FORUM ANTI COPYRIGHT SULLA CULTURA

 

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E' TRISTE IN RETE ARRAMPICARSI SUGLI SPECCHI!

E' singolare che la Siae dica, in via preliminare, che chiunque in rete deve pagare i diritti d'autore agli artisti protetti, a prescindere dal carattere
lucrativo del proprio sito, e poi, per giustificare i propri "diritti", si appelli al fatto che anche i siti didattici contengono aspetti commerciali
attraverso i banner.
Questo sta semplicemente a significare che la Siae sa bene d'aver iniziato a comportarsi in rete in maniera del tutto anomala e che, nel contempo, per poter applicare al web le stesse regole della vita reale, deve necessariamente sostenere la presenza di un carattere "lucrativo" nei siti
didattici.
Le affermazioni relative alle pubblicità presenti nel sito homolaicus.com detonano solo una profonda incomprensione di come funzioni il web. Le uniche inserzioni che in homolaicus rendono un minimo sono quelle di Google (i cui contenuti sono contestuali agli argomenti trattati), le altre sono tutte a scopo gratuito o di scambio banner o di pari reciprocità e visibilità, o comunque tali da non giustificare affatto alcun carattere commerciale del sito. E lo posso dimostrare in qualunque maniera.
Si dirà che la Siae non può sapere se da un circuito banner il webmaster ricava o no qualcosa. Ma a noi docenti quando mai è stato detto che un
semplice circuito banner trasforma, eo ipso, un sito da didattico a commerciale? La Siae è in rete da un decennio, esattamente come i docenti, e non s'è mai comportata così nei nostri confronti. Noi siamo funzionari pubblici, dipendenti di un Ministero, svolgiamo un ruolo socialmente rilevante, tutelato dalla Costituzione (non è forse anche dalla formazione che dipende il destino di un paese?). E' da quando è nato il web che agiamo per il bene della didattica e della cultura e quindi anche dell'arte: fino adesso ci siamo limitati a citare le fonti e a scambiarci gratuitamente i materiali.
Chi autorizza la Siae a impedirci dal continuare in questa maniera? Noi docenti non abbiamo ricevuto disposizioni in merito dal nostro Ministro.
Chiediamo anzi che intervenga con un provvedimento urgente e ci dica come comportarci. La Siae ha 80.000 artisti da tutelare, ma noi abbiamo milioni di mega da controllare.
La Siae avrebbe dovuto dare comunicazione in una conferenza stampa che aveva intenzione di interpretare la legge 633/1941 in maniera restrittiva per il web didattico e culturale e che, dopo un certo periodo di tempo, si sarebbe comportata in maniera conseguente. Tutto il detto web si sarebbe certamente messo in regola: non a caso nelle interrogazioni parlamentari è stata chiesta una moratoria.
Colpire così proditoriamente i docenti, senza alcun preavviso, mettendoli in una condizione peggiore di quegli studenti che fanno pirateria informatica e che facendola privatamente e senza scopo di lucro, non vengono sanzionati, è stata un'azione a dir poco inqualificabile.
Peraltro nel sito della Siae, per andare a recuperare il file pdf (non esiste neppure un motore di ricerca interno) degli autori protetti, bisogna
fare i salti mortali. Non hanno neppure pensato di metterlo nella home page.
Grave comunque resta l'affermazione secondo cui tutti i siti che presentano inserzioni commerciali sono commerciali. Gli ad-sense di Google si trovano su qualunque sito, ma non per questo ogni sito è dotato di p. iva, è iscritto al registro delle imprese, tiene una contabilità... Non riuscire a
capire questa cosa è singolare per una Società che dispone del proprio dominio dal 1997.
Che cos'è che qualifica come "commerciale" un sito? Il fatto di vendere beni o servizi, materiali o immateriali, il fatto di avere un carrello, di fare
ecommerce o business to business, nonché il fatto di poter fare tutto questo secondo le regole giuridiche previste dalla legge. Homolaicus non fa e non potrebbe fare nulla di tutto questo. Tant'è che la stessa Siae è costretta a dire che nei miei confronti è stata indotta ad applicare "tariffe ridotte,
in considerazione dell'uso culturale". Il che in sostanza vuol dire che per la Siae tutti i siti, solo per il fatto di utilizzare immagini protette,
diventano siti "commerciali" e che solo in subordine, in ragione dei loro contenuti culturali, possono beneficiare di sconti.
Di qui l'improprietà dell'esempio addotto per giustificare la riscossione dei diritti d'autore: "Se pubblico un libro con decine d'immagini tutelate,
il diritto d''autore va corrisposto o no?". Homolaicus non è un editore che pubblica libri con immagini tutelate. Quando "pubblica" qualcosa non lo fa come "editore", a meno che per la Siae non valga l'assunto, del tutto arbitrario, che qualunque webmaster sia ipso facto un editore. Tutti i testi di Homolaicus sono originali e riproducibili in forma gratuita, oppure sono stati presi dalla rete in quella forma che gli americani chiamano "as is", cioè "qua talis", e se a volte vi sono state lacune nella individuazione della fonte, la cosa s'è sempre risolta amichevolmente coi diretti interessati.
Non ha poi alcun senso tecnico sostenere che le immagini usate in un sito web siano una riproduzione fedele dell'originale, quando tutti sanno che il formato jpeg è quanto di più precario si possa pensare a tale scopo, al punto che nessun "editore" si sognerebbe mai di utilizzare le immagini di un ipertesto per farci un libro o un poster o una locandina. Le immagini che ho usato io sono tutte a bassa risoluzione e inutilizzabili persino per uno screensaver.
Ma ciò che più mi mortifica come uomo, come insegnante, come operatore culturale, come amante dell'arte in generale non è tutto questo: è piuttosto il fatto che si insista nel dire che mettendo nel circuito banner cose non attinenti all'arte io violo la dignità morale degli artisti.
Su questo vorrei precisare alcune cose per me molto importanti e facilmente dimostrabili: tutti gli ipertesti rimossi contenevano esclusivamente gli
ad-sense di Google (non mi sarei sognato neanche lontanamente di associare -come dice il responsabile dell'Uff. Arti Figurative - "gli alberghi della Riviera romagnola" con "Matisse": frasi di questo e altro genere presenti nell'intervista non potranno certo cadere nel vuoto). Il circuito banner appare in tutte le sezioni principali del sito, che è di tipo "generalista".
In secondo luogo l'immagine di Picasso usata nel puzzle non è stata affatto scomposta o manipolata: le tessere che si vedono sono semplicemente un effetto ottico dell'applicativo in java. E in ogni caso anche se l'avessi scomposta non può certo essere la Siae, che è società privata commerciale, a dire che quel puzzle viola la dignità morale di Picasso. Dov'è quel critico d'arte che direbbe la stessa cosa?
In terzo luogo voglio dire che un docente dovrebbe sentirsi libero di apporre cerchi quadrati linee su un dipinto per poterlo meglio interpretare.
Se tale azione didattica fosse del tutto immorale, andrebbe considerata tale anche dopo aver pagato i diritti patrimoniali e non la si dovrebbe neppure vedere nei manuali scolastici.
In quarto luogo debbo dire che la Siae non può chiedere ai docenti di disinteressarsi dell'arte degli ultimi 70 anni o di farci pagare i diritti sopra, come se dall'affronto critico di quell'arte essi dovessero ricavarci chissà quali interessi personali. In realtà il nostro lavoro è quello di esaltare il genio creativo degli artisti e quindi, indirettamente, inevitabilmente, di incrementare, a titolo gratuito, i loro diritti patrimoniali e dei loro eredi. Lo sanno gli eredi di Picasso, Kandinsky, Klee, Matisse, Marinetti, Balla, Severini, Braque, Cangiullo, Carrà che, obbligandomi a rimuovere 70 mega di materiali dedicati a loro, la Siae ha danneggiato gravemente i loro interessi? Davvero questi eredi avrebbero preferito che avessi messo tutto in un'area riservata? E per quale ragione un giornalista che avesse fatto la stessa cosa non avrebbe pagato nulla alla Siae, in virtù del suo diritto di cronaca?

14-02-2007 inviato a Punto Informatico in risposta all'intervista al responsabile dell'uff. Arti figurative della Siae

Enrico Galavotti   Indice Forum 
 


NEL MONDO LA TECNOLOGIA AVANZA IN ITALIA SI DEVE PAGARE LA SIAE

La Siae vorrebbe far pagare sempre. Nel mondo della scuola ad ogni esecuzione musicale di fine anno (festa per i genitori), i presidi devono pagare la Siae. Se fate un matrimonio o un compleanno, anche se vi sono pochi invitati, e fate della musica attraverso un karaoke o un Dj, dovreste pagare la Siae e non poco, circa 150 Euro. Persino sulla musica fatta in chiesa c'è da pagare la Siae. Mi ha detto un collega che per una festicciola in un ospizio di Cesena ove è ricoverata sua suocera, la dirigenza ha pagato la Siae. Ma per la musica questa è una prassi consolidata, da rivedere, ma si sa che è così da tempo. Ora però la Siae vorrebbe applicare gli stessi principi alle immagini presenti in internet di autori protetti, ovvero iscritti alla sua associazione. Solo che il discorso qui è diverso: Internet infatti è un mezzo globale e se io devo pagare dei diritti per delle fotografie del c..zo che non mi generano alcun profitto, ovviamente le tolgo e al loro posto metto dei links su Google Images che consentono comunque al visitatore di vedere le immagini in questione e al tempo stesso non mi creano alcun problema di copyright. Risultato la Siae non percepirà alcun compenso, perché queste immagini risiedono in paesi come gli Stati Uniti per esempio dove esiste il Fair Use, strumento legislativo che  permette di pubblicare materiali sotto copyright senza autorizzazione, purchè vi siano fini e intenti educativi, il principio del fair use, infatti, rende i lavori protetti dal diritto d'autore disponibili al pubblico come materiale grezzo senza la necessità di autorizzazione, a condizione che tale libero utilizzo soddisfi le finalità della legge sul diritto d'autore, che la Costituzione degli Stati Uniti d'America definisce come promozione "del progresso della scienza e delle arti utili". Morale della favola, il traffico verrà dirottato sui siti degli altri paesi. In Italia invece continuerà a governare sovrana la stupidità e la rigidità del nostro sistema che bloccano la creatività e la crescita delle nostre pagine culturali e quindi al tempo stesso inibiscono la promozione del nostro territorio, del nostro genio, delle nostre imprese e allontanano i navigatori stranieri e locali dalla nostra realtà, inutile dire dunque che la cosa costituisce un gravissimo danno per tutto il paese. Così mentre in America accanto all'ormai famosissimo Google Map, nasce anche Google Patents che mette in linea tutti i brevetti, e ancora Google Print, che poi è diventato Google Book Search il motore di ricerca che indicizza testi digitalizzati, sia coperti da copyright, sia di libero dominio, e che promette di creare una piattaforma che sarà per l'editoria digitale ciò che Itunes è ora per la musica e presto offrirà e-books interi a pagamento, in Italia si continua a perdere tempo, energia e soldi su delle mostruose stupidaggini, come ad esempio quella che vede impegnata una mastodontica e anacronistica struttura come la Siae (commissariata per quattro anni) nel cercar di raccimolare due soldi ai danni di insegnanti, intellettuali e operatori del mondo no-profit e a scapito della sensibilità artistica, estetica ed etica della nostra realtà. Quindi senza far riferimento ai pietosi dati delle statistiche sull'utilizzo di Internet e della banda larga in Italia, dobbiamo rilevare che procedendo in questa direzione la nostra povera Italia risulterà sempre più abitata da un popolo tecnologicamente, scientificamente, culturalmente e artisticamente analfabeta, stupido, violento, incolto, ignorante, insensibile, cafone, infelice, chiuso, introverso, e che alla fine non riuscirà più a rimanere al passo delle nazioni più libere e più civilizzate e sarà quindi sempre più costretto a vivere in un paese squallido, triste, cupo, misero, ingiusto, ridicolo ed ignobile.

