TEORIA DELLA LETTERATURA

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Teoria e pratica della letteratura

Ero uscito in fretta dalla libreria per liberarmi al più presto di quel senso di nausea e spossatezza. Non avevo comprato nemmeno un libro, perché quello che avevo da dire - ammesso che avessi qualcosa da dire - era già stato detto da altri meglio di me. I libri mi toglievano energia perché mi derubavano della mia intimità. Le storie degli altri scrittori non facevano che spettegolare sulla mia anima e sulla mia vita. E per di più lo facevano con ipocrisia, perché lo facevano sotto falso nome, sotto le mentite spoglie di personaggi che per me non erano affatto di fantasia. Perciò stavo tanto male: le parole le azioni i sentimenti i pensieri di quei personaggi erano la pura e semplice centrifugazione dei miei.
Non avevo più niente da dire o forse - ma in fondo è lo stesso - non volevo più dire niente perché le alterne vicende della mia vita - i cazzi miei dritti e storti - erano già di pubblico dominio. A cosa sarebbe servito ripeterli? La mia vita - quello che avevo da dire o meglio: che dubitavo di avere da dire - mi appariva come un susseguirsi di giorni vissuti inutilmente, inservibili come le pagine di un'agenda degli anni passati.
Eppure ce ne sarebbero state di cose da dire, da mia figlia quindicenne alle prese con la polizia che rovistava casa di sua madre per trovare tracce di chissà quanti chili di eroina imboscata da una modella, inquilina in casa loro, affiliata alla mafia russa, su su a ritroso fino a quel giorno di migliaia di giorni fa quand'ero nato impiccato al cordone ombelicale e, non essendo morto, avevo poi percorso in una consecuzione di spirali ellittiche le vicende della vita giù giù fino all'episodio della modella russa.
Ma da dove cominciare? Dall'asfissia neonatale o dalla modella mafiosa? O magari da qualche avvenimento intermedio?
Dio, mi mancava una trama, una storia, dei personaggi a tutto tondo, o almeno appiattiti, la forma lo stile l'ambientazione i dialoghi, mi mancava tutto. Eppure, quante esistenze avevo incrociato, quante persone le cui vite mi erano parse così interessanti, così meritevoli di essere raccontate, rese pubbliche, storie che appena le sentivo, ogni volta mi sembrava contenessero i germi dell'universalità, storie di tutti e per tutti.
E forse questo ero io, uno come tutti, che voleva scrivere come molti, e la cui vita, come moltissimi, gli appariva come un romanzo. Ero un luogo comune esistenziale, un illuso dal temperamento umorale che si sentiva investito (da chi? dagli dei o dai demoni, a seconda degli umori) del potere di narrare, di rendere di tutti eventi che accadono a tutti, imprigionato nel ruolo di scrittore, abbagliato dai nomi e dai libri dei grandi che erano stati capaci - loro sì - di uscire duramente da sé per lasciare che il corso degli eventi propri e altrui li invadessero come le acque delle nevi improvvisamente disciolte irrompono nel letto di un fiume disseccato da mesi. Avrei voluto, in quei giorni, essere il letto di quel fiume, investito dalle acque delle esistenze altrui, avrei voluto essere in grado di mettermi da parte, di togliermi di mezzo, di lasciar svaporare al sole le mie acque per divenire fango e poi terra dura, su cui altre acque avrebbero potuto scorrere senza intaccarmi e senza inquinarsi al mio contatto. Oppure, altre volte, desideravo diventare una macchina digitale, un registratore più che una cinepresa perché il mio mondo era - e, nonostante tutto, è tuttora - di parole più che di immagini, volevo essere un semplice registratore, uno specchio elettronico delle voci del mondo, in grado di restituire intatto ciò che mi veniva consegnato.
Ma non c'era nulla che potessi fare. Non ero fiume, non ero macchina. A volte, divoravo pagine e pagine dei libri degli altri. Più spesso mi immergevo, come in un'apnea psicologica, in una pagina sola, che mi aveva particolarmente colpito e, trattenendo il fiato, leggevo e rileggevo gli stessi paragrafi, li scomponevo in frasi, e le frasi in parole singole che scrutavo con severità, aggrottando le sopracciglia, e quando alla fine riconoscevo che nel mio cervello non esisteva parola o frase migliore di quella che avevo letto, mi complimentavo con l'autore, con la stessa enfasi e con la stessa frustrazione con cui mi complimento con Dio quando sott'acqua osservo un corallo o una gorgonia. Io non sapevo fare altrettanto! Allora mi prendeva la voglia di mollare gli ormeggi e lasciare che l'anima naufragasse chissà dove, a respirare per branchie, come diceva qualcuno, così che i due mondi, il mio e quello fuori di me, rotolassero in pace attraverso di me, come il mondo reale rotola indenne attraverso le nubi che lo soffocano e i fumi che lo avvelenano.
Avrei voluto un maestro, ma la mia anima al largo sapeva da sempre che non ci sono maestri e del resto la mia cocciutaggine aveva già sperimentato inutilmente troppi maestri.
Altre volte, volevo tradurre in parole, come diceva qualcuno, il libro che era già dentro di me, sonnacchioso e feroce come un mostro marino dentro una grotta. Ma i miei tentativi fallivano uno dopo l'altro, più spesso uno insieme all'altro, come quando, esasperato dall'urgenza di scrivere, o meglio: di realizzarmi attraverso la scrittura, ne mettevo in atto parecchi alla volta, sparandoli alla cieca, neanche fossero uova di pesce disseminate alla rinfusa nelle acque di un braccio di mare prive del maschio in grado di fecondarle.
E certo, oltre al censore che mi tormentava vita e scrittura, cassando ogni azione e parola quasi alla stessa velocità con cui agivo o scrivevo, si sviluppava nei piani più bassi e più umani della coscienza il serpente del successo che mi persuadeva di come, con la scrittura più che con le azioni, avrei riabilitato una vita, questa, che in fondo mi appariva sbagliata. Così, quando scrivere non era del tutto impossibile e riusciva a non sembrarmi del tutto inutile, passavo - tentato dal serpente della gloria - dalla narrazione popolare al minimalismo, dal facile umorismo all'ironia a effetto, dal noir alla fantasy, condendo sempre il tutto con lo stesso olio rancido e greve: me stesso e la mia disperata urgenza di sfondare.
Un giorno presi la decisione: finché non fossi riuscito a zittire il serpente e a dominare il censore, ma soprattutto finché non fossi riuscito a morire a me stesso, cosa che allora mi sembrava indispensabile per mettermi in comunicazione con qualcosa di altro da me - il pubblico, il lettore -, io non avrei più scritto.

©2002 by Giulio Ranzanici - Brescia
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I libri sono finti e sono finiti.

