative a un sapere già acquisito, per
esempio chiedendo di esplicitare il significato di determinati concetti. Esiste però una
differenza fra la capacità di pensiero in senso proprio e il sapere acquisito. La
paternità di questa distinzione risale allo psicologo anglo-americano Raymond B. Cattell
(1905-1998). Egli considerò la capacità di pensiero come mobilità o adattabilità e
definì perciò l'intelligenza stessa come "fluida". Le persone applicano questa
facoltà quando si tratta di conoscere un oggetto nuovo. Questa conoscenza va poi a
costituire quella che Cattell definì intelligenza cristallizzata: in ques'ultima si
troverebbero le precedenti esperienze d'apprendimento per così dire
"consolidate".
Una simile distinzione conduce a domandarsi: l'intelligenza è una qualità unica e ben
distinta da altre capacità? O piuttosto non si può distinguere tutta una serie di
qualità più specifiche, fra loro eterogenee, che per qualche ragione sono state
classificate sotto una stessa etichetta? Tutti conosciamo persone con particolari facoltà
eccezionalmente sviluppate. Non si corre dunque il rischio di fare di ogni erba un fascio
quando ci si riferisce a un'unica qualità intellettuale o, ancora peggio, se si considera
un unico correlato quantitativo: il QI?
I test d'intelligenza comprendono in genere compiti molto diversi fra loro: analogie tra
parole, definizioni di termini, compiti di memorizzazione, calcoli, serie di numeri da
completare, il riconoscimento di figure nella loro tridimensionalità. Oltre al QI in
senso stretto, in questo modo si può definire un profilo dell'intelligenza, che fornisca
una valutazione in diversi ambiti: comprensione orale, capacità di calcolo,
rappresentazione spaziale e capacità mnemonica sono le suddivisioni classiche delle
diverse capacità intellettuali. Spesso si tende a scendere ancor più nel dettaglio:
intuizione, rapidità nell'elaborazione, padronanza delle proprie capacità motorie
(intelligenza attiva) sono solo alcuni possibili campi d'indagine.
Nel Novecento l'ipotesi che vi siano diversi tipi di intelligenza è stata al centro di un
vivace dibattito. Ai sostenitori di un'intelligenza multiforme si sono contrapposti i
sostenitori dell'"approccio g" - dove "g" sta per general intelligence
- seguaci dello psicologo inglese Charles Spearman (1863-1945). Da un punto di vista
statistico, l'ipotesi è sostenuta dal fatto che le diverse capacità parziali
dell'intelligenza non sono mai del tutto indipendenti le une dalle altre: chi possiede una
spiccata intelligenza linguistica è spesso dotato di capacità almeno discrete anche in
altri ambiti, per esempio in quello matematico. I cosiddetti idiot savant, persone dotate
di capacità intellettive inferiori alla media che tuttavia possiedono capacità
straordinarie in particolari settori, sono piuttosto l'eccezione che la regola, e questa
constatazione dà sostegno all'ipotesi che l'intelligenza sia una facoltà unitaria.
Finora l'approccio g è sopravvissuto ai tentativi di confutazione cui è stato
sottoposto, nonostante l'impegno dei suoi critici.
Comunque, alla domanda su quale sia la struttura dell'intelligenza, gli psicologi oggi non
rispondono più opponendo due definizioni, ma componendole. In genere l'intelligenza viene
concepita come una gerarchia piramidale: l'intelligenza generale al vertice, sotto di essa
la molteplicità di capacità specifiche e al terzo livello facoltà ancora più
raffinate, anche se non concordemente definite.
La descrizione dell'intelligenza come una struttura piramidale è stata proposta nel 1993
da John B. Carroll dell'Università del North Carolina. Questo psicologo si sobbarcò
l'estenuante compito di confrontare 460 diversi test fatti fra il 1927 e il 1987. Il suo
metastudio è quindi fondato su dati provenienti da non meno di 130.000 persone: nel campo
della ricerca sull'intelligenza si tratta di un record assoluto.
Tuttavia - e questo mostra l'incertezza esistente in questo campo di studi - altri
ricercatori pensano a modelli alternativi rispetto a quello piramidale: il Berliner
Intelligenz-Strukturmodell (BIS) - elaborato dallo psicologo tedesco Adolf Otto Jàger
della Libera Università di Berlino - mostra piuttosto una struttura "a
losanga". Secondo questo studioso le facoltà intellettuali specifiche si
formerebbero sempre a partire dalla capacità di elaborazione dei contenuti (come possono
essere il pensiero espresso verbalmente, quello matematico, o l'immaginazione) e da una
capacità operativa (per esempio la rapidità dell'elaborazione, la memoria, l'intuizione,
la capacità associativa). Per ciascuna di queste facoltà gli psicologi hanno elaborato
test specifici. Ma anche nel modello a losanga si esplicita un fattore d'intelligenza
generale che sovrasta tutte le capacità specifiche.
Tutti i modelli finora ricordati si fondano comunque sui test d'intelligenza classici. A
essi viene spesso rimproverato di limitarsi a misurare capacità che non hanno se non
marginalmente a che fare con il compito di risolvere problemi reali. Nella vita quotidiana
le persone non si confrontano con problemi posti con esemplare chiarezza e per i quali
esistono soluzioni univoche. Piuttosto, ci si trova di fronte a situazioni complesse che
devono essere affrontate indirizzandole verso un determinato scopo. Un classico esempio è
l'esperimento di Lohhausen, proposto dallo psicologo Dietrich Dórner e dai suoi
collaboratori dell'Università di Bamberga. In una simulazione informatica, il soggetto
dell'esperimento impersona il sindaco della cittadina (virtuale) di Lohhausen. Nella
misura in cui modifica i singoli fattori - per esempio favorisce l'industria a spese
dell'ambiente - altri elementi del sistema sono toccati: il turismo diminuisce.
L'esperimento consiste nel mantenere la cittadina in uno stato di buon funzionamento per
un periodo simulato di 10 anni conservando l'apprezzamento dei cittadini. Esperimenti di
questo genere potrebbero arricchire e ampliare il campo di ricerca classico degli studi
sull'intelligenza, ristretto finora ai test che ne misurano solo il quoziente.
Un'ulteriore critica spesso mossa ai test normalmente in uso è che questi
considererebbero solamente le capacità attuali della persona, senza tenere conto delle
sue potenzialità di sviluppo. Chi è vissuto in un ambiente con bassa scolarità si
dimostrerà senz'altro meno abile nel risolvere quei test rispetto a chi ha avuto
un'istruzione migliore. È ovvio che nel primo caso i soggetti non hanno mai avuto la
possibilità di sviluppare le loro capacità in base a tecniche specifiche, o di acquisire
il sapere che nel test viene loro richiesto. A questo problema rispondono i test di
apprendimento, che consentono di stabilire più precisamente il potenziale di
apprendimento di una persona.
Sapere é potere?
I test d'apprendimento si suddividono normalmente in tre parti: dapprima un test classico
stabilisce la situazione di partenza (pre-test). In una fase intermedia vengono svolti
esercizi in cui si possono apprendere le regole per poter risolvere i problemi posti.
Infine, in un secondo test (post-test), vengono proposti esercizi simili a quelli del test
iniziale. Questo consente agli psicologi di valutare i progressi nella capacità di
risolvere i problemi. Le persone di spiccata intelligenza raramente migliorano molto,
poiché grazie alle loro capacità hanno ottenuto risultati superiori alla media già in
fase di pre-test. Spesso però accade che persone con capacità intellettive più basse si
dimostrino ben predisposte all'apprendimento in quanto i risultati del secondo test si
rivelano decisamente migliori del primo. Ma non è tuttora chiaro quanto un simile test
possa prevedere in modo più sicuro il successo scolastico, nella formazione o nel lavoro
di quanto non faccia un test classico.
Il filone principale della ricerca sull'intelligenza ha cercato per decenni di stabilire
un rapporto fra l'intelligenza e le capacità espresse in una specifica attività.
Ultimamente poi i ricercatori hanno tentato di chiarire il rapporto fra il sapere e
l'esperienza e la possibilità di realizzare eccezionali prestazioni mentali. È questo il
nocciolo del paradigma "del principiante e dell'esperto" proposto nel 1973 dagli
psicologi William G. Chase (19401983) e Herbert A. Simon (1916-2001). Il problema che
cerca di risolvere questo paradigma verte sulla domanda se l'eccellenza - per esempio
negli scacchi o nella matematica - sia dovuta a una grande intelligenza o piuttosto a un
sapere specifico in ciascun ambito.
Come si è detto, persone di un livello intellettivo elevato ed esperti nell'ambito in cui
il test è proposto risolvono i problemi con più facilità rispetto ai
"principianti", che non possiedono quelle conoscenze specifiche. A volte
peraltro una grande esperienza fa si che esperti poco intelligenti raggiungano gli stessi
risultati di principianti meglio dotati. Ma anche per gli esperti l'intelligenza resta un
fattore discriminante: esperti intelligenti raggiungono in genere risultati migliori.
Evidentemente esiste una sinergia fra esperienza e intelligenza. Quest'ultima inoltre non
si dimostra solamente nel rendimento: essa permette di assimilare più facilmente e più
rapidamente le conoscenze. Tuttavia, se in un determinato ambito un certo sapere è
patrimonio comune, le differenze fra intelligenti e meno intelligenti risultano meno
evidenti.
Questi risultati mostrano che la ricerca sull'intelligenza si trova a un punto di svolta.