P.S. Nel Forum di Punto Informatico ho trovato queste simpatiche riflessioni di un anonimo navigatore che riporto di seguito: "Quando sono sotto la doccia canto a squarciagola le canzoni di Elio e le Storie Tese. Mi sente tutto il palazzo. Ne traggo profitto, perche' mi sento meglio e quindi ci guadagno in salute. Devo pagare la SIAE?
Quando sono per strada o quando prendo la metro, fischietto motivetti di brani musicali. Mi sentono tutti quelli che incontro. Ne traggo profitto, perche' mi sento meglio e quindi ci guadagno in salute. In piu' metto allegria a quelli che mi incontrano. Devo pagare la SIAE?
Nel mentre digitavo questo messaggio mi sono accorto di battere sui tasti riproducendo il ritmo di "Macarena". La cosa mi ha divertito, quindi ne ho tratto, ancora una volta, profitto. Devo pagare la SIAE?
E vabbe'. Ma se mando affanculo la SIAE a ritmo di Samba, traendone il dovuto profitto morale (quando ce vo', ce vo'), devo pagare la SIAE?

Carl William Brown   Indice Forum 


Against Intellectual Monopoly   Michele Boldrin and David K. Levine


LA SFIDA DEGLI ANTIBREVETTO "COPIARE È UN DIRITTO"

La Open-Cola sfida Coca e Pepsi, rivela la propria ricetta di produzione e dice: copiatemi. Linux, il programma di software gratuito, in pochi anni è diventato il primo rivale del Windows di Microsoft. Ora c'è Wikipedia, l'enciclopedia online che tutti possono copiare e integrare aggiungendo nuove definizioni. E il popolo dei teen-agers continua imperterrito a copiare musica gratis da Internet e si rifiuta di pagare le case discografiche.
La rivolta contro la proprietà privata delle opere dell'ingegno invade nuovi territori. Abbasso il copyright, viva il copyleft, è lo slogan di un movimento anticapitalista che nasce nel cuore del sistema. Tra right e left il gioco di parole allude a destra e sinistra, ma non solo: contrappone il diritto d'autore remunerato e la "copia lasciata" a disposizione di tutti, la libertà di copiare. Open-Cola è il primo caso di un prodotto di consumo che nasce con "formula aperta", nel senso che il produttore regala sul suo sito Internet le istruzioni per fabbricarlo, ed è aperto a ogni suggerimento per migliorarlo.
Il modello è copiato dal mondo dell'informatica, dove fin dalle origini una corrente libertaria e anticapitalista cercò di impedire l'appropriazione privata delle innovazioni a fini di profitto. Nel lontano 1975 - agli albori del personal computer - nella Silicon Valley californiana nasceva il celebre Homebrew Club, un'associazione di giovani ricercatori appassionati di nuove tecnologie, ostili agli interessi della grande industria, e pronti a tutto pur di impedire che l'establishment si impadronisse delle loro scoperte. Lì nacque il termine hacker, che all'origine non designava i cyberpirati bensì i giovani scienziati animati da ideali antiautoritari e dal sogno di promuovere la massima diffusione sociale delle nuove tecnologie.
Nel 1984 l'informatico Richard Stallman del Mit lanciò la Free Software Foundation e il movimento dell'open source - "sorgente aperta" - per promuovere la divulgazione gratuita dei codici-sorgente che custodiscono i segreti di funzionamento dei programmi di software. L'etica hacker ha trovato poi un alleato insperato e prezioso nella logica dell'efficienza. Via via che il computer diventava uno strumento di massa, e l'industria del software (Microsoft in testa) sfornava a getto continuo nuovi programmi, molti informatici si sono persuasi che la formula del software aperto si presta meglio a veloci correzioni e perfezionamenti. Il segreto industriale che circonda i sistemi Windows, per esempio, fa sì che solo i tecnici della Microsoft possono correggere i difetti che regolarmente accompagnano le prime versioni.
Se invece tutti possono partecipare attivamente al miglioramento del prodotto, lo sforzo corale dei consumatori motivati può dare risultati eccellenti. All'inizio degli anni Novanta lo studente finlandese Linus Torvalds lanciò il più celebre sistema operativo open source, "sorgente aperta". Il suo Linux è disponibile gratis su Internet, è una valida alternativa a Windows (lo usano già 18 milioni di computer in tutto il mondo ed è consigliato nientemeno che dalla Ibm), potete modificarlo, copiarlo, regalarlo ad altri senza pagare un centesimo. In cambio della gratuità gli utenti sono invitati a segnalare errori e a migliorarlo. Un gruppo di esperti seleziona le proposte valide, e così Linux è in costante progresso grazie al volontariato di milioni di appassionati informatici. Chi introduce una modifica di successo viene anche premiato con riconoscimenti accademici, tale è il prestigio di Linux negli ambienti universitari americani.
Sulla scia di Linux il movimento copyleft si trasforma in valanga. Ora ha anche una legge che lo tutela, la General Public License: quando un prodotto nasce con il marchio copyleft, può essere copiato cambiato e distribuito da chiunque, ma sempre con l'obbligo della gratuità. Nessuno può fare il furbo, brevettarlo e impadronirsene a fini di profitto. La popolarità del copyleft si salda con vari fenomeni di rigetto del copyright. C'è stato il celebre caso Napster, il sito che ha permesso a milioni di adolescenti di "scaricare" da Internet canzoni e brani musicali senza pagare un centesimo di diritti d'autore. Condannato un anno fa dal tribunale di San Francisco, Napster ha generato però dozzine di cloni, altri siti che continuano a sfuggire alla caccia delle case discografiche. Crollano le vendite dei cd, e un'intera generazione di teen-agers ormai dà per scontato che la musica non si paga.
A San Francisco è nata l[b4]Electronic Frontier Foundation per difendere le libertà civili nell'èra digitale: tra l'altro promuove un modello di copyleft chiamato Open Audio License, per i musicisti che vogliono offrire le loro opere gratis su Internet senza finire nelle grinfie dell'industria discografica. In un campo molto diverso, l'industria farmaceutica è sotto assedio per l'esosità con cui pretende di estrarre profitti dai suoi brevetti, vendendo farmaci salvavita (come le cure anti-Aids) a prezzi inaccessibili per i paesi poveri. Dopo l'11 settembre un colpo inaspettato alle multinazionali farmaceutiche lo ha sferrato George Bush, che ha piegato le leggi sui brevetti imponendo alla Bayer di dimezzare il prezzo dell'antibiotico per l'antrace.
Wikipedia è l'enciclopedia online che permette a chiunque di modificare e integrare le sue "voci". E' un puro prodotto copyleft, ha già 20.000 articoli e ogni mese si arricchisce di nuovi contributi. "Alla gente piace l'idea - dice il suo caporedattore Larry Sanger - che la conoscenza possa essere distribuita e sviluppata liberamente". Ma l'esperimento più rivoluzionario di copyleft riguarda nientemeno che un processo in tribunale. Lawrence Lessig, uno dei massimi giuristi dell'università di Stanford, sta preparando una causa storica contro la legge americana sui diritti d[b4]autore.
Lo fa per conto di un editore online, la Eldritch Press, che vorrebbe offrire su Internet libri il cui copyright è scaduto, ma è penalizzata dalla nuova legge Usa che ha esteso la durata del copyright da 50 a 70 anni dopo la morte dell'autore. Il giurista Lessig ha lanciato un appello a tutti gli studenti di diritto delle università americane, da Stanford a Harvard, perché contribuiscano a definire assieme a lui gli argomenti legali per contestare la legge sul diritto d'autore. E' nato così il primo caso di Open-Law: gli argomenti legali sono a disposizione anche di altre associazioni di cittadini che si mobilitano contro il copyright. "In un mondo in cui cresce l'opposizione al potere delle grandi aziende, ai diritti restrittivi sulla proprietà intellettuale e alla globalizzazione, l'open source emerge come una possibile alternativa, un mezzo per contrattaccare" ha scritto Graham Lawton sul New Scientist.
Con il copy-left anche il movimento no-global può scoprire di avere un'altra freccia al suo arco: proprio in America, nel centro del capitalismo mondiale, la legge consente di vietare la proprietà privata.
(Dalla Repubblica Articolo reperito in rete)  
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Against Intellectual Monopoly   Michele Boldrin and David K. Levine


PER L'ABOLIZIONE DEI DIRITTI D'AUTORE

La proprietà intellettuale è un furto!

È legittimo che gli artisti ricevano una giusta remunerazione dal loro lavoro. I diritti d'autore sembrano rappresentare una delle loro più importanti fonti di reddito. Purtroppo stanno diventando uno dei prodotti più commerciali del XXI secolo. Il sistema non sembra più capace di proteggere gli interessi della maggioranza di musicisti, compositori, attori, ballerini, scrittori, designer, pittori o registi... Una constatazione che spinge ad aprire un dibattito sulle strade da ricercare per assicurare agli artisti i mezzi per vivere del loro lavoro e garantire alle creazioni il meritato rispetto.