I libri sono sempre stati finti: la creazione di un personaggio è attività di immaginazione: quanto più il personaggio è verosimile, tanto più significa che è ben costruito. E tanto più il personaggio somiglia a una persona reale tanto più disvela la sua natura di prodotto artificiale. Volendo essere poetici, potremmo affermare che in quanto parto (o aborto) della fantasia, il personaggio è una specie di Frankenstein uscito dalle porte dell’Immaginario, anziché dal passaggio segreto del castello. Insomma, un mostro in libertà (più o meno ben riuscito).
Tanto è vero che, confrontato con una qualunque persona reale, il personaggio pecca sempre per difetto e per eccesso. Per difetto perché la realtà umana e molto più complessa, per eccesso perché in lui (o in lei) si delinea sempre un carattere troppo definito, troppo coerente, troppo prevedibile. Prendiamo per esempio Madame Bovary, Madame Bovary che alla fine si suicida. Ma che diavolo, è perfetto! È il finale più plausibile e conseguente che, date le premesse, ci si poteva aspettare. Mica poteva finire con lei che si faceva un bel safari d’Africa e veniva divorata dai leoni. No, doveva finire come è finita, suicida. E nell’aver azzeccato anche il finale sta il genio di Flaubert. Ma nel finale azzeccato sta anche il limite del romanzo. E sto parlando del romanzo probabilmente più riuscito che mai sia stato scritto. Figurarsi gli altri! Perché il limite di ogni romanzo, il limite della fiction in generale, sta nella plausibilità e nella credibilità che il lettore o lo spettatore giustamente si aspetta dai personaggi e dai destini in campo. A ognuno la sua parte, sembra di sentir gridare dalle pagine dei libri e dai fotogrammi cinematografici. Ma la vita, la vita reale, lo sappiamo bene, non è plausibile, non è conseguente, troppe volte è inverosimile. Perciò i libri sono finti, perché non tengono conto del fatto che la vita gira in modo sconclusionato, che le trame di quasi tutte le vite sono sgangherate, che i ruoli delle persone cambiano caoticamente, che quando uno muore lascia sempre una storia aperta con un finale tronco come in un racconto incompiuto. E che, nella vita reale, un’arrampicatrice sociale di provincia può benissimo finire in bocca ai leoni.
Ma oggi i libri sono anche finiti. Perché? Ma perché non esistono più modelli reali cui far riferimento, perché le persone si somigliano tutte, perché quasi tutte vivacchiano senza né arte né parte. Per questo non esiste più letteratura, ma soltanto metaletteratura, ossia letteratura che si rifà a altra letteratura. È così: per scrivere libri dobbiamo copiare da altri libri, la gente è toppo finta per ispirarci, i libri degli altri sono più veri della gente, la gente ha smesso di incuriosirci.
È triste dirlo, ma i libri sono proprio finiti.
Ci consoliamo scrivendo metalibri. Leggendo metalibri. O metàlibri. O libri a metà prezzo. O mezzi libri a prezzo intero. O accendendo la televisione. Viva Marzullo.
Jules Bovary  Indice


Poetica e Teoria della letteratura.

Per dirla con Borges "non sapendo interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere", inverando il detto di Henry Michaux "Il vero poeta crea, poi comprende........qualche volta."

Il vero poeta, nello scrivere se stesso, scrive il suo tempo.
T.S. Eliot

Il verbo leggere non soppporta l'imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo "amare".... il verbo "sognare".
Daniel Pennac (Come un Romanzo, l'inizio)

"L'uomo costruisce case perché è vivo, ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun'altra, ma che nessun'altra potrebbe sostituire. Non gli offre alcuna spiegazione definitiva sul suo destino, ma intreccia una fitta rete di connivenze tra la vita e lui.
Daniel Pennac (Come un romanzo)

Marx ci ha insegnato che la prima libertà è quella "dal bisogno" e finché ci saranno individui bisognosi, deboli e sofferenti, il concetto di libertà sarà conculcato. Croce (Storia d'Europa nel secolo decimonono) ha parlato di libertà che esiste soltanto al plurale, come bene di tutti ed in riferimento a tutte le libertà. Carl William Brown

Poetica

Il termine suggerisce che essa si occupa dell'arte o della teoria della poesia e, in verità, ciò è stato vero sin dall'epoca classica (p. es. Ars poetica di Orazio). Tuttavia poetica, come anche poesia, significa etimologicamente solo "creare", così che essa dovrebbe interessarsi all'arte di ogni genere. La Poetica di Aristotele discute l'arte del dramma e dell'epica, ma non la poesia in senso specifico.
La poetica come scienza della letteratura si è particolarmente svituppata come disciplina nel ventesimo secolo. Nell'Europa dell'est il lavoro del Formalisti Russi e dei linguisti della
scuola di Praga (compreso Jakobson) che fiorì dopo la prima guerra mondiale, fu particotarmente importante per la comprensione della Letterarietà e del Linguagio Poetico. Ciò a dato il via a sempre nuove interpretazioni fino ad arrivare alle teorie semiotiche più originali.
Ovviamente la letteratura e quindi in un certo senso anche la poetica non può esimersi dalle antiche regole della retorica classica e quindi assieme alla visione del mondo di ogni autore va considerata la funzione emotiva della sua opera, come ci hanno insegnato già Wordsworth e poi I.A. Richards e la corrente del New Criticism. L'idea di sviluppare i sentimenti e quindi la sensibilità dei lettori al fine di adempiere ad un compito fondamentale per le "umane lettere", vale a dire quello di migliorare l'uomo, mitigando la sua aggressività ed il suo egoismo ed esaltando la sua solidarietà e la sua volontà di ricerca. La poetica di un autore diventa quindi il nocciolo essenziale della sua produzione che dovrebbe trasformarlo in un vero medium, una persona che vede, analizza e comunica agli altri qualcosa di profondo, come ci ricorda Rimbaud: "Il primo studio dell'uomo che vuole esser poeta è quello della sua propria conoscenza, intera. Cerca la sua anima, l'ispeziona, la tenta, l'impara. Dal momento che la conosce, la deve coltivare: sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale: tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale! - Ma si tratta di rendere l'anima mostruosa: alla maniera dei comprachicos, insomma! Immagini un uomo che si impianti e si coltivi sul viso delle verruche. Dico che bisogna essere veggente. Farsi VEGGENTE.  (Arthur Rimbaud Lettere della vita letteraria, 1870-1875)

Teoria della letteratura

Ora di uso comune, come la poetica ad essa affine, fra i critici di letteratura per descrivere un approccio prevalentemente astratto a speculativo a quest'ultima. (per me in primo luogo pragmatico)
In via di principio, la teoria delta letteratura si distingue dalla critica letteraria nel fatto the l'oggetto del suo interesse non è la descrizione a la valutazione di singoli testi letterari, bensì la natura stessa delta letteratura a della critica. (vedi anche Metacritica). Nella pratica, comunque, molti critici letterari, oggi, e anche molti studiosi dl Stilistica, discutono le opere e gli autori da una prospettiva spesso teorica, in verità frequentemente da più di una.
Non esiste una sola teoria delta letteratura, ma parecchie. Il secolo ventesimo ha visto svilupparsi molte teorie che emergevano dalla discussione iniziata nella poetica classica sulla natura della letteratura, sul suo status Estetico a sulle sue caratteristiche Formali, per esempio (Vedi Formalismo). Ma la teoria delta letteratura si è occupata sempre più di questioni più ampie che riflettono la complessità dell'attività letteraria quando è vista da prospettive più larghe. Teorie sono così attinte da discipline quali la Filosofia del Linguaggio, la Filosofia, la Psicanalisi, le Teorie della Decostruzione, il Femminismo, il Marxismo, la Linguistica, la Sociologia, la Politica e via dicendo, in modo tale da dare un certo pluralismo all'approccio critico ed interpretativo.
Il Pluralismo infatti può essere applicato a qualsiasi disciplina in cui si prende in considerazione una varietà di approcci o teorie. Ma è diventato sempre più comune, fra i singoli insegnanti o critici, specializzarsi prevalentemente all'interno di una teoria. Molti studiosi adottano tuttavia un approccio pluralista ed eclettico credendo forse che nessuna teoria possa fornire tutte le risposte e che ci sia molto da guadagnare dalla combinazione del meglio di più approcci. Carl William Brown 
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La teoria del poeta

Per Montale, nel suo lucido pessimismo, il poeta, pur consapevole di non sapere, riesce ad andare oltre il reale, in una dimensione di pura e magica intuizione, certamente senza presunzione, ma ironizzando sulla sciocca sicurezza di "......chi crede/che la realtà sia quella che si vede".