Oggi gli psicologi definiscono e misurano l'intelligenza in modo diverso da quanto
avveniva solo qualche decennio fa. AI contempo ampliano il raggio d'azione del concetto ad
ambiti che hanno sempre meno a che fare con il classico pensiero cognitivo, la soluzione
di problemi e il sapere. Negli ultimi anni si è fatto strada il concetto di intelligenza
emotiva e, quindi, quello di intelligenza sociale: anche la capacità di cogliere le
emozion i bisogni e le motivazioni sia propri sia di altri farebbe parte del concetto di
intelligenza.
Una grande aspettativa circonda questi nuovi tipi di intelligenza. Secondo i sostenitori
del QI classico, il successo scolastico, nel campo delle formazione e sul lavoro è
adeguatamente spiegato per circa il 20 per cento dei soggetti facendo riferimento alla
misurazione dell'intelligenza con i test. Oggi si cerca di trovare un metro per il
restante 80 per cento, e molti ricercatori sperano di trovarlo nell'intelligenza emotiva o
sociale. Ma, a mio modo di vedere, un'aspettativa così grande non potrà essere
soddisfatta. Non sarà mai possibile prevedere il comportamento umano sulla base di una
delle componenti della sua personalità: il comportamento dipende anche dalle circostanze
e dai fatti imprevedibili della vita.
Ovviamente, le capacità di rapporto sociale e interpersonali sono importanti sia nella
vita privata sia in quella professionale, ma resta il dubbio che queste doti così
apprezzate facciano veramente parte di quel che si può considerare intelligenza. Non si
tratta forse di capacità che chiunque può apprendere o esercitare, al contrario
dell'intelligenza in senso stretto? Per poter rispondere a questa domanda sarà necessario
applicare sia test classici sia test per l'intelligenza emotiva al maggior numero
possibile di individui. Se si dovesse dimostrare che l'intelligenza cognitiva e quella
emotiva corrispondono, allora si potrebbe contare quest'ultima fra le facoltà
intellettive. Ma fintanto che tali test non siano stati sviluppati, questa domanda dovrà
purtroppo restare senza risposta.
QUELLA PICCOLA DIFFERENZA, COSÌ DETERMINANTE
"Ci sono solo due verità assolutamente certe. La prima è che gli uomini sono più
intelligenti delle donne." "E la seconda?" "Che la Terra è
piatta."
Questa barzelletta può divertire forse alcuni, ma per quanto riguarda la media del QI
inteso come quoziente intellettivo globale non si rileva alcuna differenza particolarmente
marcata fra uomini e donne. Da ciò non si può però dedurre che uomini e donne siano in
media ugualmente intelligenti: per escludere qualunque fattore che influenzi negativamente
i risultati, i test d'intelligenza non vengono in genere applicati a soggetti di sesso
diverso. Statisticamente si verificano differenze fra i due sessi in campi specifici delle
capacità intellettive. Esse sono tuttavia troppo modeste per poter stabilire una chiara
distinzione fra l'intelligenza nei due sessi, perché la ripartizione dei valori fra gli
uomini e le donne spesso si sovrappone.
Ma quali sono le differenze più marcate fra i due sessi?
- Le donne riescono meglio degli uomini in determinate capacità verbali, soprattutto
nell'espressione.
- Gli uomini hanno una maggiore capacità di valutazione spaziale e, in particolare,
riescono meglio a visualizzare nella propria mente figure tridimensionali e la loro
rotazione immaginaria.
- Per quanto riguarda le capacità matematiche, le differenze si fanno evidenti
soprattutto nella fascia dei superdotati: i ragazzi qui superano le ragazze. Questa
capacità può essere ricondotta all'abilità, tipicamente maschile, di visualizzare la
rotazione delle figure, di grande significato soprattutto in geometria. Peraltro, le
migliori prestazioni dei ragazzi in matematica possono dipendere dal fatto che le ragazze
non sono abbastanza motivate a eccellere in questo campo per gli stereotipi sociali.
QI: IL QUOZIENTE INTELLETTIVO
Gli psicologi francesi Alfred Binet (1857-1911) e Théodore Simon (1873-1961), due
pionieri della ricerca sull'intelligenza, svilupparono nel 1905 una scala per valutare il
grado d'intelligenza dei bambini fra i 3 e i 15 anni. Per ciascuna età presero in
considerazione cinque requisiti, per esempio:
- a 6 anni il bambino conosce il significato dei termini "mattina" e
"sera".
- a 8 anni è capace di contare all'indietro da 20 a zero.
- a 10 anni conosce i mesi dell'anno nella loro giusta sequenza.
In base al numero di risposte corrette è possibile calcolare l'età mentale del bambino.
Risolvere tutti i quiz relativi all'età di 11 anni e tre dei cinque proposti per l'età
di 12 fornisce un'età mentale di 11,6.
Il QI vero e proprio venne proposto dallo psicologo tedesco-americano William Stern
(1871-1938), che divise l'età mentale per l'età cronologica o anagrafica e moltiplicò
poi il risultato per 100: QI = EM/EC x 100. Un bambino di 9 anni con un'età mentale di
9 anni corrisponde a un QI di 100 ed è dunque perfettamente nella media. Un bambino di 10
anni con un'intelligenza di 12 invece raggiunge un QI di 120 e viene considerato superiore
alla media.
Poiché a partire dai 15 anni all'incirca non è più possibile proporre compiti relativi
allo sviluppo intellettivo, il QI degli adulti viene calcolato in un altro modo, e non è
perciò un vero quoziente: si pongono in relazione i risultati del test di ciascun
soggetto con quelli mediamente realizzati dalla popolazione (= 100). Una possibile
suddivisione dei QI è la seguente:
QI livello intellettivo
sotto 70 minorazione intellettiva
da 70 a 90 basso grado d'intelligenza
da 91 a 110 intelligenza media
da 110 a 130 alto grado d'intelligenza
oltre 130 intelligenza fuori dall'ordinario
L'INFLUSSO DELL'ETÀ
Per molto tempo i ricercatori sono stati convinti che l'intelligenza subisse uno sviluppo
fino al ventesimo anno d'età e che a partire dai 25-30 anni incominciasse un lento
degrado. Questo era il risultato di varie ricerche trasversali nel corso delle quali
soggetti fra i 20 e i 70 anni erano stati sottoposti, in una stessa sessione, al medesimo
test; i risultati venivano quindi confrontati fra loro, suddividendoli per livelli di
età.
In questo genere d'indagine si sviluppa però quello che viene chiamato "effetto
coorte". Le persone più anziane subiscono infatti l'handicap dovuto alle condizioni
meno favorevoli vissute durante la giovinezza - prima e dopo la seconda guerra mondiale -
in forza delle quali lo sviluppo della loro intelligenza poteva aver sofferto.
Nel corso di ricerche di più ampio respiro alcuni soggetti furono ripetutamente
sottoposti a test nel corso di diversi decenni; ciò ha permesso di seguire lo sviluppo
dei risultati di singoli soggetti. Grazie a questi studi si è potuto verificare che
l'intelligenza si sviluppa fino al ventesimo anno d'età, ma comincia a decrescere solo
fra i 65 e i 70 anni.
E l'intelligenza emotiva? Intervista con Hannelone Weber di Katja Gaschler e Hermann
Englert
Il concetto alla base di questa forma d'intelligenza è stato introdotto già nel 1990
dagli psicologi Peter Salovey (Yale University) e John Mayer (University of New
Hampshire). Il termine uscì dalla stretta cerchia degli specialisti e arrivò al grande
pubblico solo nel 1995, quando lo psicologo e saggista Daniel Goleman ne parlò nel suo
libro Intelligenza emotiva (traduzione italiana Rizzoli, 1996) che divenne un bestseller
internazionale.
Che cos'è l'intelligenza emotiva? Con questo termine si intende un vasto gruppo di
capacità relative alla sfera dell'emotività. Chi è emotivamente intelligente percepisce
con facilità sia le proprie sia le altrui emozioni. Può esprimerle, regolarle,
controllarle, soprattutto in contesti problematici.
Le emozioni ci impediscono di risolvere i problemi?
No, certo. Gli psicologi concordano anzi nel ritenere che l'intelligenza emotiva si sia
sviluppata proprio per risolvere in modo rapido e adeguato situazioni critiche.
Può fornirci degli esempi?
Poniamo che io mi renda conto di essere triste. È un dato da non trascurare. Potrebbe
essere il momento di condividere questa mia percezione con il gruppo con cui vivo, perché
mi tratti con più attenzione. Si tratta di riconoscere correttamente e di utilizzare al
meglio le informazioni fornite dai sentimenti.
Quali sono le critiche rivolte all'uso di questo concetto?
Va detto che ciò che oggi si fa passare per intelligenza emotiva è stato oggetto di
ricerca anche prima, sotto altre denominazioni. Io contesto la qualifica di
"intelligenza" per tali capacità. La definizione tradizionale considera più
intelligente chi sa svolgere determinati compiti; per esempio, riconosce la logica con cui
è costruita una serie di numeri e la completa in modo corretto. In simili casi non ci
sono dubbi nella valutazione. Ma qual è la definizione di "corretto" rispetto
al comportamento sociale? Qui entrano in gioco, come criteri di valutazione, norme e
valori, difficilmente quantificabili.
È dunque la società a stabilire chi è emotivamente intelligente?
Si potrebbe dire così. In Europa occidentale o negli Stati Uniti una persona che esprima
in modo forte i suoi sentimenti può addirittura essere considerata carismatica. In
Giappone farebbe probabilmente fallimento.