I grandi gruppi culturali e d'informazione coprono il mondo intero con satelliti e cavi. Ma possedere tutti i canali d'informazione del mondo ha senso solo se si possiede l'essenziale del contenuto, di cui il copyright costituisce la forma legale di proprietà. Attualmente nel settore della cultura assistiamo ad una vera giungla di fusioni, come quella di Aol e Time Warner. Tutto questo rischia di far sì che, in un prossimo futuro, sia solo un gruppetto di poche compagnie a disporre dei diritti di proprietà intellettuale su quasi tutta la creazione artistica, passata e presente. Il modello è Bill Gates e la sua società Corbis, proprietari dei diritti di 65 milioni di immagini in tutto il mondo, di cui 2,1 milioni disponibili in rete (1).
Il concetto, un tempo utile, di diritto d'autore diventa così uno strumento di controllo del bene comune intellettuale e creativo, nelle mani di un ristretto numero di imprese. Non si tratta solo di abuso che sarebbe facile individuare. L'antropologa canadese Rosemary Coombe, specialista in diritti d'autore, osserva che «nella cultura consumistica, la maggior parte di immagini, testi, etichette, marchi, logo, disegni, arie musicali e anche colori sono governati, se non controllati, dal regime di proprietà intellettuale (2).» Le conseguenze di questo controllo monopolistico sono spaventose.
I pochi gruppi dominanti dell'industria culturale trasmettono solo le opere artistiche o di intrattenimento di cui detengono i diritti.
Si concentrano sulla promozione di alcune star, sulle quali investono fortemente e guadagnano sui prodotti derivati. A causa dei rischi elevati e delle esigenze di ritorno sull'investimento, il marketing rivolto ad ogni singolo cittadino del mondo è così aggressivo che tutte le altre creazioni culturali sono eliminate dal panorama mentale di molti popoli. A scapito della diversità delle espressioni artistiche, di cui abbiamo disperatamente bisogno in una prospettiva democratica.
Si assiste anche ad una proliferazione di norme legali su tutto ciò che riguarda la creazione. Le società che comprano l'insieme dei diritti, li proteggono con regole molto dettagliate e fanno difendere i loro interessi da avvocati altamente qualificati. Improvvisamente, l'artista deve fare attenzione a che queste società non gli rubino il lavoro. Per difendersi è costretto ad assumere a sua volta degli avvocati, anche se i suoi mezzi economici sono molto più limitati.
Vivere decentemente del lavoro creativo Con il sistema dei diritti d'autore le grandi compagnie fanno fortuna.
Ma la pirateria che «democratizza» l'uso, in casa propria, della musica e di altri materiali artistici, le minaccia. Con un suo giro di affari pari a 200 miliardi di dollari l'anno, disturba l'accumulazione di capitale (3). Tuttavia la lotta contro la contraffazione sembra vanificata dall'invenzione di Mp3, Napster, Warapster, ecc. Questi ultimi rendono possibile in pochi minuti il telecaricamento di notevoli quantità di musiche, immagini, film o software dallo stock virtuale di dati disponibili in tutto il mondo. Un fenomeno che l'industria del disco e la sua associazione, la Riaa (Recording Industry Association of America), non apprezzano affatto.
Philip Kennicott, un ricercatore australiano, ritiene che Napster permetta di scavalcare completamente il circuito commerciale della produzione musicale. «Gli americani, scrive, commettono l'errore di paragonare un certo stile di cultura popolare - come le grandi macchine prodotte dall'industria americana - con la cultura americana, come se i film spettacolari e i dischi venduti a milioni di copie rappresentassero, da soli, la creatività degli Stati uniti. È affascinante pensare che i prodotti di divertimento formino il cemento culturale che unisce i popoli. Ma questo tipo di cultura popolare, di cui le industrie sono proprietarie, è molto diversa dalla cultura del popolo, che non appartiene a nessuno (4).» Per di più, computer e Internet forniscono agli artisti un'occasione unica di creare utilizzando materiali che provengono da correnti artistiche di tutto il mondo, del passato e del presente. E in questo senso non fanno nulla di diverso da ciò che hanno fatto i loro predecessori: Bach, Shakespeare e migliaia di altri. È sempre stato normale utilizzare idee e parte del lavoro dei precursori. Altra cosa è il plagio.
Su questo fenomeno, il filosofo Jacques Soulillou sviluppa un interessante commento teorico: «La ragione per la quale è difficile produrre la prova di plagio nel campo dell'arte e della letteratura sta nel fatto che non basta soltanto dimostrare che B si è inspirato ad A, senza citare eventualmente le sue fonti, ma bisogna anche provare che A non si è ispirato a nessuno. Il plagio suppone infatti che la regressione di B verso A si esaurisca lì, perché si arrivasse a dimostrare che A si è inspirato, e per così dire ha plagiato un X che cronologicamente lo precede, la denuncia di A ne risulterebbe indebolita (5).» La sua analisi ricorda non solo che il sistema dei diritti d'autore diventa sempre meno sostenibile, ma anche che questo sistema è fondato su un concetto meno evidente di quanto non sembri. Si può forse immaginare un poema creato senza poemi antecedenti ? Ecco perché Rosemary Coombe si chiede fino a che punto l'immagine di una star e il suo valore sia dovuto ai suoi sforzi personali. «Le immagini della diva devono essere costruite... Le immagini delle star sono il prodotto di studi cinematografici, media, agenzie di pubbliche relazioni, club di ammiratori, cronisti, fotografi, parrucchieri, insegnanti di ginnastica, professori, registi, addetti ai lavori, direttori, avvocati e medici (6).» Senza dimenticare il ruolo del pubblico, a proposito del quale la stessa Marylin Monroe dichiarava: «Se sono una star, è perché il pubblico ha fatto di me una star, né gli studios né altri, solo il pubblico (7).» Abbiamo bisogno di un sistema di proprietà intellettuale per promuovere creatività? Assolutamente no. Un numero sempre maggiore di economisti, dati alla mano, dimostra che l'espandersi dei diritti d'autore favorisce più chi investe che chi crea e interpreta. Di fatto il 90% del reddito ottenuto a questo titolo va al 10% degli artisti. L'economista britannico Martin Kretschmers conclude che «la retorica dei diritti d'autore è stata ingigantita essenzialmente da un terzo partner: Gli editori e le case discografiche, cioè da coloro che investono in creatività (più che dagli artisti), diventati i primi beneficiari di questa protezione estesa (8)».
Il sistema non favorisce neppure il terzo mondo. Come spiega il l'universitario James Boyle, per acquisire il diritto di proprietà intellettuale un artista deve essere affermato. «Questa esigenza favorisce in maniera sproporzionata i paesi sviluppati. Così curaro, batik, miti e il ballo lambada volano via dai paesi in via di sviluppo senza alcuna protezione, mentre il Prozac, i pantaloni Levi's, i romanzi di John Grisham e Lambada, il film, vi ritornano protetti da un insieme di leggi sulla proprietà intellettuale (9)».
Sarebbe giusto studiare un altro sistema che favorisse la diversità della creazione artistica. Rosemary Coombe individua la contraddizione che dovrebbe essere risolta: «La cultura non è fissata in concetti astratti che interiorizziamo, ma nella materialità delle esperienze e degli argomenti sui quali ci battiamo e nel segno che queste lotte lasciano nella nostra coscienza. Questa discussione e la battaglia attualmente in corso sui sentimenti sono al centro del dialogo. Molte interpretazioni delle leggi relative alla proprietà intellettuale, facendo appello al concetto astratto di proprietà, soffocano il dialogo sostenendo il potere della corporazione degli attori sul mondo dei sentimenti. Le leggi sulla proprietà intellettuale privilegiano il monologo al dialogo e creano grandi differenziali di potere tra attori sociali impegnati in una lotta egemonica (10)». Il concetto centrale è quindi il dialogo.
Secondo obiettivo del nuovo sistema: deve garantire ad un alto numero di artisti, appartenenti a paesi sia poveri sia ricchi, di vivere decentemente del loro lavoro creativo. Per tutte queste ragioni, il mantenimento dell'attuale sistema dei diritti d'autore non risulta né auspicabile, né realizzabile.
La relazione diretta con l'artista, come la concepiva inizialmente la filosofia del diritto d'autore, in pratica non esiste più. Perché non fare un ulteriore passo abolendo l'intero sistema? Perché non sostituirlo con un altro in grado di garantire una migliore remunerazione sia agli artisti del terzo mondo che a quelli dei paesi sviluppati, un maggior rispetto del loro lavoro e la capacità di riportare il pubblico al centro della nostra attenzione?
A prima vista, può sembrare contraddittorio che un artista, di un paese sviluppato o del terzo mondo, possa vivere meglio senza i diritti d'autore. Tuttavia, questa possibilità deve essere presa in seria considerazione. Senza dubbio l'aspetto più radicale della proposta sta nel fatto che diminuirà l'entusiasmo suscitato dalle industrie culturali per le loro star. Non avranno più interesse a investire in modo massiccio su «fenomeni» capaci di attirare il grande pubblico, se non possono poi sfruttarle in modo esclusivo; il che, dopotutto, è il principio di base dei diritti d'autore.
Se questi ultimi scomparissero, non esisterebbero più industrie monopolistiche della cultura capaci di determinare il gusto comune con la promozione dei loro protetti. Per l'artista medio, la situazione ritornerebbe «normale»: potrebbe di nuovo trovare mercati e pubblici diversi, nel suo ambiente e su scala mondiale, via Internet; potrebbe così guadagnare normalmente, e anche di più.
Le imprese e chiunque utilizzi materiali artistici sarebbero liberati dal pagamento dei diritti d'autore e dalle scartoffie burocratiche connesse. Ma questo non vuol dire che non si dovrà pagare per l'utilizzazione di un lavoro artistico. Chi usa a scopo commerciale creazioni artistiche e spettacoli fa ricorso a musiche, immagini, disegni, testi, film, coreografie, pittura, multimedia... per suscitare desideri e guadagnare di più. Contro l'industria culturale Si potrebbe allora pensare ad una tassa prelevata sui profitti delle imprese che in un modo o nell'altro utilizzano materiale artistico.
Il che riguarda la quasi totalità delle aziende. Il denaro così prelevato potrebbe essere assegnato ad un fondo speciale, secondo procedure fissate per legge, con tre categorie di beneficiari: i gruppi di artisti, gli artisti individuali e quelli del terzo mondo. Verrebbe quindi eliminata la connessione diretta - misurata in quantità, minuti o altro - tra l'utilizzazione attuale del lavoro di un artista e la sua remunerazione.
Quanto ai diritti morali che dovrebbero proteggere l'integrità del lavoro artistico e scientifico dall'imitazione, è ora di riconoscere che frenano la creazione artistica. La conclusione logica dovrebbe essere di eliminare anche questi. Nella società occidentale abbiamo creato una strana situazione: corriamo in tribunale non appena riteniamo che un diritto d'autore sia stato violato... Ma se non c'è proprietà in senso assoluto, allora non c'è niente da violare e da citare in giudizio. Il problema centrale nei nostri dibattiti dovrebbe consistere nel verificare se l'uso (di una parte) delle opere di altri artisti è stato fatto con rispetto e apporto di nuova creatività. O al contrario, se è raffazzonato, noioso o obiettivamente mal fatto. Un artista che prenda in prestito troppo facilmente dai suoi predecessori o da uno dei suoi contemporanei non potrà che essere considerato un artista minore.
Immaginiamo comunque che una persona copi il lavoro di un altro artista, asserisca che è suo e lo firmi. Se non c'è né rielaborazione, né commento culturale, né aggiunta, né traccia di creatività, si tratta evidentemente di un vero e proprio furto che merita di essere sanzionato.
A questo punto, l'obiettivo dovrebbe essere la creazione di un nuovo sistema che garantisca agli artisti dei paesi occidentali e del terzo mondo redditi migliori, che si apra in modo ampio a un dibattito pubblico sul valore della creazione artistica, che si preoccupi del miglioramento del livello culturale del pubblico, che spezzi il monopolio delle industrie della cultura, le quali vivono sul sistema dei diritti d'autore. 
Joost Smiers