Anche Quasimodo, nella parte più decisamente "politica" della propria produzione (in Giorno dopo giorno) mostra di credere nella funzione civile e politica del poeta, che deve denunciare ad agire in conformità ai propri principii ideologici e morali.

"Lo spirito del poeta maturo differisce da quello del poeta immaturo non tanto per una qualsiasi valutazione della "personalità", né perché è necessariamente più interessante o perché abbia "da dire di più", quanto piuttosto perché è un ambiente più finemente perfezionato nel quale i sentimenti particolari, i più vari sentimenti, sono liberi di entrare in nuove combinazioni.

L'esempio è quello del catalizzatore. Quando ossigeno e biossido di zolfo vengono mescolati alla presenza di un filamento di platino, essi formano dell'acido solforico. La combinazione si verifica solo in presenza del platino, e ciononostante nell'acido che si è formato non c'è traccia di platino, né il filamento ri risulta toccato dal processo: è rimasto inerte, neutrale, immutato. La mente del poeta è il filo di platino.
Essa può agire parzialmente o esclusivamente sull'esperienza personale di quell'uomo, eppure, quanto più perfetto è l'artista, tanto più rigorosamente separati resteranno in lui l'uomo che soffre e la mente che crea, tanto più perfettamente la mente assimilerà e trasmuterà le passioni che sono il suo materiale.

Nell'esperienza, gli elementi che registrano la presenza trasformatrice del catalizzatore sono di due generi: sentimenti e sensazioni. L'effetto di un'opera d'arte sulla persona che ne fruisce è un'esperienza di genere diversa da ogni esperienza non artistica. Può muovere da un solo sentimento o può risultare da una combinazione di più sentimenti; e a comporre il risultato finale si possono aggiungere le sensazioni che lo scrittore avverte come intrinsecamente legate a parole o frasi o immagini particolari [...]

    Se si confrontano parecchi brani significativi di altissima poesia, si vede quanto sia grande la varietà dei tipi di combinazioni, e anche quanto sia lungi dal cogliere il segno di qualsiasi criterio semietico basato sul concetto di "sublimità". Perché quel che conta non è la "grandezza", l'intensità dei sentimenti, cioè delle componenti, bensì l'intensità del processo artistico, la pressione, per così dire, sotto cui si verifica la fusione." Thomas S. Eliot Tradizione e talento individuale


Chi Sono?: "Son forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana
la penna dell'anima mia: "follia"
Son dunque un pittore?
Neanche
Non ha che un colore
la tavolozza dell'anima mia:
malinconia
Un Musico, allora?
Nemmeno
Non c'è che una nota
nella tastiera dell'anima mia:
"nostalgia"
Son dunque.....che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente
Chi sono?
Il "saltimbanco dell'anima mia."

Aldo Palazzeschi

Il poeta, dunque confessa che il suo animo è combattutto tra un acuto senso di malinconia, tipico del crepuscolarismo, ed un combattivo spirito futurista. E' difficile non pensare a Charles Baudelaire e non vedere nell'albatro un'immagine del poeta (".......ma esiliato/Sulla terra, fra scherni, camminare/non può per le sue ali da gigante") C.W. Brown Indice


Il Genio della Creatività.

La pittrice statunitense Georgia O'Keeffe. Nata nel Wisconsin, visse a lungo in New Mexico. Alternava momenti di grande produttività a fasi depressive.

L'unione fa la forza. Un'immagine tridimensionale elettronica del cervello. II pensiero creativo nasce da una sintesi delle funzioni di entrambi gli emisferi.

L'arte è nevrotica. Ernest Hemingway, morì suicida nel 1961. Uno studio condotto nel 1992 presso l'università del Kentucky su un migliaio di artisti e scrittori ha riscontrato una frequenza di disturbi maniaco depressivi tre volte superiore rispetto a uomini di affari e politici.

Democrazia, l'ambiente più favorevole. Il pittore statunitense Roy Lichtenstein, famoso esponente del movimento espressivo della pop art, al lavoro nel suo studio. La creatività, per esprimersi, ha bisogno di grande libertà: per questo alcune fasi storiche, come gli anni Sessanta, hanno fortemente contribuito alla sua affermazione.


LA CREATIVITA' Articolo di Cristina Mochi apparso su Focus n° 33 Luglio 1995

Creativi si nasce o si diventa? In che modo funziona la nostra mente quando pensiamo in modo originale? Ecco cosa ne pensano psicologi e biologi.

Durante una lezione di fisica l'insegnante chiede ai suoi allievi: "Come si fa a misurare l'altezza di un grattacielo servendosi di un barometro?". "Lo si regala al portinaio dell'edificio, per farsi dire in cambio la risposta giusta", replica uno studente, poco preparato sulle leggi fisiche ma evidentemente piuttosto brillante. L'aneddoto è riportato dagli psicologi americani come esempio classico di pensiero creativo. «Creatività infatti è la capacità di esprimere un pensiero originale, cioè diverso dalla media», spiega la psichiatra Federica Mormando, presidente di Eurotalent Italia, un'associazione che si occupa dello studio delle menti superdotate. Creativo dunque non è soltanto l'artista, lo scrittore, il musicista, l'inventore: creare è di fatto un'attività che riguarda tutti, perché è l'essenza stessa del vivere, cioè produrre cose nuove e diverse ogni giorno.

Un lampo di energia

    Ma che cos'è la creatività? Secondo gli studi di neurofisiologia dipingere un quadro o trovare una soluzione innovativa a un problema aziendale sono frutto dello stesso tipo di attività mentale, che il medico inglese Edward de Bono ha chiamato "lateral thinking", ossia pensiero laterale o divergente. E' cioè quel pensiero che non segue le strette regole della logica, ma è istintivo, capace di stabilire libere associazioni tra le cose (proprio come quella tra il barometro e il portinaio.
    «La creatività non ha necessariamente un rapporto diretto con la quantità di intelligenza dell'individuo. Si può semmai immaginare come un guizzo di energia in più, che in ciascuno di noi può essere più o meno presente. Per misurarlo, la moderna psicologia si serve di alcuni test. Ma mentre in un test di intelligenza si richiede per ogni domanda una solo risposta (quella esatta), nei test di creatività si stimola invece la produzione di più soluzioni originali. Nel primo caso, ber esempio, si chiederà: come si costruisce una casa? Con i mattoni, è la risposta giusta. Nel secondo caso invece si proporrà: dimmi tutti i modi per costruire una casa», spiega la Mormando. A questo punto, sarà per esempio giudicato pii creativo chi ha sostenuto di costruire una casa con delle bottiglie piuttosto che chi ha citato solo materiali usuali.