Ma forse si può definire che cosa sia l'intelligenza emotiva almeno in ambiti culturali
ben definiti.
Non ne sono certa. Ammettiamo che in certe situazioni ci sia un'opinione generale
condivisa. Ma nella quotidianità è spesso difficile concordare su quale sia il
comportamento più adeguato. Immagini di essere irritato con il partner. Glielo dirà
subito? O aspetterà di essere più tranquillo? Ponga questa domanda a tre persone. Con
ogni probabilità otterrà tre diverse risposte.
E se lo chiediamo a tre psicologi?
Dovrei tener conto solo delle risposte di esperti del settore? Se ho un'opinione diversa,
vado bollata come dotata di scarsa intelligenza emotiva? È questo che rende così dubbio
un simile metodo.
Ma esistono test di intelligenza emotiva di cui ci si possa fidare?
Sì, bisogna però sapere che misurano solo aspetti parziali, come la capacità di
esprimere i propri sentimenti. Si può, per esempio, proporre ai partecipanti al test di
pronunciare una frase di per sé neutra come "È molto che non ti vedo!" in
diverse chiavi emotive, come la gioia, il disgusto, la paura... II filmato dei test viene
poi sottoposto a un altro gruppo di soggetti. L'ipotesi alla base del test è che quanto
più il secondo gruppo riesce a indovinare l'emozione interpretata, tanto maggiore è la
capacità di comunicazione emotiva del soggetto che l'ha espressa.
Come sono valutate in campo professionale le capacità emotive?
Le aziende richiedono un metodo di valutazione delle capacità sociali di un candidato che
sia rapido, poco costoso e nello stesso tempo affidabile! Ma un simile test non può
essere fornito dalla psicologia. Non serve a molto durante un colloquio d'assunzione
domandare "Che cosa farebbe Y se fosse nella situazione X?"; in questo modo
posso solo testare se il soggetto conosce le norme sociali. L'unico test attendibile è
mettere le persone in situazioni di socialità reale e osservarne il comportamento.
Quale dei due valori ha più importanza per la vita, il QI o il QE?
Non si può rispondere facilmente a una simile domanda. La riuscita nella vita ha tante
sfaccettature. Innanzitutto: riuscita in che cosa? Come coniuge, come genitore, come
amico, come dirigente? E ancora: in che cosa consiste la riuscita? Ogni volta devo
considerare quale diverso fascio di capacità emotive può favorire la riuscita. Anche
pensando solo al lavoro non è facile rispondere, dipende dal tipo di lavoro. E anche una
persona con un QI elevato in certe situazioni può rivelarsi un totale disastro.
Le persone con un alto QI sono anche intelligenti emotivamente?
Come ho detto, la relazione fra queste due doti risulta abbastanza indeterminata. D'altra
parte una persona con un QI elevato dovrebbe avere una grande capacità d'apprendimento
che potrebbe consentirle d'imparare più rapidamente le regole sociali e rispondere meglio
alle richieste emotive.
È possibile allenare in età adulta l'intelligenza emotiva?
Ma certo! Anche gli adulti apprendono e modificano comportamenti, anche se in modo meno
spontaneo dei bambini. Da decenni esistono efficaci seminari sulla gestione dello stress o
sulla comunicazione interpersonale. Da molto prima che si cominciasse a parlare
di "intelligenza emotiva".
Solo il successo decide della bontà dei test psicologici. In che misura è possibile
utilizzarli per formulare previsioni nel campo del successo scolastico, della formazione e
del lavoro? Gli psicologi americani Frank Schmidt dell'Università dell'Iowa e John Hunter
dell'Università dei Michigan fecero nel 1998 un certo numero di valutazioni. Stabilirono
così che l'intelligenza generale di un individuo influisce per il 20-25 per cento sul suo
successo scolastico, formativo e lavorativo.
Schmidt e Hunter cercarono in particolare di determinare quali fossero i test più adatti
alle necessità dei datori di lavoro nella ricerca di nuovi collaboratori. E scoprirono
che i test dell'intelligenza, se paragonati ad altri metodi di selezione del personale,
riescono tutto sommato ad approssimare meglio le previsioni di successo del candidato. Per
poter valutare in anticipo la riuscita scolastica e lavorativa è tuttavia sempre
necessario disporre di altre fonti d'informazione, come periodi di prova o colloqui.
Alcuni centri di selezione, spesso molto costosi, sottopongono i candidati ad un altro
tipo di vaglio: essi vengono osservati da specialisti nella loro interazione di gruppo,
durante presentazioni spontanee, autopresentazioni, o giochi di ruolo.
La bontà di questi metodi non pare uguagliare tuttavia quella dei test dell'intelligenza.
In particolare, le analisi grafologiche - la valutazione della grafia di un soggetto - non
danno alcuna indicazione attendibile sulla futura riuscita lavorativa.
Di recente si è diffusa anche la moda di ricorrere all'astrologia, ma chi decidesse di
valutare una persona per un itinerario formativo o per un lavoro basandosi sull'oroscopo
potrebbe con altrettanto successo fare a testa o croce, risparmiando tempo e denaro,
oppure leggere il futuro del candidato nel fondo di una tazzina di caffè.
Bibliografia
Goleman D. Intelligenza Emotiva Rizzoli, Milano, 1996
AA.VV. L'Intelligenza Le Scienze Dossier n. 1 Milano, 1999
Deary I.J. Intelligence - A very Short Introduction Oxford University Press, Oxford 2001
Dalla Rivista Mente e Cervello n. I , gennaio-febbraio 2003
Indice
Intelligenza e
creatività di Aljoscha C. Neubauer
Le nostre conoscenze su basi fisiologiche e anatomiche dell'intelligenza sono ancora
piuttosto scarse rispetto alle conoscenze sul piano psicologico, emotivo e creativo.
Ovviamente sia i geni, sia l'ambiente interno ed esterno alla famiglia influiscono
sull'intelligenza.
Da oltre vent'anni i ricercatori si pongono una domanda: i "cervelli
intelligenti" sono forse in grado di elaborare più velocemente le informazioni, come
i computer più potenti? Il mio gruppo di lavoro all'Università di Graz, così come molti
altri gruppi di ricercatori, sostiene proprio questa ipotesi: le persone più intelligenti
sono in grado di raccogliere più velocemente le informazioni dall'ambiente, archiviarle e
richiamarle dalla memoria a breve termine, e recuperare più velocemente anche le
conoscenze archiviate nella memoria a lungo termine. L'analogia con il computer può
essere portata anche più avanti: secondo Werner Wittmann, psicologo all'Università di
Mannheim, le persone intelligenti posseggono una maggiore memoria di lavoro nel cervello.
I ricercatori hanno tentato di verificare con metodi fisiologici se il cervello delle
persone più intelligenti elabori le informazioni più velocemente. A questo scopo hanno
esaminato le correnti cerebrali con le quali il cervello reagisce a semplici stimoli
(lampi di luce o suoni brevi). Queste ricerche hanno però portato a risultati
contrastanti. Alcune confermano l'ipotesi, altre no. Probabilmente ha una certa influenza
sul risultato anche la scelta delle aree cerebrali studiate.
In effetti pare che le persone di intelligenza limitata si differenzino da quelle
intelligenti nella ripartizione spaziale delle attività cerebrali, soprattutto nella
corteccia. All'Istituto di psicologia dell'Università di Graz, sfruttando una nuova
tecnica in grado di fornire immagini (in pratica una variante dell'elettroencefalogramma),
abbiamo potuto dimostrare che, quando svolgono compiti cognitivi, i cervelli delle persone
più intelligenti sono nel complesso meno attivi, a parte alcune aree ben localizzate. Le
persone meno intelligenti devono invece impegnarsi fortemente per attivare zone del
cervello che con lo svolgimento dell'esercizio - per esempio un test d'intelligenza - non
hanno niente a che vedere.
Inoltre i soggetti molto intelligenti sembrano in grado di concentrare in modo
particolarmente efficace le risorse di energia del cervello nelle aree cerebrali utili
alla risoluzione degli esercizi. Alla stessa conclusione sono giunte le ricerche di
Richard Haier, psicologo al Brain Imaging Center dell'Università della California a
Irvine. Haier ha misurato il metabolismo cerebrale in un gruppo di volontari mentre questi
risolvevano esercizi e test d'intelligenza. In questo modo ha dimostrato che il consumo di
energia nel cervello dei soggetti più intelligenti è inferiore. Haier lo spiega tramite
I'"ipotesi dell'efficienza neurale": le persone più intelligenti attivano meno
cellule nervose mentre risolvono i problemi, presumibilmente soltanto quelle realmente
necessarie. Le persone meno intelligenti attivano anche circuiti neuronali che risultano
irrilevanti, se non addirittura di disturbo per un'efficiente soluzione dei problemi.
Queste nuove conoscenze consentono di descrivere in modo migliore le differenze
d'intelligenza tra i cervelli, ma non sono in grado di spiegarle. Ci si è rivolti anche
all'anatomia per capire se nel cervello esistano regioni specifiche che determinino in
maniera significativa l'intelligenza dell'uomo; o se cervelli di diversa intelligenza si
differenzino per determinate particolarità. Ma la ricerca di speciali "centri
dell'intelligenza" si è conclusa senza successo. Potrebbe dunque essere corretta
un'altra ipotesi: le differenze d'intelligenza sono in generale da riportare a proprietà
biologiche dell'intero cervello e non al miglior funzionamento di questa o quell'altra
area.