NOTE:

* Direttore del centro di ricerche e professore ordinario all'Università delle arti, Utrecht (Paesi Bassi). In particolare autore di Etat des lieux de la création en Europe. Le tissu culturel déchiré, L'Harmattan, Parigi, 1999.

(1) C. Alberdingk Thijm, Websurfen? Treck je creditcard, Het Parool, Amsterdam, 7 marzo 2000.
(2) Rosemary J. Coombe, The Culturel Life of Intellectual Properties, Authorship, Appropriation and the Law, Durhamand, Londra,1998.
(3) Christian De Brie «L'economia criminale», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2000.
(4) Philip Kennicott, «Napster gives musicians a chance to be heard», International Herald Tribune, 1° agosto 2000.
(5) Jacques Soulillou, L'auteur, mode d'emploi, L'Harmattan, Parigi, 1999.
(6) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(7) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(8) Martin Kretschmers, Intellectual Property in Music. An Historical Analysis of Rethoric and Institutional Practices, Paper, City University Buisiness School, Londra, 1999.
(9) James Boyle, Shamans, Software and Spleens. Law and the Construction of Information Society, Harvard University Press, Cambridge MA, 1996.
(10) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(Traduzione di G. P.)
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2001/0109lm28.01.html  
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PARADOSSI DEL COPYRIGHT

Non sono pochi quelli che pensano che il copyright sia un concetto che merita una nuova  formulazione. Nato come strumento elastico per favorire la produzione culturale, si è progressivamente trasformato quasi ovunque in una legge sulla proprietà. Secondo molti, in questa evoluzione, il concetto si è infine rivoltato nel suo opposto, vale a dire, un ostacolo alla creatività che intendeva salvaguardare.
La causa tra il Sudafrica e le multinazionali del farmaco sui medicinali anti-aids e analoghe vertenze in altri paesi del terzo mondo hanno mostrato in modo lampante alcune conseguenze paradossali della attuale legislazione sulla cosiddetta proprietà intellettuale. Mentre milioni di persone muoiono a causa dell’Hiv, i loro governi non possono produrre i farmaci che potrebbero salvarle senza incorrere nelle denuncie dei proprietari del brevetto, i quali però vendono le medicine a prezzi inaccessibili per quei governi. Se quello dei farmaci anti-aids è un caso drammatico, altre iniziative più estemporanee hanno recentemente cercato di illuminare alcuni aspetti perversi del copyright versione inizio millennio.
E’ di pochi giorni fa la notizia che due australiani, Nigel Helyer e Jon Drummond, hanno brevettato 100 miliardi di sequenze di toni telefonici, vale a dire le melodie composte ogni qualvolta premiamo i tasti di un telefono. Questo significa che quando chiamiamo un amico rischiamo di riprodurre una sequenza musicale soggetta a copyright e quindi rischiamo di violare le leggi internazionali in materia.
I due australiani hanno utilizzato un algoritmo in grado di generare tutte le combinazioni possibili da 16 coppie di toni iniziali. Lo scopo di Helyer e Drummond è evidentemente provocatorio: se si possono avanzare pretese di copyright sul Dna umano, vale a dire il nostro patrimonio più intimo, perché non farlo sulle sequenze di toni prodotte ogni giorno da miliardi di individui? E’ dunque possibile recarsi sul sito dei due immaginifici australiani (www.magnus-opus.com) e controllare se la melodia prodotta dal proprio numero di telefono è di loro proprietà. In questo caso, non resta che compilare un modulo già predisposto che ci fornirà l’autorizzazione all’utilizzo della sequenza numerica (e musicale) desiderata.
Ma non si rischia di violare la legge sul copyright solo facendo una telefonata. Anche guidare una macchina o pedalare su una bicicletta comporta dei rischi. La storia è curiosa e coinvolge un’invenzione vecchia di millenni, un premio Nobel particolare e l’ufficio brevetti australiano (sempre lui). Scorriamola a ritroso. La settimana scorsa sono stati assegnati, come ogni anno, gli Ig Nobel Prize per le migliori invenzioni “impossibili”. Il premio della categoria “tecnologia” è stato assegnato non ad uno scienziato ma ad un giovane avvocato, John Keogh, anche lui, come
Helyer e Drummond, australiano. L’invenzione che gli è valsa l’ambita onorificenza? La ruota, o meglio un “dispositivo circolare che facilita il trasporto”, registrato qualche mese fa all’Ufficio brevetti australiano con il numero #2001100012.
L’intento di Keogh è mostrare le falle del meccanismo che permette di ottenere la proprietà di un’idea o di un’invenzione. E’ molto facile infatti spingere questo sistema all’estremo con conseguenze gravi sulla creatività e lo sviluppo, privando così legittimi fruitori dei benefici di tecnologie condivise. Quello che, secondo i critici più radicali della proprietà intellettuale, fanno ogni giorno impunemente grandi gruppi industriali.
A questo punto l’Ufficio brevetti australiano può decidere di contestare la registrazione, accusando Keogh di frode e portandolo in tribunale. Proprio quello che l’avvocato si augura. Quella giudiziaria è infatti la sede adatta per dimostrare l’inefficienza del sistema di brevetto australiano, che ha recentemente introdotto la categoria delle “Innovation patent”, per ottenere le quali si deve solo mostrare che c'è dell'innovazione
nella propria invenzione. Con il risultato, secondo Keogh, che quasi tutto può essere brevettato. 
Raffaele Mastrolonardo
http://www.smau.it/smau/view_NO.php?IDcontent=9844
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MENTE UMANA, IDENTITA' E INTELLIGENZA COLLETTIVA

L'intelligenza collettiva non è semplicemente un modo di lavoro collettivo. E' anche una modalità operativa di conoscenza del mondo. Di fatto non sarebbe possibile ritenere l'enorme quantità di informazioni significative che ogni giorno, fin dalla nascita, percepiamo attraverso l'esperienza. Per fronteggiare questo problema l'umanità ha creato nel suo procedere storico un'enormità di artefatti cognitivi, disseminati negli oggetti, nei testi, nei comportamenti e nella lingua in generale. Ovverosia gli oggetti si danno alla nostra percezione fornendoci attraverso forma e sostanza le tracce inerenti al loro senso ed uso. In pratica il processo del nostro pensiero non si avvale esclusivamente degli input che emergono dall'interno, ma si appoggia a una parte della mente disseminata negli artefatti cognitivi di cui il mondo abbonda. Il nostro pensiero, funziona grazie ad una parte della nostra mente collettiva che risiede nelle cose che ci circondano e che sono il prodotto delle molteplici culture che si sono susseguite, mescolate, sussunte e rielaborate.
Questo vuol dire che non possiamo fare a meno dell'intelligenza collettiva per elaborare pensieri sensati. Che, dunque, qualsiasi cosa prodotta da ognuno di noi è contemporaneamente anche il frutto dello sforzo del resto della collettività nello spazio e nel tempo.
E' difficile quindi pensare di poter assegnare ad alcuni il diritto di possedere una proprietà intellettuale esclusiva su qualcosa.
Uno dei processi in base a cui funziona la mente umana è anche quello della ricombinazione delle idee sulla base di un processo analogo al funzionamento dei geni per le cellule, che R. Dawkins ha definito "memi". Le nostre idee, attraverso i memi, farebbero in qualche modo parte del nostro apparato riproduttivo influenzando, ed essendo influenzati nel nostro sviluppo evolutivo dallo sviluppo dell'umanità nel suo complesso.

A. Di Corinto e T. Tozzi, Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete, Manifestolibri, Roma 2002 http://www.hackerart.org/storia/hacktivism.htm  Indice Forum


ANTI COPYRIGHT

"The question of copyright promises to be the Vietnam of the Net". Mitch Kapor

"If creativity is the field, copyright is the fence". John Oswald

Copyright is in crisis. Photocopying, sound- and video-recording, computers, and the net have all made it increasingly difficult for the owners of copyright to enforce their rights. Levies or legal penalties only patch the holes in an already leaky system. The flaw lies not in the technology or in our society, but in the very notion of copyright. Intellectual "property" does not behave like material property. If I give you a physical object I may no longer have use or control of that thing, and may ask for something in return -- some payment or barter. But when I give you an idea, I lose nothing. I can still use that idea as I wish. I need ask nothing in return.

The laws of exchange of matter being so very different from the laws of exchange of information, any attempt to trade ideas with material goods was destined for trouble sooner or later.

Not only do people hold on to ideas for material gain, they also hang on to them for psychological gain. The ego likes to be identified as the source of a particular insight or concept. But what right has the ego to attach itself to something that was never its in the first place?

We say "an idea came to me". I did not make it happen. What I do is shape the ideas "that come" into forms -- usually words and images -- that satisfy me, and hopefully communicate something to others. If I am to be paid for my work (which I am not averse to), I should be paid for my time and energy, not some dubious concept of intellectual property.

Thoughts are free. They should remain free, and be given freely.