Prevale la destra

    Stabilire con esattezza in quali regioni del cervello nasca questa capacità di pensiero è per ora molto difficile: le analisi fatte con la Pet (tomografia a emissione di positroni) sono interessanti ma non decisive. La Pet funziona in modo analogo a una radiografia: una sostanza che si accumula nelle cellule durante la loro attività cellulare (per esempio il glucosio) viene "legata" a un elemento capace di emettere positroni, per esempio il fluoro. Questi sono visibili nelle radiografie e dunque consentono di controllare, durante un certo tipo di attività mentale, in quale parte del cervello si è accumulata la sostanza. Da queste analisi è apparso evidente che le aree coinvolte nel pensiero creativo sono numerose, con una certa prevalenza di quelle dell'emisfero destro, che è la sede dei processi di sintesi, della percezione delle immagini, delle intuizioni, della gestione dello spazio, degli stimoli emotivi e affettivi.

    Ma nel pensiero creativo entra in gioco anche l'emisfero sinistro che, invece, presiede al linguaggio,  al calcolo, al pensiero logico-analitico, e cioè razionale.

Allenare il cervello

    Quello che tuttavia sembra ormai certo è che, tranne rari casi, creativi si nasce ma si può anche diventare. Per precise ragioni fisiologiche: "Il sistema encefalico (in particolare la neo-corteccia) è in rapporto diretto con l'ambiente esterno. Per rispondere agli stimoli dell'ambiente, e adattarsi a essi, la neo-corteccia è in grado di attivare nuovi circuiti cerebrali. In parole povere, l'esperienza è in grado di modificare il cervello", spiega lo psicologo Gian Carlo Cocco.

    Anche il pensiero innovativo si può dunque alimentare e sarà maggiormente creativo chi viaggia, chi conosce persone nuove, chi cambia spesso attività. "In effetti lo scambio tra ambiente e cervello avviene in misura maggiore a partire dalla nascita fino agli 8 anni, periodo in cui la plasticità neuronale è massima. I neuroni, cioè, sono disposti a ramificarsi e creare delle associazioni in funzione degli stimoli che ricevono. Non è un caso che Mozart compose il suo primo spartito a sei anni, per genio innato ma anche perché suo padre gli aveva insegnato nell'età più giusta il linguaggio musicale", spiega
Mormando. Il momento più difficile della nostra vita è invece quello tra la fine degli studi e i primi dieci anni di lavoro. L'ansia di realizzarsi, e i problemi pratici e famigliari sono tali che la maggior parte del tempo viene riservato alle attività del "cervello sinistro", cioè quello razionale.

Serve anche disciplina

In tutta la fasi della vita comunque, per sviluppare pensiero originale sono di grande aiuto alcuni fattori: la solitudine è uno di questi. Mass media e vita di gruppo, per quanto formativi, non sempre consentono dì sfruttare in pieno le proprie possibilità e di provare quel senso assoluto di libertà che favorisce la nascita di idee. Ma è necessaria anche la disciplina, che permette di applicare la propria rraatività in situazioni pratiche. Non è vero infatti che per essere creativi bisogna sempre e soltanto fare ciò di cui si ha più voglia. "Uno degli stimoli maggiori alla creatività è semmai lo stato di necessità", spiega il naturalista Sergio Angeletti. Ciò vale per gli uomini come per gli animali. I delfini, per esempio, per comunicare tra loro e farsi riconoscere compongono un motivo musicale individuale, che rinnnovano di tanto in tanto mantenendo invariata la base. Gli uccelli della seta, che vivono in Nuova Zelanda, costruiscono invece nidi decorati di fiori, pezzetti di conchiglia, rametti. Sono praticamente delle opere d'arte, che servono ad attirare le femmine".
    Ma c'è chi pensa che la creatività individuale si possa incrementare anche con esercizi pratici e quotidiani, come quelli che vengono insegnati nei corsi dell'istituto Cirm di Milano, frequentati da manager. Si tratta in tutto di 250 tecniche, metà fisiche e metà psichiche. "Io parto dal presupposto che la creatività sia un processo ultimo, cioè una sintesi di vari elementi che già possediamo", spiega Nicola Piepoli, direttore del Cirm. "Gli esercizi servono pertanto a tenere in allenamento il cervello nel suo complesso. Il mio esercizio preferito, per esempio, è semplicemente passeggiare. Aiuta a irrorare l'area cerebrale di sangue e a utilizzare così al cento per cento le proprie risorse. E pare che funzioni.

Cristina Mochi Per saperne di più: Gian Carlo Cocco, Creatività, ricerca e innovazione, Franco Angeli. Nicola Piepoli, Dizionario creativo, Amoldo Mondadori Editore.

Staccare i freni

Psicologi e psicanalisti, tra i quali anche Erich Fromm e Carl Gustav Jung, hanno individuato nell'atto creativo una componente emotiva molto forte e decisiva.
Oggigiorno grazie ad esami come la Tac o la risonanza magnetica, è possibile capire quali aree del cervello vengono utilizzate durante un'azione o un pensiero.

Identikit di una personalità.

Secondo lo psicologo Erich Fromm sono cinque i requisiti per definire creativa una personalità:

1)Possedere la capacità di essere perplessi. Ce l'hanno i bambini davanti ad una nuova esperienza, mentre l'adulto tende generalmente a non porsi troppe domande neppure di fronte ad un fatto insolito.
2)Accettare i conflitti interiori: non reprimere desideri ed emozioni man mano che affiorano.
3)Rinascere ogni giorno: per il creativo ogni giorno è il primo di una nuova vita.
4) Essere capaci di concentrazione: vivere cioè molto intensamente ogni istante, concentrandosi esclusivamente su quello che si sta affrontando in quel momento.
5) Essere originali: avere pensieri e stili che nascono da sé e non mutuati sempre dalla realtà esterna. Il momento più propizio per creare, secondo lo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung, sarebbe invece caratterizzato dalla noia. Questa infatti favorirebbe la creatività perché abbassa le barriere tra conscio e inconscio. Secondo alcuni sessuologi francesi, infine, il grande creativo conduce una vita sessuale più intensa rispetto agli altri. Il suo cervello infatti ha bisogno di stimolazioni maggiori e le riceverebbe da un ormone che si produce proprio durante l'atto sessuale, e che svolgerebbe la funzione di un'anfetamina naturale.

Cinque menti di successo

I "ragazzi di via Panisperna": da destra, Enrico Fermi, Franco Rasetti, Edoardo Amaldi, Emilo Segre, Oscar d'Agostino.     Scoprirono la fissione nucleare.

Cambrldge, Il paradiso della cultura Foto di famiglia della poetessa Virgina Woolf (seduta, al centro, in mezzo ai fratelli Vanessa e Adrian). La Woolf fu, con il marito, un personaggio di spicco del gruppo culturale inglese di Bloomsbury.

Problemi complessi. Riunione di lavoro. Secondo i sociologi la necessità del lavoro di équipe è sorta con la nascita di una società molto più complessa. II cambiamento sarebbe avvenuto dopo la seconda
guerra mondiale.

Su tutti, un leader. Un altro celebre gruppo di artisti: da sinistra, Kandinsky, la moglie Nina, George Muche, Paul Klee e Walter Gropius. Nel saggio "L'emozione e la regola", il sociologo Domenico De Masi analizza le caratteristiche di questi sodalizi creativi e ravvisa ovunque il ruolo carismatico del leader.

In azienda servono idee nuove. Per trovarle si usa una tecnica di gruppo

La tempesta dei cervelli

E' finita l'era dello yes man, quello che dice sempre sì al capo e non prende mai iniziative personali. Le aziende tedesche oggi cercano dipendenti "ribelli": hanno infatti scoperto che il loro apporto è fondamentale per la crescita dell'economia, perché creano un clima di competizione e di vivacità molto favorevole alla produzione. Alcuni dirigenti d'azienda tedeschi hanno fondato addirittura un'Accademia per pensare storto (Querkdenker Akademie), dove, in undici mesi di corso, e per ben 70 milioni di retta, si insegna appunto a diventare dei veri bastian contrari.