La chiave della comprensione biologica dell'intelligenza si trova probabilmente nel modo
in cui fluiscono le informazioni nel cervello. Inoltre è necessario osservare questi
processi a livello delle singole cellule nervose, i neuroni: l'informazione viene raccolta
dai dendriti, che sono collegati con altre cellule nervose tramite le sinapsi. Gli impulsi
elettrici corrono lungo i dendriti fino al corpo cellulare e da lì attraverso l'assone
verso altre cellule nervose, con cui sono in collegamento attraverso altre sinapsi. Gli
assoni sono avvolti da uno "strato isolante" più o meno completo, la mielina.
Stimolata dagli impulsi elettrici, la parte anteriore - presinaptica - della sinapsi
rilascia sostanze chimiche, i cosiddetti neurotrasmettitori. Questi a loro volta inducono
nella cellula successiva - postsinaptica - un impulso elettrico.
Le differenze tra persone di intelligenza diversa possono perciò dipendere dai seguenti
fattori:
o la quantità dei neuroni; o la quantità dei dendriti;
o la quantità dei collegamenti sinaptici;
o il grado di mielinizzazione (isolamento) degli assoni.
Anche se le prime due possibilità non vanno escluse a priori, attualmente esistono
spiegazioni molto plausibili, soprattutto per le ultime due alternative citate. L'ipotesi
della regolazione neurale degli assoni nel cervello. Essa è dovuta a Edward M. Miller, un
economista dell'Università di New Orleans che si è occupato anche di problemi relativi
allo sviluppo e all'intelligenza dell'uomo. Peraltro nessuno dei due modelli è finora
confortato da una dimostrazione sperimentale, dato che non sono ancora disponibili
adeguati metodi di ricerca su persone viventi.
Lo strato isolante di mielina favorisce la trasmissione del segnale nel cervello in vari
modi: l'eccitazione si instaura più velocemente, il segnale si indebolisce meno lungo il
percorso e, infine, l'interferenza fra i segnali trasmessi dai vari neuroni si attenua. In
questo modo la trasmissione elettrica risulta meno soggetta a errori.
Se gli assoni delle persone più intelligenti fossero meglio isolati, e dunque più
potenti, potremmo spiegare meglio i seguenti risultati delle ricerche:
- La più rapida trasmissione dell'eccitazione permette la più rapida reazione rilevata
negli esperimenti di misurazione delle correnti cerebrali. Ma spiegherebbe anche l'elevata
velocità di elaborazione, riscontrata nei test sui tempi di reazione.
- Le minori perdite misurate durante la trasmissione giustificherebbero il minor consumo
energia.
- Le attività sono più focalizzate grazie al fatto che i neuroni interferiscono meno uno
con l'altro.
- Un numero ridotto di errori di trasmissione porterebbe a migliori prestazioni cognitive,
e perciò a un'intelligenza maggiore.
Secondo questa teoria, la mielinizzazione si sviluppa nel corso della vita parallelamente
alla velocità di elaborazione e all'intelligenza: l'uomo non nasce con gli assoni
isolati, la mielina si forma durante l'infanzia. In età avanzata, per contro, pare che
gli assoni tendano a demielinizzarsi, ossia a perdere tale sostanza protettiva.
Anche la velocità di elaborazione, sia dal punto di vista elettrofisiologico sia da
quello comportamentale, aumenta fino all'adolescenza, rimane poi costante per qualche
tempo e diminuisce nettamente nell'età avanzata. Gli studi psicologici mostrano un
analogo decorso temporale anche per quanto riguarda l'intelligenza: cresce all'incirca
fino ai 15-20 anni, rimane stabile per vari decenni e poi inizia a declinare fra i 65-70
anni. La misura in cui la mielinizzazione agisce sulle vie nervose potrebbe effettivamente
influire sulla capacità intellettiva della persona.
Il secondo esperimento molto promettente per dare una spiegazione biologica
dell'intelligenza riguarda il numero delle sinapsi cerebrali. Anche in questo caso lo
sviluppo individuale ha un ruolo importante: le connessioni sinaptiche tra i neuroni si
sviluppano costantemente durante i primi anni di vita, stimolate dalle esperienze vissute
e dal rapporto con l'ambiente. Il numero delle connessioni non è costante nel tempo, ma
inizia a diminuire dal quinto anno di vita fino alla pubertà. I ricercatori suppongono
che questo fenomeno sia dovuto un qualche tipo di regolazione neurale (in inglese neural
pruning). Le connessioni sinaptiche non utilizzate vengono eliminate perché il loro
mantenimento significherebbe per la cellula nervosa uno spreco di energia. Alcune immagini
riprese con tecniche sofisticate suffragano questa supposizioe: il metabolismo cerebrale
aumenta complessiamente durante i primi cinque anni di vita e sucessivamente comincia a
diminuire; il dispendio di energia del cervello di un adulto è all'incirca la metà di
quello di un bambino di cinque anni! Tutto ciò, da solo, ovviamente non è in grado i
spiegare le differenze individuali nell'intelligenza. Qui entrano in gioco gli studi
svolti su soggetti affetti da deficit nello sviluppo intellettivo: essi avevano un
metabolismo cerebrale più elevato e una quantità maggiore di sinapsi. Si presume che,
sia nel caso di deficit nello sviluppo dell'intelligenza sia nel caso della sindrome di
Down o dell'autismo, la regolazione neurale funzioni in modo efficiente, dando origine a
un forte esubero di sinapsi che, a loro volta, "divorano" energia e impediscono
che l'attività cerebrale si focalizzi esattamente nelle aree che elaborano le attività
cognitive.
Al pari della precedente ipotesi - quella della mielinizzazione - anche questa non è
tuttavia suffragata sperimentalmente in modo adeguato e ha quindi un carattere
"speculativo". Gli strumenti che abbiamo a disposizione per la ricerca
neurologica non sono infatti in grado di misurare con precisione né la quantità di
mielina né il numero di sinapsi nei soggetti viventi; ciò può essere fatto solo su
preparati istologici ottenuti dopo la morte. Forse un giorno il potente sviluppo della
tecnologia in campo medico-diagnostico consentirà una verifica diretta di queste ipotesi.
Una conferma avvicinerebbe i ricercatori al traguardo di comprendere a fondo il fenomeno
dell'"intelligenza". Queste spiegazioni biologiche potrebbero avere diverse
conseguenze, sia sul piano della ricerca psicologica sull'intelligenza sia sul piano
sociale. E non solo per gli effetti difficilmente valutabili che un ridimensionamento
delle teorie sull'intelligenza potrebbe avere sull'immagine che abbiamo di noi stessi, ma
anche per la nostra vita quotidiana. Se i ricercatori potessero dimostrare l'ipotesi
dell'importanza della mielinizzazione, si disporrebbe di un forte argomento a favore
dell'allattamento al seno, poiché pare che solo il latte materno, contrariamente a quello
artificiale, possieda gli acidi grassi necessari per la produzione della mielina.
La complessità del fenomeno "intelligenza" non può tuttavia essere spiegata
riducendolo a poche cause. Per questa ragione non c'è da aspettarsi che i test che
misurano il quoziente intellettivo vengano sostituiti nel giro di pochi anni dalla
determinazione della mielina o dal conteggio delle sinapsi.
AAA cercasi uomo intelligente
Horst Hameister
Le capacità intellettive che le persone sviluppano durante la vita dipendono
indubbiamente da molteplici fattori. È indiscutibile che, oltre che dall'ambiente,
l'intelligenza dipenda anche dal patrimonio ereditario. Conosciamo diversi geni che sono
indispensabili per un normale sviluppo intellettivo. Se questi geni vengono danneggiati
nell'ovulo fecondato, si corre il pericolo che il bambino, crescendo, soffra di ritardi
mentali o che abbia un'intelligenza limitata.
All'Università di Ulm abbiamo analizzato dati genetici provenienti dallo Human Genome
Project, confermando precedenti supposizioni: geni di questo tipo sembrano localizzati
preferibilmente nel cromosoma X, quello del sesso femminile. Se si fa un confronto con gli
altri cromosomi, si scopre che su quello X ricorrono con una frequenza quattro volte
superiore. E di essi la donna ne possiede di norma due esemplari; il mascio solo uno! Da
oltre cent'anni si osserva che le malattie mentali colpiscono più facilmente i maschi:
dato che le donne hanno un cromosoma X in più, compensano i difetti genetici dell'uno con
la parte intatta dell'altro. Si possono considerare questi geni del cromosoma X come
"geni dell'intelligenza" che rendono la mente più ricettiva? Un favorevole
collocamento di questi geni sull'unico cromosoma X dell'uomo dovrebbe avere come
conseguenza un'intelligenza particolarmente brillante; per ottenere lo stesso risultato
una donna invece dovrebbe avere una supercombinazione su entrambi i cromosomi X, cosa,
più difficile. Inoltre ci dovrebbero essere non solo più maschi malati di mente ma anche
più con intelligenza superiore alla media. Di fatto i valori di QI nella popolazione
femminile si trovano vicini al valor medio nella gaussiana, mentre nei maschi si notano
più ampie oscillazioni dei valori di Ql.