And, following the universal law, the more we give the more we shall receive.

* * *
N.B. This is not a license to rip off. Let integrity prevail, and give credit where credit is due.


Liberated gratefully and without permission from
Peter Russell

http://anticopyright.com/  Indice Forum


SENTENZA ANTICOPYRIGHT E CYBERAGONIA DEL DIRITTO D'AUTORE

Se il copyright attuale è antiumanesimo, sopraffazione economica e morale dell'uomo sull'uomo con la scusa dell'arte, ben venga l'anticopyright. Essere giusti non significa sempre accettare lo status quo.
Le quattro sentenze anticopyright emesse dallo scrivente il 15 febbraio 2001, che assolvevano quattro extracomunitari venditori per strada di cd contraffatti per stato di necessità, sono state una rivoluzione globale e personale.Da quell'atto di coraggio, in apparenza stridente con il ruolo di un giudice ma comprensibile perché dietro quel ruolo istituzionale c'è il fondatore del movimento Antiarte 2000, è nato uno scossone tra gli oligopoli produttori di arte ad altissimo costo ma soprattutto un plauso incondizionato in rete. Subivo, intanto, in seguito a un'interrogazione parlamentare un'azione disciplinare ministeriale per quelle sentenze ritenute "abnormi", fortunatamente conclusa con un proscioglimento. Il CSM ribadiva la  correttezza dei principi esposti in quelle pronunce e insieme la libertà e l'indipendenza della magistratura soprattutto in rapporto alla facoltà di portare avanti nuove visioni del mondo e della giustizia. Ed è così che l'entusiasmo è aumentato e con esso la voglia di approfondire quella cyberrivoluzione che avevo intuito e portato avanti nel mio verdetto.

La sentenza è rivoluzionaria perché abbatte in re il sistema del copyright rilevando che

La norma repressiva di base, la protezione penalistica - e non meramente civilistica del diritto d'autore - è desueta di fatto per l'abitudine di molte persone di tutti i ceti sociali, che, in diuturnitas, ricorrono all'acquisto di cd per strada o scaricano MP3 da Internet. Anche grossi network come Napster si sono mossi da tempo in senso anticopyright e hanno permesso copie di massa dell'arte musicale. Fenomeno appena sfiorato dalle recenti sentenze degli USA che si sono espresse nel senso di regolamentare la materia della riproduzione di massa, ma con un pagamento ridottissimo in un nuovo mercato dove il guadagno dei produttori è quantificato su "minimi diffusissimi"[1].

La rivoluzione era quella annunciata dal mondo delle cose concrete, dai popoli che bypassano le norme repressive e indicano comportamenti dettati dalle stesse tecnologie riproduttive dei beni immateriali, prendendosi a piene mani quello che i produttori-distributori vorrebbero vendere a prezzi esorbitanti.

Emerge dalla sentenza questa sete spasmodica delle masse di usufruire liberamente dei prodotti dell'arte e della cultura, senza ingombri economici, culturali, censori. C'è voglia globalizzata di accedere in maniera totale e inebriante ai beni immateriali che danno gioia, elevano gli animi, dissuadono i giovani dalle droghe artificiali e dalle azioni malefiche. C'è voglia di ubriacarsi, liberamente e fraternamente, alle fonti delle arti, della cultura, delle idee, spazzando via le pastoie dei grassatori del copyright. Copyright che, è dimostrato, si è sviluppato nei secoli solo per far arricchire produttori e distributori, oltre a qualche star, a scapito della massa degli artisti e soprattutto degli usufruenti tutti dell'arte e della cultura.

La sentenza anticopyright nasceva da una consapevolezza dello scrivente che già da anni studiava la disgregazione della proprietà intellettuale. Elaborando il MANIFESTO "IPERTRANSAVANGUARDIA DEL MEDIOEVO ATOMICO"(poi ANTIARTE 2000), pubblicato nel 1997[2], già in quel tempo esprimevo l'idea che l'autore è solo il portavoce di un messaggio d'arte universale, che egli esprime in nome dell'Umanità; dal che deriva che non ha la proprietà intellettuale delle sue opere ma il mero possesso(detentio) delle forme artistiche, senza che chicchessia possa vantare alcuna proprietà né assoluta né relativa sul prodotto. Quest'idea era già nell'aria tanto che Joost Smiers arrivava addirittura a considerare la proprietà intellettuale un autentico furto[3].

Il concetto fu esplorato più a fondo nella Dudda: DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'ARTE. Quella dichiarazione venne elaborata dallo scrivente e firmata nel novembre 2002 da una serie di artisti, intellettuali, rappresentanti di associazioni culturali presso il Museo del Cinema di Roma, nel corso di un sit in per salvare il Museo che rischiava di essere cacciato dalla sua sede per farne al suo posto un centro commerciale.

Nel preambolo alla DUDDA si affermava un principio chiave per il ribaltamento radicale degli attuali rapporti tra produttori-distributori di arte e cultura da una parte, creativi e massa dei fruitori dall'altra. Si asseriva il primato dell'arte e della cultura sull'economia che rende la tutela del diritto all'arte e al sapere dell'uomo prioritaria di fronte ad ogni altro interesse materiale ed economico. Attraverso quest'ultima via veniva ribadito il principio già espresso nella sentenza anticopyright, là dove si afferma il nuovo cybervangelo connesso al diritto di accesso totale all'arte e alla cultura:

Anche la New Economy depone nel senso dell'arte a diffusione gratuita o a bassissimo prezzo, per rendere effettivo il principio costituzionale dell'arte e la scienza libere(art. 33 della Cost.) e, quindi, usufruibili da tutti, cosa non assicurata dalle attuali oligarchie produttive d'arte che impongono prezzi alti, contrari a un'economia umanistica, con economia anzi diseducativa per i giovani spesso privi del denaro necessario per acquistare i loro prodotti preferiti e spinti, quindi, a ricorrere in rete e fuori a forme diffuse di "pirateria" riequilibratrice[4].

L'azione degli oligopoli produttivi appare, quindi, in contrasto con l'art. 41 della Cost. secondo cui l'iniziativa economica privata libera "non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Solo un'arte a portata di tasca di tutti i cittadini e soprattutto dei giovani può essere a livello produttivo umanitaria e sociale come richiesto dalla Costituzione, per far sì che davvero tutti possano godere dei prodotti artistici[5].

Nel preambolo alla DUDDA veniva espressa un'altra chiave di rivoluzione del copyright, posta a base di un ribaltamento sociale epocale in cui Internet diventa strumento di realizzazione finale - in chiave realmente democratica - dei principi della Rivoluzione Francese. Si affermava che "il riconoscimento da parte della specie umana del diritto alla creatività e al sapere, fondato su Liberté, Egalité, Fraternité, costituisce il fondamento
della coesistenza della vita nel Mondo". Si aggiungeva "che un concreto diritto di accesso all'arte e alla cultura - inteso in rafforzativo quale diritto a non essere esclusi - è fondamentale per l'elevazione dell'Uomo, il che si realizza sostituendo l'attuale modello gerarchico a Piramide della società con la nuova struttura Sferica di platonica memoria".

Dal che si ricava il superamento di fondo dell'ideologia sottesa al Decreto Urbani. Vediamolo questo decreto, approvato il 18 maggio 2004 dall'aula del Senato, prima cercando di vedere cos'è il sistema informatico attaccato e come funziona.

Il P2P incriminato, ovvero il peer to peer, offre letteralmente uno scambio di informazioni alla pari, attraverso cui tutti possono scaricare dati e farli scaricare ad altri, senza nessun tipo di limitazione e/o obbligo di sorta. Le reti P2P sono gestite e mantenute dagli stessi client/server, qualunque essi siano, che si "preoccupano" di tenerci collegati ad un determinato numero di computers e, quindi, di mandare le nostre ricerche alla rete.

Le reti P2P non sono solamente luoghi dove scambiare files, ma ci si può scambiare qualsiasi tipo di informazione dal che è evidente la loro forza comunicativa e rivoluzionaria dal punto di vista del sapere fraterno fra gli uomini. Basti pensare che in questo momento migliaia di computer si scambiano informazioni in maniera del tutto trasparente e senza regole precise, tutto ciò grazie a questo protocollo (peer to peer).

Le reti P2P cambieranno in modo sostanziale il nostro modo di comunicare, possibilmente rivoluzionando parte del nostro sistema economico-sociale di cui la cosiddetta "piaga" dello scambio di musica on-line che l'industria discografica non riesce a fermare è solo la punta di un iceberg.

Il peer to peer, che oggi è anche sviluppo, ricerca scientifica, è stato, dunque, fatto oggetto di sanzionamento amministrativo e penalistico da parte del decreto Urbani approvato. Rispetto alla precedente formulazione sono attenuate le sanzioni, ma esse sono state estese a tutte le opere dell'ingegno.

E' riconosciuta la liceità dell'uso personale. Per chi immette e scarica per uso personale copie pirata, la sanzione amministrativa (passata da 1.500 a 154 euro come previsto dalla legge sul diritto d'autore), sale a 1.032 in caso di reiterazione. Resta la confisca dei materiali e la pubblicazione della condanna sui giornali per chi duplica cd e dvd non per scopo personale.

Sanzioni penali, invece, per chi fa commercio o trae profitto dall'illecita attività (reclusione da tre mesi a sei anni). Lo scambio di brani musicali e audiovisivo (file-sharing) è consentito solo a condizione che si tratti di file dotati degli appositi avvisi informativi, previsti dalla legge sul diritto d'autore. Se il file non sarà provvisto di avviso, chi lo immette commetterà un reato.

Viene introdotto un prelievo del 3% per i produttori, destinato alla Siae, sul prezzo di listino dei masterizzatori. Se la quota non è versata, ne deriva una sanzione doppia (6%) per i produttori. E' affidato all'autorità giudiziaria e non al ministero dell'Interno il compito di intervento per violazioni per via telematica (come previsto da art. 15 Costituzione). E' stato eliminato il rafforzamento sulla funzione di controllo dei
provider.

Andando non contro ma oltre il Decreto Urbani, noi dell'Antiarte affermiamo che gli omini hanno diritto di scambiarsi informazioni, arte, cultura soprattutto attraverso
Internet senza che chicchessia possa limitare il loro potere, essendo prioritaria la tutela di quel diritto di scambio rispetto a beceri interessi economici degli oligopoli produttori-distributori non di arte - là sono i creativi titolari di diritti - ma di copie puramente materiali.