L'importante è non avere alcuna inibizione

Teorie di questo tipo non sono tuttavia nuove. Negli Stati Uniti le aziende fanno ricorso a consulenti di creatività da almeno trenta anni, proprio per stimolare la nascita di idee nuove. Il primo a formulare teoricamente l'applicazione del pensiero creativo in economia fu appunto un americano, Alex Osborn, che nel 1938 escogitò una delle tecniche ancora oggi più in voga per produrlo, il "brain storming" (cioè tempesta di cervelli).

Il procedimento è semplice: si riunisce un gruppo di dodici-quindici dipendenti, per un'ora circa, coordinato da un animatore. Si pongono alcune regole formali come quella, fondamentale, di non stroncare le opinioni altrui ma di utilizzarle semmai come base per crearne altre, e quella di non rispondere mai con frasi del tipo "costa troppo", "gli altri non lo accetteranno mai". A quel punto parte la "tempesta" e cioè la produzione di idee a ruota libera. L'importante è poter dare libero sfogo al proprio pensiero non razionale, cioè divergente.
    Così hanno fatto per esempio i partecipanti a un "brain storming" della 3M, l'azienda che ha tra l'altro inventato i Post it (i bigliet gialli adesivi). Il quesito era: trovare nuovi impieghi per il prodotto. L'animatore ha sollecitato la ricerca di libere associazioni, e quella vincente è stata tra Post it (che si attacca e si stacca) e il fare l'amore. Da qui sono stati evidenziati i due concetti di "massima adesione" e "durata". Alla fine della seduta sono emersi ben 60 suggerimenti concreti, tra i quali l'utilizzo di Post it come segnalibro, vestitino perle bambole, spunto per un nuovo packaging alimentare.
    La creatività dunque è anche il motore dell'economia. A periodi
particolarmente fervidi se ne alternano però altri più statici. "Nelle fasi di recessione, come quella che viviamo, è ancora più sentito il bisogno di nuove idee, ed è anche più facile che un manager accetti di uscire da una visione personalistica e di lavorare in équipe", spiega Mario Dondi, presidente della società Creatività Nuova di Milano, che studia interventi di innovazione per le aziende.

II metodo? Una vera seduta psicanalitica
   
Confrontarsi e lavorare insieme è fondamentale perché è dal gruppo che, secondo le tecniche messe a punto dai maestri del settore (Alex Osborn, Edward de Bono, Fritz Zwicky) nascono gli spunti creativi più efficaci.
    Il gruppo infatti funziona come un macro-cervello, al quale ogni individuo fornisce il proprio apporto creativo e dal quale trae a sua volta spunti per arricchire le sue proposte. "La nostra tecnica prevede una serie di esercizi preliminari all'interno del gruppo (selezionato secondo le esigenze della ricerca) per avere le condizioni ideali per la creatività, e cioè l'abbattimento dei freni sociali di ciascun componente. Alla fine si vedono gli altri partecipanti sotto una luce diversa, meno formale. Il coinvolgimento emotivo infatti è una premessa necessaria alla fase creativa vera e propria".
    "E' un iter codificato dalla psicanalisi", aggiunge Paolo Mazzoni, psicanalista e metodologo di Creatività nuova. Mazzoni, che ha studiato scienze umane alla Sorbona di Parigi, ha unito la tecnica di Osborn con quella delle sedute cliniche del psicoanalista francese Jacques Lacan. "Siamo partiti dal presupposto che gli individui che soffrono di sindromi maniaco depressive siano molto creativi. Questo avviene perché, nella fase della depressione e cioè della sofferenza, sono stimolati a produrre molto, per sopperire al senso di vuoto e inadeguatezza che li annienta. In questo modo raggiungono quindi una fase maniacale, cioè di sentimento di onnipotenza. Lo stesso può avvenire nel gruppo: prima viene portato, attraverso vari esercizi, a uno stadio di regressione, di aggressività e di depressione: poi viene indirizzato verso il problema concreto per il quale il gruppo è stato fondato. In questa fase l'energia accumulata si sprigiona e arrivano le proposte creative", conclude Mazzoni. Il costo di un'operazione di questo tipo, per un'azienda, va dai trenta ai cento milioni. Ma i risultati non mancano.

Ascoltando il pubblico, arriva l'idea giusta

    "Un ottimo esempio è stata la ricerca Levi's: l'obiettivo era trovare un miglior dialogo con i consumatori attraverso i suggerimenti forniti dai rivenditori. E' nata così l'orlatrice, una macchina da cucire che, installata in ogni punto vendita, consente al cliente, in appena cinque minuti, di acquistare un jeans pronto per l'uso e personalizzato, eliminando l'attesa per l'intervento del sarto", conclude Dondi.   

Una ricerca sul cervello dei pittori

Riscontri scientifici. Anna Mazzucchi, neurofisiologa dell'Università di Parma. L'idea di studiare la relazione tra cervello e pittura è nata dalla sua esperienza diretta con un paziente, un pittore colpito da ictus.

Pennelli malati

    Come lavora il cervello di un pittore? La neurofisiologa Anna Mazzocchi e i critici d'arte Dario Trento e Giovanna Pesci hanno
provato a dare una risposta a questa domanda, basandosi sull'analisi (durata cinque anni) di centinaia di opere sparse per tutta Europa. La creatività è in effetti un'attività molto complessa, che richiede la compartecipazione di tante aree cerebrali. Impossibile quindi localizzarne la sede con esattezza, spiega Anna Mazzocchi, dell'università di Parma.

    Così l'indagine è stata svolta procedendo al contrario, partendo cioè dallo studio delle opere di pittori che nel corso della loro vita hanno subito una lesione cerebrale, e che tuttavia hanno continuato a dipingere. Per rendere più efficace l'esame, sono stati scelti pittori che hanno subito lesioni soltanto in uno dei due emisferi cerebrali: tra questi il bulgaro Zlatio Boiadjiev, che dipinge la civiltà contadina e il folklore del suo Paese, il friulano Afro Basaldella (pittura astratta), il genovese Gianfranco Fasce (pittura astratta), i tedeschi Lovis Corinth (figurativo) e Otto Dix (espressionista).