La presenza di una funzione cerebrale estremamente marcata è caratteristica della specie
umana. Dall'accumulo di "geni intelligenti" nel cromosomi X, un genetista
evolutivo giunge facilmente alla conclusione che essi devono aver avuto un ruolo
particolare nell'evoluzione della specie. Le caratteristiche tipiche di una specie si
sviluppano in un tempo relativamente breve. Nei pesci ciò può avvenire in poche
generazioni. Negli esseri umani contiamo 7 milioni di anni dalla separazione della linea
degli scimpanzé. Le caratteristiche delle specie devono essere selezionate velocemente, e
questo è possibile tramite i geni che vengono fissati sul cromosoma X. Il cambiamento di
questi geni nell'individuo maschile può essere visibile, e dunque selezionabile, già
nella successiva generazione.
Le ricerche sui processi di selezione che portano allo sviluppo della specie si sono molto
intensificate dai tempi di Charles Darwin. Per lo sviluppo di una nuova specie, oltre a
molti altri fattori, è di particolare importanza la selezione sessuale. Le scelte
femminili dominano il mondo animale, per semplici motivi: nella riproduzione la femmina
investe molto di più. Paragonando l'elevatissimo numero di spermatozoi del maschio, la
femmina produce relativamente poche e preziose cellule uovo. Per questa ragione la femmina
tende ad accoppiarsi più raramente del maschio, ed è più selettiva. Darwin spiegò la
presenza di caratteristiche appariscenti - come la coda del pavone o il canto
dell'usignolo - proprio con la selezione sessuale.
A fianco della selezione sessuale c'è la selezione naturale, dove a spuntarla non sono i
più belli, ma i più robusti. E queste forme di selezione possono agire, da un certo
punto in poi, in direzioni contrastanti. Un esempio: la femmina del pavone sceglie tra i
pretendenti quello con la coda più imponente; nel corso dell'evoluzione questa coda
sarebbe potuta diventare talmente lunga e vistosa da ostacolare la fuga del pavone maschio
dai predatori, ma la selezione naturale frena e limita lo sviluppo di queste
caratteristiche sessuali. Se questa moderazione non ha successo, la specie si estingue!
Lo sviluppo dell'intelligenza nell'uomo è qualcosa di molto diverso: in questo caso
entrambe le forme di selezione (naturale e sessuale) si rinforzano a vicenda. Un uomo con
capacità eccellenti non soltanto sarà attraente per molte donne, e dunque in grado di
concepire più discendenti, ma quegli stessi geni gli forniranno un vantaggio anche nella
lotta per la sopravvivenza.
Probabilmente dobbiamo ringraziare le "Eve" che vivevano in Africa milioni di
anni fa, e che sceglievano il partner per l'intelligenza. Nel linguaggio economico odierno
si direbbe che queste donne hanno avuto lungimiranza nell'investire capitali a rischio. Un
investimento che è maturato a vantaggio degli uomini e delle donne di oggi.
I maschi sembrano essere più intelligenti, ma anche più stupidi, infatti i valori
estremi di QI sono più frequenti nella popolazione maschile che in quella femminile.
Genitori Brillanti - Bambini Astuti?
Nell'uomo, le cellule sia dei maschi sia delle femmine posseggono un totale di 23 coppie
di cromosomi, ma si differenziano per i cromosomi sessuali. La donna possiede due
cromosomi X, l'uomo un cromosoma X e un cromosoma Y. Il cromosoma Y è piccolo (ospita una
ventina di geni) ed è responsabile solo dello sviluppo sessuale maschile. Invece il
cromosoma X
comprende circa 1200 geni. Nella formazione delle cellule uovo e degli spermatozoi, le
coppie di cromosomi vengono divise in modo che ogni cellula germinale contenga ancora una
singola serie cromosomica. Prima di essere divise le coppie di cromosomi si incrociano e
possono scambiarsi le parti di cromosomi corrispondenti. I "geni intelligenti",
che prima erano distribuiti su due cromosomi X, possono così trovarsi tutti su uno di
essi. La madre può cosi trasmettere ai discendenti una "supercombinazione"
favorevole. In tal caso, secondo la nostra ipotesi, il figlio sarà dotato di
un'intelligenza molto spiccata; la figlia riceve, oltre alla supercombinazione della
madre, anche un secondo ("normale") cromosoma X dal padre, in modo da attenuare
l'effetto complessivo. II figlio con l'intelligenza molto elevata dona alla prossima
generazione la supercombinazione sui suoi cromosomi X solamente alle figlie, e mai a uno
dei figli.
Per essere veramente e utilmente creativi bisogna avere un progetto valido, o meglio
ancora più progetti da condividere con la creatività dell'intera umanità, viceversa non
saremo in grado che di compiere banali, stupide e mediocri imprese creative, come quelle
ad esempio di scrivere dei libri insulsi che non serviranno minimamente allo sviluppo
della specie e della sua felicità.
Carl William Brown
Finora è riuscita a eludere gli psicologi. Ma adesso giungono in loro aiuto, con nuovi
metodi di ricerca, gli specialisti che studiano il cervello.
Qual è il segreto della creatività ? di Aljoscha C. Neubauer
I creativi hanno spesso un'intelligenza. superiore alla media ma non tutte le persone
intelligenti sono creative.
E' quasi diventata una parola di moda: la creatività è "in" e pensare in modo
creativo è un toccasana per la vita di tutti i giorni. Forse tra qualche tempo
l'entusiasmo per questa dote tanto di moda si placherà. Ma indubbiamente la creatività,
assieme all'intelligenza, è la dote più importante per il successo nella nostra
società. Sorprendentemente, questa moda non ha però toccato la ricerca psicologica: in
quel campo la creatività sembra una ragazza che in discoteca fa da tappezzeria. Se
infatti negli ultimi 100 anni, a partire dai primi risultati sui test del Ql, gli
psicologi hanno studiato l'intelligenza umana sotto tutti gli aspetti, le ricerche sulla
creatività hanno segnato il passo.
Ma che cosa si intende per creatività? Già la definizione è controversa. Sia gli
specialisti sia i profani la descrivono spesso come la capacità di inventare qualcosa di
nuovo. E già qui iniziano i problemi. Che cosa si intende attualmente per nuovo? Qualcosa
di molto raro - statisticamente parlando - è nuovo? O lo è solo qualcosa che prima non
c'era?
Per definire il termine, alcune ricerche sono partite dal circoscrivere ciò che si
intende per intelligenza. Per esempio, in un test di intelligenza ogni esercizio ha sempre
una soluzione corretta. I ricercatori parlano in questo caso anche di "pensiero
convergente", che cioè punta verso la soluzione corretta, derivata logicamente. Per
contro, esiste anche un "pensiero divergente", che cerca di affrontare un
problema con soluzioni diverse e innovative, ossia che utilizza la creatività. Gli
psicologi hanno sviluppato svariati test che mirano a "catturare" la
creatività, intesa come impiego delle possibilità insite nel pensiero divergente. In
questo modo speravano di poter prevedere fino a che punto un soggetto sia in grado di
avere prestazioni creative.
Alcuni ricercatori hanno sostenuto che l'intelligenza sia una condizione utile ma non
sufficiente per la creatività: le persone creative presentano spesso anche
un'intelligenza superiore alla media, ma una persona intelligente non è necessariamente
dotata di creatività. Ma questo punto di vista non sembra reggere al vaglio degli
esperimenti: pare che intelligenza e creatività non siano collegate, cioè chi è
creativo è spesso, ma non necessariamente, intelligente e viceversa. Neppure l'analisi
della personalità di soggetti molto creativi ha potuto spiegare in maniera soddisfacente
il fenomeno della "creatività".
Una volta percorse queste strade senza riuscire ad arrivare al segreto della creatività,
i ricercatori hanno provato a spostare il tiro e si sono chiesti in quali condizioni e
attraverso quali processi mentali nascano le capacità creative. Secondo un'opinione
diffusa fra la gente, le idee geniali o le ispirazioni appaiono dal nulla o nascono in
seguito a un qualche tipo di "illuminazione".
Robert W. Weisberg, psicologo della Temple University di Philadelphia, ha però dimostrato
che questo punto di vista è dovuto in gran parte al modo in cui personalità di spicco
amano raccontare la nascita delle loro idee. Se si analizzano nel dettaglio i risultati
altamente creativi, ci si accorge che nascono da una lunga e approfondita conoscenza del
proprio settore di lavoro. Molto spesso i concetti nuovi sgorgano da un ricco tesoro di
conoscenze. Ma, se pur necessaria, la conoscenza non sembra assolutamente sufficiente: non
tutte le persone che conoscono bene un argomento possono diventare ricercatori creativi,
oppure artisti! Perché si esplichi la creatività è necessario un presupposto essenziale
che consente di sfruttare il patrimonio di conoscenze.
A questo punto entra in gioco l'attenzione: per la soluzione di problemi convergenti
dovrebbe essere totalmente focalizzata sui termini del quesito; per produrre creativamente
invece bisogna avere orizzonti mentali aperti.
Secondo Colin Martindale, psicologo dell'Università del Maine, dato che il cervello ha
risorse di energia limitate, può organizzare la sua attività in due modi differenti.
L'intensa attività di piccole zone della corteccia cerebrale dovrebbe consentire - in
accordo con l'ipotesi dell'efficienza neuronale - buoni risultati di fronte a compiti
abituali. Un'attività ridotta, ma ben calibrata, di altre aree del cervello dovrebbe
invece facilitare lo sviluppo di associazioni a distanza.
Ma come è possibile valutare il contributo alla soluzione di un problema di aree distanti
del cervello? A questo scopo i ricercatori misurano le cosiddette coerenze
elettroencefalografiche: quando due diverse aree cerebrali sono attive in modo simile -
ossia, le loro onde elettroencefalografiche si somigliano per fase e frequenza - allora
queste due regioni della corteccia cerebrale stanno "conversando" tra loro.