E' un falso problema quello secondo cui copiare le opere senza compenso comprometta la sopravvivenza economica degli artisti, perché questi guadagnano proprio dalla diffusione in sé della propria arte e cultura. E' quello il loro intento primario, spirituale ed anche materiale, ovvero il profitto della diffusione su scala quanto più ampia possibile della propria arte e cultura, essendo il lucro un elemento succedaneo e conseguenziale.

La diffusione dell'immagine di un creativo, soprattutto via Internet, di per sé è fonte di guadagno sia come omesso investimento personale(l'opera si diffonde senza che l'autore spenda alcunché), sia come profitti occulti e conseguenziali perché la nuova industria dell'arte e cultura, o quella vecchia decrepita, lo gratificheranno anche economicamente per poter avere la sua opera, i suoi discorsi, le sue apparizioni mediatiche.

Il nuovo mercato senza produttori-distributori squali sarà proprio di una società aperta dove i vecchi produttori, ridotti plebiscitariamente via Internet a misura d'uomo, dovranno solo riciclare i loro investimenti che assumeranno altre forme.

Intanto non c'è più il mercato dominante dei produttori-distributori che impongono prezzo e tirannia nello scambio dell'arte-cultura, ma ci sono i mercati. Lo stesso prodotto artistico-culturale viene smerciato nelle varie tecnologie parallele.

La prima via è Internet col che si consentirà a chiunque di fruire di quel prodotto, di vederlo, scaricarlo nel computer a prezzo pressoché zero. Nella sentenza anticopyright si afferma al riguardo:

Il fatto è che la strategia del regalo è uno dei punti centrali nel mondo digitale, tanto che si parla di free economy, economia del gratis appunto, o di gift economy, economia del regalo. "Nell'età dell'accesso si passa da relazioni di proprietà a relazioni di accesso. Quello di proprietà privata è un concetto troppo ingombrante per questa nuova fase storica dominata dall'ipercapitalismo e dal commercio elettronico, nella quale le attività economiche sono talmente rapide che il possesso diventa una realtà ormai superata"[6].

A questo si aggiungerà la possibilità di riprodurre l'opera con mezzi tecnologici interni(una stampante) o esterni (tipografie che si specializzeranno in confezioni dei prodotti personalizzate, soprattutto digitalizzate e a bassissimo costo)[7].

La seconda via è quella tradizionale dove un produttore riproduce l'opera in serie per poi distribuirla tra librai, edicole etc.. Il prodotto probabilmente costerà di più rispetto al precedente ma, chi è preso dal furor d'aver libri e soprattutto avrà i soldi per comprarlo, lo comprerà.

Vi sarà, comunque, un plafond nei ricavi economici. Quando verrà sfondato il tetto stabilito dalla legge, la somma eccedente sarà messa in un fondo di solidarietà per gli artisti deboli(emergenti, giovani, poveri, anziani, malati, etc.).

Quanto alla SIAE essa svolge allo stato una funzione passiva, limitandosi a intervenire in intermediazione per proteggere i diritti morali ed economici degli autori. Dovrebbe essere, invece, rigenerata per assumere una funzione propulsiva dell'arte e della cultura, soprattutto proteggendo gli autori deboli, i talenti etc. attualmente bistrattati e trascurati dal mercato famelico e piramidale che porta avanti sempre gli stessi creativi, i più "forti socialmente" e neppure i migliori talora.

Dovrebbe la SIAE coi compensi sforanti delle star creare dei fondi di solidarietà per gli artisti deboli, onde ridistribuire il lucro equamente tra tutti i creativi, proprio per eliminare lo squilibrio tra gli affermati e i non.

Dovrebbe la SIAE incrementare gl'interventi sociali e istituzionali a favore delle forze creative emergenti, controllare la distribuzione dei finanziamenti pubblici, anche questi spesso destinati ai forti e ai ben agganciati politicamente(spesso sempre gli stessi) a scapito degli artisti puri, che hanno in orrore ricorrere ai maneggi, frustrati dalla mancata attribuzione di fondi che in uno stato democratico dovrebbero a rotazione,
d'amblais, spettare a tutti.

La SIAE dovrebbe combattere contro le ingiuste tassazioni statali, che aiutano a portare alle stelle i prezzi dei prodotti artistici[8].

Insomma alla SIAE, trasformata in SIA, società di solo difesa degli autori(e non più degli editori), affidiamo il compito nuovo e luminoso di indebolire i creativi forti e rafforzare i deboli, tenendo presente che se i primi emergono ciò è col sacrificio della massa degli artisti, che si vedono precluse le vie alte del successo o quanto meno della decente manifestazione della loro opera.

Nel nuovo progetto la SIAE "riciclata" sarà diretta a tutelare realmente gli autori, soprattutto quelli fragili, e non più i produttori e i distributori com'è adesso. Oggi la SIAE combatte i cosiddetti pirati che usufruiscono di musica, libri etc. senza pagare diritti; domani garantirà la libera diffusione del sapere e attaccherà i nuovi pirati, ovvero i produttori-distributori che tralignino, superando i plafond di lucro stabiliti
per legge.

Tornando all'oggi, quanto alla borsa per acquistare arte e cultura, ciò di cui non si tien conto nei decreti alla Urbani è che, se davvero una persona volesse comprare tutti i prodotti di cui necessita il suo spirito(libri, musica, film, video etc.) nelle vie cosiddette legali, ci vorrebbero enormi patrimoni che non ci sono. E, allora, perché privarsi di questa ricchezza enorme di arte-cultura che fa così bene agli uomini, è panacea ai nostri giovani dissuadendoli dalle vie dei paradisi artificiali?

Tutto quanto detto è in linea a con l'articolo 6 della DUDDA dove si afferma; "All'autore dell'opera è riconosciuto il diritto morale d'autore e il mero possesso a nome altrui (detentio) delle forme artistiche, con un ridotto diritto di sfruttamento commerciale, senza che chicchessia possa vantare alcuna proprietà assoluta sul prodotto artistico". Ergo l'autore ha solo diritti provvisori e limitati. Se egli si allea con partners produttori-distributori tradizionali, potrà operare lo sfruttamento della sua opera al di sopra del costo zero ma per mera concessione graziosa dell'Umanità. Egli dovrà, comunque, concedere che chiunque non abbia la somma necessaria per acquistare il prodotto o, pur avendola non voglia spenderla(per lo meno in vista della massa di prodotti da acquisire), l'acquisisca in via informatica, digitalizzata etc..

Concludendo è evidente che, a fronte dello scontro titanico oggi in atto tra il cyberspazio e l'ulespazio[9], i movimenti per la libertà e l'uguaglianza reali dell'uomo passano attraverso la fratellanza internettiana che abbatterà la tirannia attuale dei produttori-distributori impregnati di old economy. Questa comunità è stata annunciata nella sentenza anticopyright che sottende un nuovo principio metacostituzionale: il prevalere del Sapere sull'Economia. Ed oggi il Sapere dei Saperi è Internet. Solo attraverso il cyberspazio iperaperto - che è comunicazione galattica - è possibile compiere quel grande salto di qualità che permetterà di realizzare in concreto, e non a chiacchiere costituzionalizzate, i principi della Rivoluzione Francese per realizzare l'Utopia dell'Uomo Libero, Eguale e soprattutto Fraterno.

Di fronte a queste evidenze i decreti alla Urbani sono solo sassi che saranno travolti dall'Oceano di Internet. I più grandi megastore del mondo oggi non possono rivaleggiare con la ricchezza del catalogo disponibile sui sistemi di file sharing. E la gente lo vuole quel catalogo universale perché così si arricchisce dentro. E lo manterrà quel catalogo malgrado le leggi pro copyright che sono contro il popolo, contro il mondo assetato
d'arte, di sapere e di cultura. Il fatto stesso che si sia parlato di "repressione simbolica" da parte del legislatore nel caso del decreto Urbani dimostra non tanto un pudore interno quanto la sotterranea consapevolezza di combattere una battaglia perduta.

Quel decreto o altri cento decreti emessi nel mondo in quella linea inutilmente repressiva non riusciranno ad arrestare il popolo d'Internet, emblema della popolazione mondiale soggiogata da una legge sul copyright che non risponde ai tempi e che non vuole più.

Nessun decreto è concepibile che riesca a metterci tutti dentro; men che mai che qualcuno vada dentro com'è capitato recentemente - horribile dictum - in Grecia per un compratore per strada di cd contraffatto; nessun decreto riuscirà a fermare la nostra voglia di sapere e di cultura per il bene stesso dell'Umanità.

Gli argini molochiani innalzati contro la dissoluzione del copyright non crolleranno: sono già crollati!

Per Ulteriori Approfondimenti si veda il sito
www.antiarte.it 

1)G. FRANCIONE, DECALOGO DAL MANIFESTO "IPERTRANSAVANGUARDIA DEL MEDIOEVO ATOMICO"(POI
ANTIARTE 2000)pubbl. sulla rivista Dismisura(Anno XXV, n° 115-117 gennaio 1997), p. 108.
2)DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'ARTE(DUDDA) firmata al Museo del Cinema di
Roma Via Portuense 101 l'11 novembre 2002

NOTE:

[1] La sentenza riporta la situazione al 2001. Napster è tramontato ma poi sono apparsi i
suoi cloni.
[2]Vedi allegato A).
[3]Vedi Joost Smiers, La proprietà intellettuale è un furto, artic. pubbl. su
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2001/0109lm28.01.html.
Smiers è direttore del centro di ricerche e professore ordinario all'Università delle arti, Utrecht (Paesi Bassi). In particolare è autore di Etat des lieux de la création en Europe. Le tissu culturel déchiré, L'Harmattan, Parigi, 1999.
[4]Nel saggio di G. Francione, Hacker, i Robin Hood del Cyberspazio, Lupetti, Milano 2004, si avanza l'ipotesi di una "legittima difesa economica". Vedi anche la rivista Tutto da capo, Lupetti, maggio 2004.
[5]Per una lettura integrale della sentenza vedi
http://www.antiarte.it/eugius/sentenza_anticopyright.htm
[6]Vedi New economy in http://mediamente.rai.it/biblioteca.
[7]Un esempio della nuova produzione anticopyright è offerto dal sito animalista Nuova Etica, diretto da Massimo Tettamanti(dottore in chimica) e Marina Berati (ingegnere elettronico). Nuova Etica si propone di distribuire gratuitamente, romanzi, saggi, poesie e materiale informativo sugli animali creando libri e opuscoli. Ognuno può scaricare dal sito la versione elettronica delle pubblicazioni, in formato PDF, e farne l'uso che vuole. In una seconda procedura è anche disponibile la versione stampata e rilegata, nel normale formato dei libri da libreria. In questo caso i gestori chiedono solo la copertura delle spese di stampa e spedizione, senza alcun sovrapprezzo, perché la distribuzione resta sempre e comunque gratuita. Vedi http://www.nuovaetica.org/ 
[8] In Spagna Zapatero ha tagliato l'Iva su libri e cd(notizia del 30 aprile 2004). L’industria discografica ha espresso soddisfazione per le misure annunciate dal nuovo governo. «Un buon inizio», hanno commentato, anche perché l’Iva drasticamente ridotta
permetterà di porre un limite al «trattamento discriminatorio» nei confronti dei dischi rispetto a libri. "Non si capiva perché per i dischi il compratore dovesse pagare il 16% di Iva e per libri soltanto il 4%".
[9]Termine di neo conio dello scrivente indicante lo spazio materiale(dal graco ulè, materia). 
 