II primo problema e con la spazialità

    I risultati? "In generale tutti i pittori tendono, dopo la malattia, a semplificare le loro tecniche, a usare il colore in modo più semplice e direi anche a ripetersi dal punto di vista tematico. Per tutti, inoltre, c'è la perdita della tridimensionalità. Soltanto uno, Zlatio Boiadjiev, è riuscito a recuperarla. Più in particolare, i pittori con lesione all'emisfero destro (Lovis Corinth, Otto Dix), hanno forti problemi con la spazialità: in fase acuta, anzi, lasciano la parte sinistra della tela completamente vuota. Oppure la dipingono in maniera molto debole, spiega Mazzocchi. "Si ottiene una specie di "effetto quinta"", aggiunge Dario Trento. "E' come se si proiettasse una diapositiva a teatro e questa, oltre alla parte centrale dello schermo, coprisse anche un pezzo di quinta, risultando in quel punto sfocata". I pittori con lesione all'emisfero sinistro mostrano invece, dopo la malattia, una forte tendenza a parcellizzare le operazioni che portano alla stesura del dipinto, cioè quasi scompongono la tela in tanti settori, senza più tener conto della visione d'insieme. La composizione diventa naturalmente molto più piatta e ripetitiva.
    Naturalmente gli artisti si rendono conto, a un certo punto, di questi cambiamenti, e cercano di correggersi. L'informale Gianfranco Fasce prima dell'ictus trattava il colore in modo molto sofisticato (lo stendeva "a corpo", cioè in maniera molto densa) e poi lo grattava via con la paletta ottenendo delle velature squillanti e con effetto di profondità. Dopo, ha iniziato a semplificare il linguaggio, procedendo mattone su mattone, con risultati molto buoni. Boiadjiev invece, partito da una pittura classica, dopo l'ictus si è dato al naif, cioè a una pittura in cui le figure sono estremamente esemplificate, quasi infantili.
    Un caso molto interessante è anche quello di Lovis Corinth, perché più di metà della sua produzione è posteriore all'ictus. Colpito nel 1909, l'anno in cui si diffondeva l'espressionismo, è rientrato in questa corrente proprio per via della malattia, nonostante appartenesse a una generazione precedente. Se si fosse ammalato trenta anni prima, la sua nuova opera non sarebbe stata accetata. Ecco perché questa ricerca è importante anche per la storia l'arte. Spiega Trento: "La critica non ha mai considerato il decadimento fisico, ha sempre ricondotto ogni espressione alla precisa volontà dell'artista".

Per saperne di più: Anna Mazzocchi, Dario Trento, vanne Pesci, Cervello e pittura, Fratelli Palombi editori (Roma). 
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Il Daimon

Guidando un cocchio, le anime umane non ancora incarnate giungono davanti alla Pianura della Verità, e vi gettano uno sguardo rapidissimo e di sbieco. Lassù stanno le Idee, immobili sopra il loro piedestallo sacro: la Giustizia e la Temperanza, la Bellezza e il Pensiero: sono sempre eguali a sé stesse, semplici e pure: non hanno viso né mani, né corpo, né colore, né forma; ignorano la generazione e la morte, la crescita, il mutamento e la consumazione. A distanza di quattro giorni di viaggio, c'è un altro Luogo, di cui ignoriamo il nome: vi abita una luce diritta come una colonna e simile all'arcobaleno, ma più brillante e tersa. Le anime che aspettano di incarnarsi trovano in questo Luogo le estremità della catena del cielo: il fuso della Necessità: gli otto cieli con i colpi celesti, ognuno inserito nell'altro; mentre le Sirene e le Moire, le dee del fato, vestite di bianco, compongono con le loro voci un accordo armonioso. Così racconta Platone, nel Fedro e nell'ultima parte della Rebubblica.
    Le anime che attendono di tornare in terra si raccolgono nel Luogo senza nome. Qualcuno getta loro sul terreno luminoso dei modelli, delle forme di vita, ognuna distinta dall'altra; e noi, lassù in alto, le raccogliamo e le scegliamo. Queste forme diventano il nostro carattere, il nostro daimon (genio) e il nostro destino. Tutta la vita che stiamo per passare in terra dipende da questa scelta, che coscientemente o incoscientemente compiamo prima di nascere. Non sonó dunque gli dèi a imporci le nostre nature e i nostri destini, come pensava Omero; e nemmeno i geni che abbiamo ereditato, mescolati alle occasioni della vita, come crede la scienza moderna. Lassù in alto, insiste Platone, le nostre anime scelgono la propria sorte. Alla fine del ventesimo secolo, uno psicologo geniale e immaginoso come James Hillmann conferma il mito platonico. «Quella che ricevo è l'immagine che è la mia eredità, la porzione assegnatami nell'ordine del mondo, il mio posto sulla terra, condensato in un modello che è stato scelto dalla mia anima.»

    Ciò che importa, nei grandi esempi umani, secondo Platone, è l'assoluta unità tra forma di vita, daimon e destino, che porta alla rigorosa compattezza delle loro esistenze. Non c'è caso, né imprevisto, né contraddizione; né errore, né incoerenza. Là in alto, noi avevamo scelto liberamente: chi un daimon e un destino, chi un altro daimon e un altro destino; e poi la nostra scelta viene filata e tessuta dalle Moire, diventando un tessuto compatto, che nessuna forza potrà mai più separare. Tutto, in una parola, viene sigillato dalla Necessità.

«Nulla ho trovato più potente di Necessità»,

dice Euripide.

«Essa è la sola dea, senza altare né immagine davanti a cui pregare. Non cura sacrifici.» '

    Se ripensiamo alle sorti dei grandi scrittori ed artisti, vi troviamo sempre la traccia nascosta e visibile di Necessità. Tutto ciò che essi hanno fatto: le vite in apparenza casuali, gli errori, le storditezze, i libri che hanno letto, i quadri che hanno visto, le musiche che hanno ascoltato, le opere mancate, le opere riuscite, le malattie, la morte tutte le manifestazioni entrano in un rapporto strettissimo tra loro, formano una tessitura, disegnano un tappeto, di cui dobbiamo conoscere sia il diritto sia il rovescio. Qualche volta, la nostra impressione è quasi angosciosa. Possibile che Dostoevskij o Proust o Kafka non siano stati, nemmeno per un istante, liberi? Possibile che non abbiano mai disobbedito al loro daimon? Che tutto ciò che hanno scritto e fatto fosse destino? Che si siano sempre inchinati davanti a Necessità, la dea senza altare né immagine? Vivere sempre sotto il suo segno è la più ardua e tremenda delle esistenze. Non si può nemmeno rimpiangere o sognare, perché «l'occhio di Necessità» dice Hillmann "svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere".
    Eppure, davanti a certi destini di scrittori, ci lasciamo spesso sorprendere da un presentimento. Tutto vi è necessario: eppure immaginiamo che qualcuno di loro abbia avuto delle possibilità che non ha sfruttato. Forse quel destino così stretto e rigoroso è stato soltanto un bellissimo gioco: accanto al quale c'erano altri giochi, altri divertimenti, altre imprese, che, chissà perché, sono state lasciate da parte. Certi libri sono così vasti da rivelare, in sé stessi, altri libri che li contraddicono e li superano o li completano. Certi quadri hanno un significato affidato all'enigma. Tutte queste sorti lasciano in noi una sensazione di straordinaria molteplicità, come se una specie di alone o una ariosa leggerezza avvolgesse ciò che è puramente necessario.
    Su un punto non concordo con James Hillmann. Al contrario di quanto egli crede, pochissime sono le esistenze umane che siano state tessute dalle Moire: solo i grandi artisti, e alcuni uomini d'azione, vedono riflesso nella loro vita il segno della Necessità. L'universo è una serie colorata di eventi: un guazzabuglio di casi, che solo per pochi istanti accenna una figura, e poi si deforma, perde ogni disegno, precipita a poco a poco o violentemente nel caos. La storia non ha senso né direzione; e perciò è così divertente. Noi non abbiamo né un daimon né un destino: siamo frantumi di vita, che qualcuno ha incollato insieme; e per questo, a tratti, abbiamo quella gioiosa e frivola sensazione di essere completamente liberi, che un genio non possiede mai.