Recentemente Norbert Jausovec, psicologo dell'Università di Maribor, in Slovenia, è
riuscito a corroborare l'ipotesi di Martindale: mettendo a confronto l'attivazione del
cervello in compiti convergenti e divergenti, si poteva osservare che nel caso di compiti
divergenti c'era un accoppiamento di aree della corteccia cerebrale distanti. Inoltre il
cervello delle persone molto creative è globalmente meno attivo di quello di soggetti
molto intelligenti: è in grado di far lavorare insieme con maggiore efficienza aree
cerebrali diverse e distanti.
Questi nuovi risultati sono molto promettenti: mentre gli studi tradizionali sulla
creatività, basati sui soli test psicologici, sembrano giunti a un punto morto, la
ricerca neurofisiologica sta aprendo una diversa prospettiva, per individuare la
differenza, misurabile con precisione, tra intelligenza e creatività. Forse questo nuovo
approccio potrà liberare la creatività dal suo ruolo di "ragazza-tappezzeria"
e stimolare a sua volta ulteriori ricerche sull'intelligenza.
Inventiva e immaginazione: talenti che molti invidiano. Ma anche l'educazione può aiutare
ad acquisirle di Heiner Rindermann
"Diventate creativi! Il nostro programma intensivo di due ore vi trasforma in una
inesauribile e frizzante fonte di idee!" Sarebbe molto bello, vero? Purtroppo non
esistono ricette infallibili né pillole magiche; stimolare la creatività personale è
difficile quasi quanto riuscire a definire in che cosa consista questa straordinaria
qualità. Tuttavia è possibile cercare di individuare alcune utili strategie che servono
allo scopo. esaminiamo innanzitutto ciò che distingue le persone creative. Nello sviluppo
di idee e di prodotti innovativi hanno un ruolo determinante le seguenti caratteristiche
personali o, per meglio dire, alcune loro combinazioni:
- Indipendenza e anticonformismo: per realizzare prodotti veramente nuovi occorre superare
le tradizioni consolidate e le norme sociali che stabiliscono come "si deve"
pensare e lavorare.
- Personalità spiccata: per difendere le nuove idee e fronteggiare le avversità, bisogna
possedere una notevole dose di fiducia in se stessi.
- Disponibilità a rischiare: le vie più tranquille e rassicuranti sono anche le meno
feconde.
Inoltre, le personalità creative sono spesso più curiose della media; motivate e
interessate, hanno flessibilità e spontaneità maggiori, oltre a un'intelligenza
associativa, fluida e impulsiva.
Andando all'estremo, occorre dire che le persone straordinariamente creative possiedono
tratti caratteriali molto forti, che difficilmente si trovano associati. E spesso hanno
una personalità particolarmente complessa, tant'è vero che in una ricerca condotta su 56
scrittori americani viventi, è emersa spesso la stessa combinazione di psicopatologia e
temperamento molto spiccato, che probabilmente era presente anche in Heinrich Heine
(1797-1856) o in Kurt Tucholsky (1890-1935). Certo, non è detto che tutti coloro che
ricercano la creatività debbano pagare un prezzo così alto!
Lasciate che le idee zampillino
Per stimolare le capacità creative personali, sono stati messi a punto diversi
programmmi. Il metodo più noto è il "brainstorming", sviluppato dallo
specialista di pubblicità Alex J. Osborn: consiste nel produrre in un tempo limitato, in
gruppo o più raramente da soli, il maggior numero di idee possibili, indipendentemente
dalla loro qualità. La valutazione e la scelta avvengono successivamente. L'entusiasmo
dei partecipanti, unito alla possibilità di formulare proposte senza il filtro di una
autocensura preventiva, dovrebbe in generale portare allo sviluppo di nuove idee.
Oltre al brainstorming, per promuovere la creatività sono talvolta utilizzati anche i
"voli di fantasia" nel lavoro con i bambini, ma anche nella psicoterapia. Qui si
tratta di spezzare gli schemi rigidi di pensiero e di azione. Il punto di partenza sono
domande come: Cosa accadrebbe se succedesse questo o quello? Che possibilità si
aprirebbero?
Al pari dei voli di fantasia, è utile anche immedesimarsi in una persona di un'altra
epoca oppure in animali. Questo tipo di allenamento rafforza la capacità immaginativa
della persona, e può essere svolto in diversi modi. Ma la personalità non è l'unico
fattore importante in questo ambito. Doti creative importanti necessitano, oltre che della
cultura, della motivazione e della ricchezza di idee del soggetto, anche di un ambiente
favorevole che sappia accoglierle: innanzitutto un ambiente sociale che mostri
disponibilità e apprezzamento verso la produzione creativa, poi un campo di applicazione
aperto e suscettibile di cambiamenti, infine una buona dose d'incoraggiamento.
Fino all'inizio del XX secolo la creatività era considerata una prerogativa di pochi
geni. Solamente loro, grazie a una sorta di ispirazione divina - secondo una concezione
che ha le sue radici nell'antica Grecia - potevano sviluppare idee come fulmini caduti dal
cielo. Gli odierni studiosi ritengono che per la creatività sia invece più importante
vivere in condizioni ambientali stimolanti e occuparsi intensamente e con continuità di
un campo solo. Allo scopo potrebbe anche essere utile modificare l'ambiente, ossia
famiglia, scuola, professione e società.
Che aspetto deve avere un ambiente stimolante per potervi fare fiorire la creatività?
Prima di tutto concedere ai singoli libertà di azione. Prescrizioni rigide e routine
invariabili soffocano l'ispirazione. Favoriamo allora la libertà della mente nella nostra
società! Nella scuola, per esempio, gli insegnanti dovrebbero permettere il formarsi di
gruppi "aperti", così da lasciar spazio allo sviluppo di domande, di soluzioni
e di vie diverse per risolvere i problemi proposti. Cercate di essere tolleranti nei
confronti dell'inconsueto! Gli errori che non vengono puniti permettono di esprimere senza
timore idee divergenti, di intraprendere nuove strade e di sviluppare prodotti originali.
Questo vale sia per la società nel suo insieme sia, in particolare, per la scuola e per
la famiglia.
L'auto-organizzazione è una chiave per operare creativamente! Poter scegliere il
contenuto o l'oggetto del lavoro e dello studio programmando per tempo l'attività aiuta a
pensare e ad agire autonomamente e spalanca spazi più ampi per giocare con la
creatività.
Un ambiente stimolante è in genere una buona base per attività curiose e creative. I
genitori dovrebbero procurare ai figli giochi che possano essere utilizzati in modo
flessibile, mentre gli insegnanti, durante le lezioni, dovrebbero porre agli allievi
domande per le quali non vi sia un'unica risposta corretta prevista. Un altro modo utile
per favorire il lavoro creativo è fornire una varietà di stimoli, mediante i libri o
l'accesso a Internet, ma anche con giochi come le marionette, oppure cubetti o mattoncini
per costruzioni. Per un ambiente stimolante contano anche i modelli, figure carismatiche
con le quali stabilire un contatto personale, ma anche personalità del passato e
conosciute tramite libri, film o racconti. Anche i concorsi - come quelli per giovani
ricercatori - possono svolgere una proficua azione di stimolo.
Naturalmente l'ambiente familiare può contribuire in misura notevole allo sviluppo della
creatività nei bambini: gli interessi culturali dei genitori e un'educazione non
autoritaria possono stimolarla. Inoltre, i genitori dovrebbero incoraggiare adeguatamente
ed educare i figli all'indipendenza. Anche la scuola deve fare la sua parte: gli
insegnanti non dovrebbero solamente far ripetere i contenuti delle lezioni delle varie
materie di studio ma spingere gli studenti a trovare le soluzioni in modo autonomo.
Per promuovere la creatività nell'ambiente lavorativo sarebbe utile stimolare i
collaboratori, premiando le innovazioni e lasciando che ciascuno esprima le proprie idee.
Poter organizzare da soli il lavoro, avere la libertà di pensare nuovi prodotti e di
mettere in moto nuove forme di produzione e strutture è la strada giusta per una maggior
creatività sul posto di lavoro. Inoltre è importante saper riconoscere e promuovere le
specifiche capacità abbattendo le gerarchie.
Alternando periodi attivi a periodi non produttivi, lavoro e riposo, generalmente si
promuove la creatività. Le intense fasi di lavoro forniscono una base adatta
all'acquisizione di conoscenze e competenze, mentre la pace e la distrazione aiutano
l'ispirazione.
Può sembrare contraddittorio, ma anche una routine che alleggerisca il lavoro e una
organizzazione efficiente possono stimolare l'immaginazione, poiché permettono di
risparmiare tempo e attenzione: creatività nell'ordine!
Bibliografia
Lehrke R. Sex Linkage of Intelligence The X-Factor, Praeger, Westport, Connecticut, 1997
Dentici Andreani O. Intelligenza e creatività, in Psicologia a cura di N. Dazzi e G.
Vetrone Carocci editore Roma, 2000
Cropley A. Creatività in education and Learning. A guide for teachers and education.
Kogan page, Londra 2001
Dalla Rivista Mente e Cervello n. I , gennaio-febbraio 2003
Indice
Intuito,
percezioni e creatività. di Amelia Beltramini
Per la scienza l'intuito è esperienza, unita a conoscenze che non sappiamo di
avere. Ed è prezioso in alcuni campi. In altri, invece, e meglio non fidarsi: l'errore è
in agguato.