Gennaro Francione 
 www.antiarte.it   
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NOTE INEDITE SU COPYRIGHT E COPYLEFT (2005) di WU MING

1. I due corni del falso dilemma
2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia


1. I due corni del falso dilemma

Partiamo dalla fine: il copyleft si basa sulla necessità di coniugare due esigenze  primarie, diremmo due condizioni irrinunciabili del convivere civile. Se smettiamo di lottare perché si soddisfino questi bisogni, smettiamo di auspicarci che il mondo migliori.
Non vi è dubbio che la cultura e i saperi debbano circolare il più liberamente possibile e l'accesso alle idee dev'essere facile e paritario, senza discriminazioni di censo, classe, nazionalità etc. Le "opere dell'ingegno" non sono soltanto prodotte dall'ingegno, devono a loro volta produrne, disseminare idee e concetti, concimare le menti, far nascere nuove piante del pensiero e dell'immaginazione. Questo è il primo caposaldo.
Il secondo è che il lavoro deve essere retribuito, compreso il lavoro dell'artista o del narratore. Chiunque ha il diritto di poter fare dell'arte e della narrazione il proprio mestiere, e ha il diritto di trarne sostentamento in un modo non lesivo della propria dignità. Ovviamente, siamo sempre nel campo delle condizioni auspicabili. E' un atteggiamento conservatore pensare a queste due esigenze come ai corni di un dilemma insolubile. "La coperta è corta", dicono i difensori del copyright come lo abbiamo conosciuto. Libertà di copia, per costoro, può significare solo "pirateria", "furto", "plagio", e tanti saluti alla remunerazione dell'autore. Più l'opera circola gratis, meno copie vende, più soldi perde l'autore. Bizzarro sillogismo, a guardarlo da vicino.

La sequenza più logica sarebbe: l'opera circola gratis, il gradimento si trasforma in passaparola, ne traggono beneficio la celebrità e la reputazione dell'autore, quindi aumenta il suo spazio di manovra all'interno dell'industria culturale e non solo. E' un circolo virtuoso.
Un autore rinomato viene chiamato più spesso per presentazioni (a rimborso spese) e conferenze (pagate); viene interpellato dai media (gratis ma è tutto grasso che cola); gli si propongono docenze (pagate), consulenze (pagate), corsi di scrittura creativa (pagati); ha la possibilità di dettare agli editori condizioni più vantaggiose. Come può tutto questo... danneggiare le vendite dei suoi libri?
Parliamo ora del musicista/compositore: la musica circola, piace, intriga, intrattiene; chi l'ha scritta o chi la esegue ne ha un "ritorno d'immagine", e se sa come approfittarne viene chiamato a esibirsi più spesso e in più occasioni (pagato), ha la possibilità di incontrare più persone e quindi più committenti, se "si fa un nome" gli si propongono colonne sonore di film (pagate), serate come DJ (pagate), "sonorizzazioni" (pagate) di eventi, feste, mostre, sfilate; può addirittura trovarsi a dirigere (pagato) un festival, una rassegna annuale, cose del genere; se parliamo di artisti pop, mettiamoci anche i proventi del merchandising, come le T-shirt vendute via web o ai concerti... Ecco il "dilemma" risolto nei fatti: si sono rispettate le esigenze dei lettori (che hanno avuto accesso a un'opera), degli autori/compositori (che ne hanno avuto ritorni e tornaconti) e di tutto l'indotto della cultura (editori, promoter, istituzioni etc.). Cos'è successo? Perché il sillogismo è franato in modo tanto repentino sotto i colpi degli
esempi? Perché tale sillogismo non mette in conto la complessità e la ricchezza delle reti e degli scambi, il passaparola incessante da un medium all'altro senza soluzione di continuità, le possibilità di diversificazione dell'offerta, il fatto che il "ritorno economico" per l'autore può percorrere diversi tragitti, alcuni (apparentemente) tortuosi.

E' a causa di questa incapacità di figurarsi la complessità che l'industria culturale (soprattutto quella discografica) ha perso i primi cinquanta treni dell'innovazione telematica, vivendo le nuove opportunità tecnologiche come minacce anziché come sfide, reagendo in modo scomposto a Napster e a tutto quello che è seguito. Cominciano a muoversi adesso, a cavalcare la tigre dopo che Steve Jobs ha dimostrato che si può fare, ma nel frattempo sono andati allo scontro con eserciti di potenziali clienti, la cui fiducia è persa per sempre. Anti-marketing.
Qual è l'ultima cosa che dovrebbe fare uno che produce e vende musica? Sicuramente criminalizzare chi li ascolta, trascinare in tribunale chi la ama etc. Ne valeva la pena? Secondo noi no. Il "diritto d'autore" (attenzione, però, a non prendere sul serio quest'espressione semi-truffaldina!) come lo abbiamo conosciuto è ormai un freno al mercato. Al contrario, il copyleft (che non è un movimento né una "ideologia", è semplicemente il
vocabolo-ombrello per una serie di pratiche, istanze e licenze commerciali) incarna tutte le esigenze di riforma e adeguamento delle leggi sul copyright, in direzione di uno "sviluppo sostenibile". La "pirateria" è endemica, è irreprimibile, è marea montante portata dal vento dell'innovazione tecnologica. Certo, i potentati dell'industria dell'intrattenimento possono continuare a far finta di niente, come la Casa Bianca ha fatto finta che non ci fossero effetto-serra, riscaldamento globale e sconvolgimenti climatici in corso. In entrambi i casi, chi nega la realtà verrà travolto. Ostìnati a non ratificare il Protocollo di Kyoto, ostìnati a non investire su fonti energetiche rinnovabili e alternative al petrolio, ostìnati a non voler risolvere i
problemi ambientali, e prima o poi t'arriva tra capo e collo l'uragano Katrina (e ce n'est qu'un debut!).

2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista

Torniamo all'ABC, mettendo in fila fatti noti e più volte ricordati. La storia del copyright comincia in Inghilterra nel XVI° secolo. La diffusione della stampa, la possibilità di distribuire tante copie di uno scritto, galvanizza chiunque abbia qualcosa da dire, soprattutto di politico. C'è un boom di pamphlet e giornali. La Corona teme la diffusione di idee sovversive e decide di affidare a qualcuno il controllo di quel che si stampa.
Nel 1556 nasce l'ordine degli Stationers [editori-tipografi-librai], casta professionale a cui viene concesso in esclusiva il "diritto di copia" [copy right], e quindi ha il monopolio delle tecnologie di stampa. Chiunque voglia stampare qualcosa deve passare al loro vaglio. Fino a quel momento era diverso, chiunque poteva farsi stampare copie di un'opera letteraria o teatrale, l'autore non si preoccupava perché non deteneva i diritti (che non esistevano), la cosa importante era che le opere circolassero e aumentassero la fama dell'autore, che in quel modo avrebbe intercettato i desideri di più committenti (mecenati privati, enti culturali di vario genere come teatri etc.) Da lì in poi, invece, un'opera potrà andare in stampa solo se otterrà il visto (in pratica, il placet della censura di stato) e sarà segnata sul registro ufficiale - attenzione a questo dettaglio! - a nome di uno stationer. Quest'ultimo diverrà il proprietario dell'opera nell'interesse dello stato. Tutta la mitologia "liberista" sul copyright come diritto naturale, che nasce spontaneamente grazie alla crescita e alle dinamiche del mercato... sono tutte fandonie! L'origine remota del copyright sta nella censura preventiva e nella necessità di restringere l'accesso ai mezzi di produzione della cultura (leggi: restringere la circolazione delle idee).
Trascorre un secolo e mezzo e in questo periodo l'autorità della Corona subisce attacchi inauditi: la ribellione scozzese del 1638, la "Grande Rimostranza" parlamentare del 1641, lo scoppio della guerra civile nell'anno successivo, la rivoluzione di Cromwell con tanto di decapitazione del re... Alla fine degli anni cinquanta del XVII° secolo nel Paese torna la monarchia, ma la situazione rimane instabile e finalmente il Parlamento riesce a imporre alla Corona una Dichiarazione dei diritti. Da quel momento, la monarchia inglese sarà una "monarchia costituzionale".
Era necessario elencare questi eventi per far capire quanto si modifichi, in centocinquant'anni, l'atteggiamento nei confronti del sovrano, quindi anche della censura preventiva, e di conseguenza anche del potere degli stationers. Nei confronti di questi ultimi c'è sempre più insofferenza, così si decide di abolire il monopolio sul diritto di stampa.
Gli stationers verrebbero colpiti dove fa più male, cioè nel portafogli, quindi reagiscono con rabbia. Iniziano a fare pressioni perché l'imminente nuova legge riconosca i loro legittimi interessi e si volga comunque a loro vantaggio. Ecco la nuova argomentazione: il copyright appartiene all'autore; l'autore, però, non possiede macchine tipografiche; tali macchine le possiede lo stationer; ergo: l'autore deve comunque passare attraverso lo stationer. Come regolare tale "passaggio"? Semplice semplice: l'autore, nel proprio interesse a che l'opera venga stampata, cederà il copyright allo stationer per un periodo da stabilirsi.
Alla foce, la situazione resta più o meno invariata. A cambiare è la sorgente, il presupposto giuridico. La giustificazione ideologica non si basa più sulla censura, ma sulle necessità del mercato. Tutte le conseguenti mitologie sul diritto d'autore derivano dallo stratagemma argomentativo della lobby degli stationers: l'autore è di fatto costretto a cedere i diritti, ma è costretto... per il proprio bene.
I contraccolpi psicologici saranno devastanti, si arriverà a una variante della "Sindrome di Stoccolma" (l'amore del sequestrato per il proprio rapitore), autori che si mobilitano in difesa di uno statu quo che si fonda sul loro stare ai piedi del tavolo in attesa degli avanzi e di una carezza sulla testa, pat! pat! wuf! La legge è il celebre "Statute of Anne" - capostipite di tutte le leggi e gli accordi internazionali sul diritto d'autore, fino alla Convenzione di Berna del 1971, al Digital Millennium Copyright Act, al Decreto Urbani et cetera - ed entra in vigore nel 1710. E' la prima definizione legale del copyright come si è continuato a intenderlo fino a oggi, o meglio, fino a stamattina, perché dopo mezzogiorno qualcuno ha cominciato ad avere dei dubbi.
I dubbi derivano dal fatto che oggi la "copia" è possibile a molte più persone, forse a quasi tutti.
Buona parte di noi ha in casa gli eredi domestici delle tecnologie di cui gli stationers avevano il monopolio. Per fare la copia di un'opera non è più necessario passare attraverso un ordine professionale. Gli eredi degli stationers vengono scalzati dalla rivoluzione microelettronica iniziata negli anni Settanta, dall'avvento del digitale, dalla "democratizzazione" dell'accesso al computing. Prima la fotocopiatrice e l'audiocassetta, poi il videoregistratore e il campionatore, poi il masterizzatore cd e il peer-to-peer, infine le memorie portatili tipo i-Pod... Come si può pensare che sia ancora valida la giustificazione ideologica del copyright, quella che diede forma allo Statute of Anne?
E' chiaro che va tutto rivisto, questo processo cambia faccia, cervello e cuore dell'intera industria culturale! Occorrono nuove definizioni dei diritti di chi crea, di chi produce, di chi mette a disposizione. Se una "opera dell'ingegno" può giungere al pubblico senza la mediazione di un editore, di
un discografico, di produttori televisivi o cinematografici, sono questi ultimi a dover interrogarsi su come proseguire, a dover inventarsi qualcosa, a dover ridefinire il proprio ruolo imprenditoriale e la propria ragione sociale. Cercare di mantenere con la minaccia della galera un monopolio che non ha più basi significa imbucarsi in un vicolo cieco, è un comportamento da Ancien Régime, da autocrazia zarista. Per fortuna qualcuno
comincia a rendersene conto.