    La persona umana non è un semplice io, ma una specie di sistema planetario: dove ci sono molte funzioni, molte personalità secondarie, che stringono rapporti tra loro e subiscono attrazioni vicendevoli, mentre ruotano attorno a un Sole, che talvolta non esiste o getta una luce nera. Platone e Hillmann pongono il daimon nel centro di questo sistema. II daimon non è altro che la nostra forma di vita, il nostro carattere: eppure si stacca da esso, assume una specie di autonomia, e diventa il nostro guardiano. In Socrate, si risvegliava soltanto per dire di no; e certo nella vita di tutti i grandi artisti opera sempre un guardiano inflessibile, che controlla e sorveglia l'anima, le impedisce di percorrere strade che non le appartengono, la rende cieca e muta davanti a tutto ciò che non è necessario, la fa ostile ai compromessi. Quante vite si perdono, quanti brillanti talenti si sprecano, perché il daimon si assopisce, e allora l'ambiente schiaccia, i casi ostacolano, lo stesso talento si inebria della propria apparente ricchezza.
    Non vorrei dare un'idea troppo inflessibile ed eroica del daimon. Molte vocazioni si perdono per eccesso di volontà e di chiarezza: nulla è più pericoloso che conoscere sino in fondo tutte le forme e gli svolgimenti del proprio destino, e conquistarlo con la violenza e la coercizione. La conoscenza assoluta di sé isterilisce, come un occhio gelido continuamente portato sulla mano che scrive o dipinge. Spesso il daimon veramente fruttuoso non sa: ignora o crede di ignorare la propria vocazione; vive nella penombra e nell'incertezza, senza una meta o un fine, mentre nella tenebra la vocazione si forma a poco a poco, come un bambino nel grembo. Talvolta il daimon dimentica la scelta che l'anima ha compiuto nel Luogo luminoso: ricorda faticosamente, a pezzi, a sprazzi, a barlumi. Non segue una linea retta: ma va avanti e indietro, indugia, oscilla, si ferma, sbaglia, segue tutte le tracce, si perde, si ripete, si rinnova.

    II daimon è accortissimo, multiforme e versatile come Ermes. Solo un artista mediocre può dire: «L'unica influenza che io abbia mai avuto, sono io stesso». L'arte fondamentale del daimon sta nell'approfittare delle occasioni: dolori, morti, malattie, amici, nemici, letture, quadri, viaggi, casi, disastri. Egli impara dagli altri: venera un altro, imita un altro: talvolta molti altri; e dalla moltitudine e dal groviglio delle influenze, sa trarre la parola che soltanto è sua. Di rado è aggressivo. Sa attendere. Qualche volta è persino troppo passivo: una specie di miele; perché solo la passività lo porta vicino alle sue origini profonde, a quella forma che aveva scelto nel luogo più brillante dell'arcobaleno. Così, a forza di accettazioni e di rifiuti, ora solido ora liquido, il daimon forma a poco a poco il sistema planetario del genio creativo.

L'antico insegnamento delfico, Conosci te stesso, voleva dire: conosci i tuoi limiti, sappi di essere un uomo e non un dio, rifiuta in primo luogo la hybris. Eppure il daimon di un artista non obbedisce sempre alla massima delfica: l'arte della vocazione è un continuo violare il limite - compiere veloci scorribande nell'altrove, portare notizie dal mondo che non gli appartiene, trasformare il diverso. Così egli agisce anche con le forze della distruzione. Talvolta le porta dentro sé stesso: Kafka non poteva rinunciare all'aspetto distruttivo del proprio temperamento. Anche in questo caso, il daimon è sovranamente accorto: utilizza, sfrutta, trasforma le forze distruttive, lascia che la distruzione diffonda attorno a sé il suo alone fascinoso, ma non se ne lascia travolgere. Si spinge sul limite estremo dell'abisso, dove c'è solo tenebra e orrore, e poi si getta indietro, con un'ultima spinta elegante del corpo. (non sempre però ci riesce. n.d.r.) Così vuole la dea "Senza altare né immagine davanti a cui pregare". Da L'armonia del Mondo di Pietro Citati Rizzoli, 1998, Milano.  Indice


Fisica e letteratura.

    Mi piacerebbe che tutti gli appassionati di letteratura leggessero un libro di cosmologia: Dal Big Bang ai buchi neri: breve storia del tempo di Stephen Hawking. Amo, in questo libro, la mescolanza di tensione intellettuale e di ebbrezza psicologica, che sembrano nascere dalla mente di un uomo sempre sul punto di scoprire verità straordinarie. Ammiro la passione metafisica, il gioco puro delle idee - tutto quanto, una volta, eravamo abituati a trovare nei libri di filosofia e ora incontriamo più facilmente nei testi di letteratura, o di biologia, o di etnologia, o di cosmologia.
    Questo libro cancella una volta per tutte l'opposizione pascaliana tra esprit de finesse e esprit de géométrie, tra temperamento letterario e temperamento scientifico, tra umanesimo e analisi. Non c'è alcun bisogno che un romanziere o un poeta conoscano la seconda legge della termodinamica, o il principio di Heisenberg, o la teoria della relatività, come molti anni fa chiedeva un famoso saggista. Non è necessario che un umanista si «adatti» alla scienza moderna, come nessun grande scrittore del diciassettesimo secolo si è mai «adattato» a Keplero, a Galileo o a Newton. Le nascoste leggi dello spirito si impongono nel medesimo tempo ai poeti e agli scienziati; e la figura di fisico e l'immagine dell'universo che vengono fuori dal libro di Hawking sono la stessa figura fantastica, che in questi ultimi decenni ha dominato l'immaginazione di molti poeti e romanzieri.

    Prendiamo il caso più appariscente. Come tutti i fisici moderni, Hawking non muove dall'osservazione: elabora dei modelli matematici, che solo in un secondo momento cercano l'osservazione. Kafka, o Musil, o Pessoa scrivono allo stesso modo. Quello che li ispira non è una storia da raccontare, o un volto intravisto in strada o in sogno, o una massima morale. Come degli, arditissimi cosmologi, immaginano delle ipotesi su Dio, sull'universo, sull'anima umana: le conducono fino ai limiti del pensabile, fino al punto di rottura; e attribuiscono a queste ipotesi un corpo romanzesco, una veste di sensazioni e di impressioni, trasformandole in personaggi e in avventure. Il principio di non contraddizione li inquieta raramente. Negli stessi anni, negli stessi mesi, seduti davanti a diversi tavolini di lavoro, essi rappresentano delle ipotesi opposte: ora Dio assume un volto luminoso, ora tenebroso: ora il mondo è lineare ora sferico; sanno che l'unico obbligo di uno scrittore è di foggiare delle immagini coerenti, dove la medesima legge risplenda nella struttura e nei minimi particolari. Quando ripercorre la nascita dell'universo, Hawking lavora come loro: getta teorie sempre diverse sulla tavola d'azzardo del pensiero, senz'altra preoccupazione che la coerenza interna del proprio ragionamento.

    Potremmo condurre le convergenze tra fisica teorica e letteratura molto più lontano. La mente di Hawking oscilla dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo: oppone (o cerca di fondere) la teoria della relatività generale e la meccanica quantistica. La condizione della letteratura mi sembra identica. Come quella di Hawking, la mente dello scrittore moderno è abitata dalla passione del doppio infinito: va sempre più lontano, oltre la dimensione dell'universo e la misura del suo libro: non ha più parole per esprimere questa condizione; e, al tempo stesso, il suo sguardo segue tutto ciò che è immensamente piccolo - ogni screziatura verde dei fili d'erba, una briciola di pane, un capello caduto, l'atomo di polvere che, in questo momento, viene colpito da un raggio di luce.