Ha sede nel cervello destro, la parte che sovrintende a creatività e affettività. Si
attiva quando si incontra una persona per la prima volta e in pochi secondi la si
etichetta: "simpatica" o "antipatica". O quando improvvisamente
"si accende la lampadina" e si vede la soluzione di un problema. O quando,
nell'emergenza, qualcosa ci suggerisce come reagire. Alcuni parlano di sesto senso, altri
di intuito (qualità che dovrebbe essere più femminile che maschile). Dove è nascosta
questa "conoscenza" così sfuggente? Come viene acquisita? Ci si può fidare
delle istruzioni che impartisce? O è responsabile di gravi errori di valutazione? Quel
che è certo è che non è frutto di riflessione o di ragionamento. E neppure
dell'osservazione, dell'attenzione a ciò che succede fuori.
Per gli studiosi la nostra mente sa molte più cose di quelle di cui ci rendiamo conto. E
all'improvviso le tira fuori senza che lo chiediamo. Questi 'flash'; però, possono anche
farci sbagliare.
Prima situazione: arriviamo a una festa. Inizia il giro delle presentazioni: qualche nome,
uno sguardo, poche parole, un sorriso. Che spesso sono più che sufficienti per giudicare
("simpatico", "antipatico") persone che non abbiamo mai visto e di cui
sappiamo quasi nulla.
Seconda situazione: un problema che in ufficio nessuno riesce a risolvere.
Improvvisamente, mentre siete a casa e state lavando i piatti, avete l'illuminazione: e il
problema è risolto. Da dove è arrivata la soluzione al problema? Che cosa vi ha detto
che quella persona è simpatica? E perché certe "rivelazioni" ci arrivano
mentre stiamo pensando a tutt'altro? Per alcuni, tutte queste manifestazioni della mente
umana si possono raggruppare sotto la definizione di "intuito". Per altri a
guidarci in questi casi è un più misterioso "sesto senso". Quel che è certo
è che non è una forma di pensiero razionale, ma qualcosa che mette in gioco poteri poco
conosciuti della mente umana. E la scienza pensa oggi di avere trovato la chiave per
capirli. Ecco qualche esempio.
In emergenza
Ore 15,21: suona l'allarme. Gary Klein, psicologo cognitivista Usa, salta sul camion dei
pompieri insieme alla squadra di turno. Tre ninuti dopo è sul prato di una viletta, dove
giace un uomo, gli abiti insanguinati. Un vetro gli ha reciso un'arteria. II responsabile
della squadra stima che abbia perso due unità di sangue. Non verifica se la spina dorsale
è integra e c'è rischio di paralisi. Sa che se perde altro sangue l'uomo rischia di
morire. La decisione è rapida. Alle 15,31 l'ambulanza è già al pronto soccorso
dell'ospedale.
Intuizioni esperte
Klein studia come vengono prese le decisioni nelle emergenze. E ha scoperto che non ci si
affida al ragionamento, al calcolo delle probabilità. Che cosa suggerisce qual è la cosa
migliore da fare? L'esperienza, gli hanno risposto pompieri, piloti di carri armati,
elicotteristi, medici delle unità di terapia intensiva, che non hanno però saputo
spiegargli come prendono le decisioni cruciali. Vedono che cosa sta succedendo e agiscono,
così come si preme il pedale del freno davanti a un pedone che attraversa la strada.
Secondo Klein questo tipo di intuizione usa meccanismi cognitivi inconsci: facoltà di
percezione, di apprendimento e di memorizzazione del cervello messe in opera a nostra
insaputa. I ricercatori le chiamano "conoscenze implicite". Guidano la decisione
e l'azione, senza che il soggetto sia cosciente di possederle. Ma si può percepire senza
rendersene conto? Neurobiologi come Roger Sperry e Michael Gazzaniga del Caltech lo hanno
dimostrato studiando epilettici ai quali avevano disconnesso il cervello sinistro (che
presiede ai processi logico-analitici e al linguaggio) da quello destro (dove hanno sede
intuito, emozioni, creatività). Se si pone per breve tempo davanti all'occhio sinistro di
questi pazienti (collegato al cervello destro) un vocabolo come "cucchiaio",
l'informazione non può passare al cervello sinistro perché i collegamenti sono
interrotti; i pazienti quindi non sanno cosa hanno visto, né possono dirlo. Ma se si
chiede loro di prendere con la sinistra (guidata dal cervello destro) l'oggetto di cui
hanno letto il nome tra oggetti nascosti in un cassetto e a loro invisibili, afferrano il
cucchiaio, pur senza sapersi spiegare perché.
Esperimenti come questo hanno dimostrato che il cervello capta informazioni a nostra
insaputa. E la diagnostica per immagini, che rende visibile l'attività cerebrale, ha
confermato la percezione subliminale, cioè non cosciente. L'équipe di Stanislas Dehaene
di Orsay, in Francia, ha dimostrato che se si presenta una parola per 43 centesimi di
secondo, il cervello la identifica inconsciamente, anche se il soggetto sarà convinto di
non aver visto nulla. Ma queste informazioni non consce non sono accessibili al
ragionamento. E sono elaborate in parallelo: pensiero, memoria e comportamento funzionano
su un doppio livello, cosciente e deliberato da una parte, inconscio e automatico
dall'altra. "Nei campi che le sono propri, l'intuizione è una componente del nostro
modo di pensare, come lo è la logica analitica" dice David Myers, psicologo
dell'Hope College di Holland, nel Michigan. Un'altra teoria, quella
dell'"intelligenza emotiva", ha formulato una nuova ipotesi: logica ed emozioni
non sono dissociabili. A ogni concetto presente nella memoria sono associate tracce
emotive corrispondenti lasciate dalle esperienze vissute: l'immagine di un ascensore, per
esempio, evoca noia, o ansia, residui inconsci di passati "viaggi" in ascensore.
E ogni volta che manipoliamo questi concetti con il pensiero logico, anche le emozioni
associate "entrano in risonanza" con emozioni analoghe associate ad altri
concetti. Questo, secondo Todd Lubart dell'Université Paris 5, contribuirebbe
all'associazione creativa di concetti e sarebbe quindi alla base della creatività.
Previsioni future
Stuart Vyse, del Connecticut College di New London, invita alla cautela. "Le
intuizioni ci fanno sentire potenti, ma i fatti dimostrano che spesso sbagliano".
Sono preziose in alcuni settori: ma non indovinano come andrà il mercato azionario, né
predicono l'esito delle partite di calcio. Che dire allora di chi azzecca i numeri del
lotto? Secondo il matematico John Allen Paulos, un evento che si verifica solo una volta
al giorno ogni miliardo di persone, si verifica 2 mila volte l'anno: il giorno in cui non
succedesse qualcosa di strano sarebbe, quello si, un giorno strano. "La nostra mente
è fatta per cercare una regolarità e per domandare spiegazioni anche dove non ce ne
sono" dice Myers. "Notiamo le coincidenze, e vi troviamo conferme delle nostre
intuizioni".
Anche molti Nobel lo ammettono: molte scoperte nascono da intuizioni giunte nel sonno, nel
dormiveglia, o sovrappensiero, mentre si compiono azioni ripetitive.
Con la logica dimostriamo ciò che con l'intuizione abbiamo scoperto" così disse il
grande matematico francese Jules Henri Poincaré, vissuto fra l'800 e il '900.
Un'eccezione riservata ai cultori dei numeri? Su 83 premi Nobel della scienza e della
medicina, 72 citano l'intuizione fra i fattori determinanti del loro successo. E a essi si
accodano fisici e astronomi. Intuire significa rinunciare al controllo della mente
razionale e fidarsi delle visioni dell'inconscio, che non possono essere quantificate o
giustificate razionalmente, poiché si fondano sull'abilità di organizzare l'informazione
in idee nuove e imprevedibili. Poincaré parla infatti di una fase di
"incubazione", in cui il ricercatore "dimentica" i dati del problema,
mentre il suo cervello continua a rimuginarli, formando miriadi di combinazioni. Poi,
quando meno la si aspetta, dall'inconscio arriva l'illuminazione". Ma la fase di
"macerazione" può durare anni. Ce ne vollero 30 a Andrew Wiles, matematico di
Princeton, per trovare la strada giusta per dimostrare il teorema seicentesco di Fermat.
Ascoltare l'inconscio.
Come ottenere la collaborazione dell'inconscio? "Lo stadio di incubazione è
passivo e ha luogo al di fuori della nostra consapevolezza" spiega David Goleman,
docente di psicologia ad Harvard. "Anche se non ci si pensa in modo consapevole, la
mente continua a cercare una soluzione. La risposta può emergere in un sogno o nel
dormiveglia". Non a caso la saggezza popolare dice che ai problemi "bisogna
dormirci sopra". Ma la risposta può essere generata anche dalle situazioni di
"trance" indotte dai gesti ripetitivi e automatici. Nolan Bushnell, fondatore
dell'Atari, ebbe l'ispirazione del suo videogioco di maggior successo facendo scorrere la
sabbia fra le dita, mentre il pittore Usa Grant Wood sostiene che le migliori idee gli
sono venute mentre mungeva.
Intuizione e traspirazione.