3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia

Google Print, Creative Commons, copyleft etc. sono progetti e concetti diversi, ma in realtà vanno tutti nella stessa direzione, come vanno nella stessa direzione biblioteche e librerie. Nelle prime si accede al libro gratuitamente, nelle seconda lo si acquista, ma non c'è scontro tra le due opzioni: i paesi dove si vendono più libri sono anche quelli in cui più si frequentano le biblioteche. E' normale: più il libro circola, più lo si legge,
più ritorno positivo c'è per l'editoria. Il download libero e gratuito di un testo e la sua "navigabilità" in stile Google Print hanno una finalità comune e ambiscono allo stesso risultato: entrambi vogliono rendere i prodotti culturali accessibili on line, e questo può favorire la vendita di libri.
La parola-chiave è proprio "biblioteche". si parla di una lunga tradizione di gratuità dell'accesso, soltanto di recente messa in discussione (e la battaglia è ancora in corso).
Che si parli di biblioteche di mattoni o biblioteche di elettroni, sempre biblioteche sono. Se invece il download è a pagamento, allora si tratta di librerie, su per giù come quelle che siamo abituati a conoscere, non è difficile immaginare la modalità di prelievo del diritto d'autore, è una cosa piuttosto semplice. Detto questo: Seth Godin, uno dei più grandi filosofi del marketing, dice che se un e-book a pagamento viene comprato da tot persone, lo stesso e-book, reso gratuito, verrà scaricato da tot moltiplicato per quaranta. L'informazione utile si ottiene invertendo il dato: su quaranta persone che scaricano un e-book gratis, ce n'è una disposta a comprarlo. La somma di quegli "uno su quaranta" corrisponde allo "zoccolo duro" dei lettori, quelli che comprano per primi, che fanno partire il passaparola. Sono i connettori, gli "evangelisti", i buzzers. Ogni mossa va fatta avendo in testa questo insieme di persone. Godin, poi, fa così: le nuove uscite (elettroniche e cartacee) sono a pagamento. Poco prima di una nuova pubblicazione, mette scaricabile gratis quella precedente. E' una strategia di lancio formidabile. Gli editori che si oppongono a Google Print sono come quegli studios cinematografici che, venticinque anni fa, denunciarono i produttori di videoregistratori e videocassette,
dicendo che la registrazione domestica violava il copyright. Il famoso caso "Universal contro Betamax".
La Universal arrivò fino alla Corte Suprema e perse... per fortuna sua. Negli anni a seguire, l'industria cinematografica ha realizzato la maggior parte dei suoi profitti non nelle sale ma grazie all'home video. E' sopravvissuta alla crisi delle sale grazie al VHS e poi al DVD. Se Universal e compagnia avessero vinto, a quest'ora sarebbero morti e sepolti. Ma hanno perso, e quindi si sono salvati.
Si potrebbe citare anche l'assurda battaglia dei discografici contro l'introduzione sul mercato delle musicassette, negli anni '70, preludio alla guerra senza quartiere contro il download, quando (iTunes lo ha dimostrato) bastava fornire agli utenti un canale di accesso legale a questa risorsa.
Anche questa degli editori è una battaglia suicida contro un'innovazione potenzialmente vantaggiosa. Per il loro bene, gli editori devono perdere. Vincendo, si assesterebbero una formidabile martellata nei cosiddetti.

(stralci di corrispondenza privata e risposte a interviste inedite in italiano. da carmillaonline.com del 6 Novembre 2005)
http://www.wumingfoundation.com  
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EDITORI A TITOLO DIVERSO

Giorgio Assumma, presidente della Siae, ha scritto sul Sole24ore dell’8 febbraio scorso che Kant “sentiva già l’esigenza di un diritto d’autore nei confronti del proprio editore”.
È vero, ma non avrebbe mai considerato i propri studenti, che si fossero passati gratuitamente gli appunti delle sue lezioni, alla stregua di “editori” da perseguire civilmente.
Nessuno mette in dubbio che un autore debba tutelarsi nei confronti di editori che si appropriano del suo ingegno creativo e intellettuale, senza riconoscergli alcunché.
Ma non saper distinguere tra un editore senza scrupoli, che fa del business la propria ragione di vita, e un editore amatoriale, che da semplice webmaster di un sito didattico-culturale, pubblica gratuitamente in rete ipertesti multimediali, è grave.
Il web non è solo un “mercato” e i webmaster non sono tutti “editori” paragonabili a quelli del mondo cartaceo, filmico o musicale. Non ha senso trasporre meccanicamente in rete una situazione tipica della società reale.
L’averlo fatto – come nel caso del mio sito homolaicus.com- lascia pensare che si voglia in realtà “colpire” il web non commerciale, cercando di estorcergli quanto più possibile.
Se la Siae sta perdendo introiti dalla pirateria informatica, non può prendersela con chi dalla rete, mettendo in chiaro ipertesti culturali, ricava solo immagine, visibilità, ma nulla di commerciale.
Considerare poi le immagini usate in rete, in quel formato jpeg che è quanto di più precario si possa pensare ai fini della riproduzione fedele di un originale, attesta eloquentemente in quali difficoltà interpretative oggi si muova la dirigenza Siae.

A che titolo la Siae è in grado di dire che un docente, un operatore culturale, un webmaster viola, con le proprie realizzazioni ipertestuali o multimediali, la dignità morale di un artista?
Chi sono i critici d’arte che lavorano per la Siae e che possono sostenere che un ipertesto del genere (sottratto dal luogo originario e collocato qui provvisoriamente): www.homolaicus.it/picasso/ è un’opera volgare, triviale, offensiva del grande cubista?
Eppure la raccomandata che l’Ufficio Arti Figurative mi ha spedito parla chiaro.
E se quest’opera non lede la dignità morale dell’artista, ma anzi la esalta, mettendone in rilievo la forza creativa, l’ingegno intellettuale, a che titolo la Siae sostiene ch’essa viola i diritti patrimoniali dell’artista e dei suoi eredi?
Chiunque è in grado di capire che quando si apprezza il lato morale e intellettuale di un artista e soprattutto il suo genio creativo, s’incrementa, indirettamente, anche il valore economico delle sue opere.
Quanto maggiori e importanti sono gli ipertesti didattici e culturali che esaminano determinate opere, tanto maggiori saranno le loro quotazioni in aste, gallerie, cataloghi, mostre, musei…
Dunque perché prendersela con chi dà lustro, in tutto il mondo, al web artistico? Perché attaccare chi fa a titolo gratuito un’operazione del genere, che in definitiva favorisce i diritti non solo degli artisti e dei loro eredi ma persino quelli della Siae.
Dove sono gli eredi di Picasso, di Kandinsky, di Klee e dei Futuristi italiani che desiderano “penalizzare” chi mette in risalto il genio estetico, creativo dell’umanità.
Comportandosi così, la Siae procura un danno incalcolabile alla libera fruizione della cultura, mortifica il valore artistico del nostro paese e del mondo intero (“web” infatti vuol dire “pianeta”), danneggia persino gli interessi degli eredi.
Quando arrivano certe “raccomandate” la coscienza impone a noi docenti il dovere morale e civile di non considerarle una mera “questione personale”.

Attaccando un singolo docente si minaccia tutta la categoria, si scuote il web nazionale dalle fondamenta, essendo stati infatti i docenti i primi a crearlo e a svilupparlo.
È da un decennio che siamo in rete e una cosa così grave non s’era mai vista.
Chiediamo dunque ai dirigenti Siae di ritornare sui loro passi, di dare il tempo ai docenti di controllare il loro enorme patrimonio digitale, conformemente alle esigenze di questa Società privata (la moratoria dev’essere almeno di un anno).
Chiediamo altresì al nostro Parlamento di rivedere la legge n. 633/1941 sul diritto d’autore, precisando in maniera inequivocabile la differenza tra sito didattico-culturale senza fine di lucro, e sito commerciale.
Chiederemo infine alla stessa Siae, una volta approvate le modifiche della legge, una liberatoria a titolo gratuito per tutte le nostre opere telematiche che possono contenere oggetti sotto tutela, in modo che nessuno possa rivendicare alcunché.

Quello che si offre a titolo gratuito deve restare patrimonio libero dell’umanità: quindi non solo non va penalizzato, ma va anche difeso.

Enrico Galavotti 
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