    Mentre Newton credeva che l'universo fosse statico, Hawking sa che l'universo, nato da un'espansione drammatica, è ancora oggi in espansione. (vedi la teoria del Big Bang e gli studi di Hubble n.d.r) Quasi tutte le galassie stanno allontanandosi da noi, tanto più velocemente quanto più sono lontane dalla terra - sino alla contrazione catastrofica che ci attenderà alla fine dei tempi. Anche il nostro io (conscio ed inconscio) è in espansione. Non tanto perché si moltiplicano le notizie che gli facciamo conoscere. Il nostro io si dilata perché non è più un io, ma un sistema solare di figure, di persone e di simboli, in perpetua rotazione interiore, che accoglie in sé sempre nuove immagini e proiezioni. Forse non comprendiamo come questa condizione straordinaria sia piena di pericoli. In tanta dilatazione della coscienza e dell'inconscio, manca in noi - qualche volta - l'opposta forza di concentrazione. Tutto si espande, si dilata, volatilizza, si perde come il più sottile dei gas - senza quella tragica densità, dalla quale soltanto nascono le grandi avventure spirituali.

    L'universo è fatto come ogni vero libro. Sappiamo che è uniforme: se puntiamo un rivelatore sensibilissimo di microonde verso qualsiasi direzione, un rumore identico ogni giorno, ogni notte, qualsiasi mese, qualsiasi anno - torna a noi dalle zone che stanno al di fuori del sistema solare e della Galassia. Ma non per questo la materia è una melassa eguale e indivisibile. Tutto è distinto e suddiviso. Due particelle non possono avere la stessa posizione. Il miracolo dell'universo sta in questo gioco continuo di equilibri e di contrappesi tra le forze cosmiche: gioco esattissimo e vertiginoso, perché un lieve spostamento di equilibri basterebbe a far esplodere l'immenso organismo nel quale viviamo. Un grande libro non è fatto esattamente così? La sua materia è insieme uniforme e distinta: ogni forza è contrastata da una forza antitetica; e il gioco degli equilibri è così delicato e sottile - tutto dipende dal rapporto tra due metafore o due rime o due imperfetti attraverso il libro - che appena un'ombra distingue la perfezione dall'imperfezione.

    Il tema del libro di Hawking è la nostra possibilità di formulare una teoria globale dell'universo. All'inizio, egli ricorda il principio di indeterminazione di Heisenberg: «con quanta maggiore precisione tentiamo di misurare la posizione di una particella, tanto meno esattamente potremo determinarne la velocità, o viceversa». Tutto ciò che la scienza sembrava avere escluso - il carattere casuale e imprevedibile dei fenomeni - riaffiora dunque nel cuore dell'infinitamente piccolo. Figlio dell'uniformità, della suddivisione e della precisione, il mondo sembra qui divorato dall'imprecisione. Due scoperte, avvenute nel cuore dell'infinitamente grande, non possono che riaffermare questo scetticismo verso la verità assoluta. Il big bang, l'ipotesi oggi diffusa sull'origine delle cose, contraddice la teoria della relatività, in quanto allora la densità dell'universo e la curvatura dello spazio-tempo erano infinite. Anche i buchi neri rappresentano un'offesa per la teoria, poiché suppongono una densità infinita e un volume nullo della materia.

    La mia competenza in fisica teorica è molto inferiore a quella delle eleganti dame che, alla fine del diciassettesimo secolo, leggevano gli scritti di Fontenelle sulla scienza. Eppure, vorrei collaborare anch'io alla fatica di Hawking. Confesso di non condividere l'angoscia, mascherata di ebbrezza, con la quale descrive l'odierna condizione della teoria cosmologica. Egli ci ricorda che la fisica teorica riposa sulla teoria di Einstein sulla relatività generale. Ma questa teoria urta contro due scandali che non riesce a comprendere: il big bang i buchi neri. L'origine dell'universo sfugge, come una singolarità assoluta, alla mente che dovrebbe interpretarla. La relatività fallisce dinanzi al proprio compito supremo. Questo fallimento spinge Hawking a interrogare, a tentare integrazioni e nuove verità generali. Non posso giudicare l'importanza del suo tentativo. Ma vorrei difendere l'idea di verità che lo angoscia: una teoria che spiega il funzionamento delle cose ma non abbraccia tutta la realtà, una teoria che offre dei punti vuoti, delle eccezioni e delle omissioni, che fallisce contro uno scandalo, - mi sembra l'unica filosofia adeguata di cui l'uomo possa disporre.

   Hawking sogna molto di più. Sebbene impieghi telescopi e rivelatori di microonde, è simile a un presocratico che in tutte le cose insegue l'Uno. Vuole la semplice formula generale, «la teoria completa, coerente, unificata, che spieghi l'intero universo: vuole abolire le eccezioni, gli scandali, gli scarti, riportando dovunque la sovranità della Legge. L'universo, per lui, non è mai stato creato e non verrà mai distrutto: senza singolarità, senza confine, autosufficiente, completamente contenuto in sé stesso. Forse, egli non tollera l'idea del big bang perché suggerisce l'immagine del Dio creatore paolino, che sconvolge le leggi naturali che egli stesso ha foggiato. Se ne possiede uno, il suo Dio è quello stoico e illuminista: il grande orologiaio, che abita in un punto lontanissimo dell'universo, e si accontenta di disegnare sopra un foglio la grande, semplicissima formula alla quale noi tutti obbediamo.

    Anche per Hawking lo spazio-tempo è finito. Se poi continuiamo ad accettare l'ipotesi del big bang l'universo era all'inizio piccolissimo e densissimo; e, nel momento stesso dell'espansione creatrice, nacque il tempo, come già pensava Agostino. Ma cosa c'era prima di questo nocciolo densissimo? Prima della materia, dello spazio e del tempo? La scienza non può rispondere a queste domande. Essa si accontenta di condurci fino al momento del big bang. Ciò che è accaduto prima è per noi inconoscibile, e per ottenere un'informazione in proposito non basterebbe tutta l'energia dell'universo.

    La fatale rinuncia della scienza non ci impedisce di continuare a rivolgere queste domande. Non possiamo proibircelo perché il primo capitolo della Genesi - che non ricordo qui come documento religioso, ma come il testo archetipico che ha stabilito per sempre il nostro rapporto collo spazio e col tempo - rievoca la condizione della terra prima del principio. Prima del big bang c'era dunque qualcosa, che non possiamo descrivere scientificamente né razionalmente, perché sfugge alla forma del tempo, senza la quale non possiamo pensare e scrivere. Come dice la Genesi, allora c'era il tohu-wa-bohu. Non esisteva né materia né spazio né tempo; e non esisteva necessariamente nemmeno l'infinito (il quale è soltanto il contrario dello spazio e del tempo). Se non possiamo raccontare o spiegare o disporre in un discorso questo qualcosa, le immagini del mito si affollano tumultuosamente, cercando di rievocare dentro di noi quello che è il vero scandalo, che non finirà di suscitare l'attenzione segreta del nostro spirito.
    La verità più consolante del libro ili Hawking è un semplice dato. In tanta vertigine di tempi relativi e di ipotesi, l'unica cosa stabilita e certa è la velocità della luce. Come ha scritto uno scrittore italiano, il nostro universo regge sull'impalpabile. Da L'armonia del Mondo di Pietro Citati Rizzoli, 1998, Milano. Indice

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