Perché l'inconscio è più attrezzato della mente cosciente? Nell'inconscio non esiste
autocensura, e le idee, anche le più folli, sono libere di ricombinarsi fra loro in
associazioni imprevedibili e promiscue: Charles Darwin, per esempio, nella sua teoria
dell'evoluzione mise insieme dati in gran parte già noti, ma li riorganizzò e
interpretò in modo diverso. Inoltre l'inconscio "pesca" nel magazzino di tutte
le nostre conoscenze, comprese quelle di cui siamo inconsapevoli (secondo i cognitivisti
sarebbero la maggior parte). A banca dati più ampia corrisponde un maggior numero di
ricombinazioni e la possibilità di nuovi legami. Poi, come ha detto Thomas Edison,
all'intuizione segue "la traspirazione", cioè il sudore, quello richiesto dalla
fatica di dimostrare che l'intuizione era giusta.
Per saperne di più:
D. Goleman, M. Ray, P Kaufí Lo spirito creativo (Biblioteca un
sale Rizzoli).
Isaac Newton non fu il primo testimone della caduta di una mela da un albero, ma fu il
primo a trarne un'informazione valida universalmente. E il chimico tedesco Friedrich A.
Kekulé, padre della chimica organica, intuì la struttura esagonale della molecola del
benzene in un momento di relax: addormentato davanti al caminetto acceso, sognò un
serpente arrotolato su se stesso che si mangiava la coda. Archimde invece scoprì legge
che da lui prese il nome rilassandosi nel tinozza del bagno. Doveva dimostrare che la
corona del re non era d'oro, ma di lega d'argento. Immerso nella tinozza e vedendo l'acqua
debordare comprese di poter calcolare la densità della corona mettendola nell'acqua: se
conteneva argento avrebbe spostato più acqua di un oggetto dello stesso peso e fatto solo
d'oro.
A primissima vista. Bastano 200 millisecondi per valutare una persona
Attraente, simpatico, intelligente? I ricercatori stanno studiando se la prima impressione
esiste veramente, fino a che punto è attendibile, come si forma e quanto ci influenza.
Bastano 200 millisecondi, quanto uno sbattere di ciglia, per farsi un'idea dello
sconosciuto appena incontrato. "In quel quinto di secondo viene valutato ogni
particolare" dice John Bargh, psicologo della New York University. Non c'è da
stupirsi: quando il nostro antenato ominide andava a spasso per la savana, doveva capire
al volo se chi gli veniva incontro era amico o nemico. Chi azzeccava la valutazione aveva
maggiori probabilità di sopavvivere e lasciare discendenti, e questo spiega perché
ancora oggi siamo in grado di intuire nel nostro interlocutore rabbia, tristezza, paura o
piacere anche se lui tenta di nasconderli. Si chiama intuizione sociale, è una capacità
che attraversa tutte le culture ed è uno strumento notevolmente specializzato: ci
consente di capire quasi tutto in 10 secondi.
Intuito attendibile
Che si tratti di un colloquio di lavoro, di una festa, di un appuntamento galante o del
professore al primo ingresso in classe, basta uno sguardo. E gli studi hanno dimostrato
che è attendibile. Nalini Ambady e Robert Rosenthal, ricercatori di Harvard, hanno
dimostrato che 3 spezzoni video, di 10 secondi l'uno, registrati rispettivamente
all'inizio, a metà e alla fine della prima ora di lezione di 13 insegnanti, bastavano
agli allievi per valutarne
sicurezza, attivismo e passione per la materia. Impressioni confermate dalle valutazioni
ripetute alla fine del semestre. In base a che cosa si decide? Età, sesso, fascino sono i
primi criteri. L'abito fa il monaco, e ci facciamo un'idea di chi abbiamo di fronte anche
da abbigliamento e pettinatura. E da mimica, andatura, odore e voce. Per una prima
impressione sulla personalità può bastare una foto. E questo vale anche per gli
stranieri: da un ritratto i cinesi sono in grado di capire se un americano è estroverso e
piacevole, e lo stesso possono fare gli americani con la foto di un cinese. Abito fuori
luogo, pettinatura "sbagliata", tono di voce inadeguato possono dare
un'impressione negativa. Lo sa bene il venditore di professione, che indossa abiti curati,
porta i capelli in ordine e tiene la voce bassa. In tal modo riesce a guidare l'intuito
altrui (che comunque cade a volte in errori clamorosi, come con le "intuizioni
matematiche").
Marcia eloquente.
L'orientamento sessuale viene desunto dai gesti: ad Harvard hanno proiettato registrazioni
di una persona senza volto: bastava un secondo per catalogare l'attore come etero o
omosessuale. Con 90 secondi di camminata si desume la leadership, e questo permette di
scegliere il passante al quale chiedere un'informazione o la carità. La voce, anche se
recita l'alfabeto, dà indicazioni sulla sicurezza di sé. E sull'intelligenza: è
impossibile dedurre l'intelligenza da un filmato muto. "Attribuiamo forte energia
mentale a chi parla in modo scorrevole e pulito" dice Peter Borkenau,
dell'Università tedesca di Halle. Ma sono importanti pure i contenuti: attenti a come si
parla degli altri: accusare qualcuno di un difetto rischia di far attribuire quello stesso
difetto all'accusatore.
L'importanza dei naso.
Risultano poi più simpatici gli ottimisti e le persone felici rispetto ai pessimisti
infelici. Mentre l'attrazione sessuale si basa, secondo Claus Wedekind, biologo
dell'Università di Edimburgo, su analogie e differenze di alcuni messaggi odorosi legati
al sistema immunitario che percepiamo inconsciamente. Poi c'è la stretta di mano, gesto
che, secondo gli psicologi dell'Università dell'Alabama, consente di giudicare il
carattere in base al calore, alla forza, alla durata della stretta e al contatto dello
sguardo. Le donne che stringono in modo risoluto passano per aperte, intellettuali e
socievoli. Gli uomini, al contrario, sono giudicati aperti quando la loro stretta è ferma
senza essere una morsa.
Specchi nel cervello.
Con cosa valutiamo chi ci sta di fronte? Coi "neuroni specchio", scoperti da
Vittorio Gallese e Giacomo Rizzolatti dell'Università di Parma, che ci aiutano a
interpretare il comportamento altrui. "Entrano in funzione quando si compiono certe
azioni" spiega Gallese.
"Per esempio nel cervello delle scimmie si accendono quando l'animale rompe il guscio
di una nocciolina. Ma anche quando vede altri farlo e persino quando ne sente il rumore.
Rappresentano il significato delle azioni: non importa se l'animale le ha eseguite o solo
viste, o udite. II concetto di "rompere una nocciolina" è registrato in quel
neurone. Questo potrebbe spiegare come facciamo a decodificare gli atteggiamenti degli
altri".
I neuroni specchio ci consentono di proiettarci negli altri, di leggere i loro pensieri,
di prevederne le azioni. Perché per farsi un giudizio sulle intenzioni altrui è
necessaria una simulazione nel proprio cervello, che senza neuroni specchio sarebbe
impossibile.
Attendibile con giudizio.
L'intuizione sociale è quindi attendibile, ma non al 100%: innamoramento, depressione,
ormoni, alterano la capacità di giudizio. E così gli stereotipi: la bionda è oca, il
funzionario noioso, l'artista bizzarro... Una volta formulato, lo stereotipo è un marchio
indelebile. Col rischio della reciprocità: si è antipatici a chi ci è antipatico.
Per saperne di più:
David G. Myers, Intuition (Yale University Press).
L'intuito è davvero femmina.
Le donne sono veramente più intuitive degli uomini? "Hanno una maggiore
capacità di tener conto di tutto ciò che può essere percepito" spiega Alain
Braconnier, psichiatra francese. "Indovinano meglio il non detto, tengono più conto
del contesto e di tutte le fonti di informazioni periferiche, come i linguaggi non
verbali, emessi dai loro cari". Del resto
se non fossero capaci di intuire perché piange il neonato non sarebbero neppure in grado
di soddisfarne le esigenze. Empatia. Questo sesto senso, secondo David Myers, si spiega
soprattutto con la loro capacità di empatia: ridono con chi ride e piangono con chi
piange. E sono anche più brave a decodificare le proprie emozioni. Battono gli uomini
anche a indovinare le foto di coppie finte da quelle di coppie vere. E un esperimento di
laboratorio condotto all'Université Paris 5 ha mostrato che le donne provavano un più
ampio spettro di emozioni, le manifestavano più facilmente e le percepivano meglio negli
altri. Vantaggio pero limitato all'intuizione di tipo sociale.
Meglio sereni che belli.
Si comunica con gli altri tramite le sensazioni che si trasmettono. Quindi è importante
comunicare sensazioni positive. Per ottenere questo risultato l'atteggiamento interiore
deve essere sereno: fattore assai più importante di una sciarpa vivace o di un bel viso.
Regina Foers, consulente della personalità, consiglia di individuare i motivi per cui
sentirsi personalmente bene. Ottimismo! Per piacere agli altri bisogna infatti, prima di
tutto, piacere a se stessi. Solo chi accetta se stesso così com'è, limiti compresi,
sembra autentico e trasmette sensazioni positive. Lottimismo è un'altra arma importante
perché porta con sé la fiducia nel futuro, la convinzione che tutto andrà bene e che
comunque prima o poi si otterrà quello per cui si lavora, e la certezza di piacere agli
altri. Quanto all'abito, pochi consigli. I colori chiari sono indice di apertura. Forti
contrasti (abito nero e calze bianche) disturbano. Così come qualsiasi eccesso.
A cura di Amelia Beltramini (Articolo apparso sulla rivista Focus n: 132
Ottobre 2003)
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