E' TRISTE IN RETE
ARRAMPICARSI SUGLI SPECCHI!
E' singolare che la Siae dica, in via preliminare,
che chiunque in rete deve pagare i diritti d'autore agli artisti protetti, a
prescindere dal carattere
lucrativo del proprio sito, e poi, per giustificare i propri "diritti", si
appelli al fatto che anche i siti didattici contengono aspetti commerciali
attraverso i banner.
Questo sta semplicemente a significare che la Siae sa bene d'aver iniziato a
comportarsi in rete in maniera del tutto anomala e che, nel contempo, per
poter applicare al web le stesse regole della vita reale, deve
necessariamente sostenere la presenza di un carattere "lucrativo" nei siti
didattici.
Le affermazioni relative alle pubblicità presenti nel sito homolaicus.com
detonano solo una profonda incomprensione di come funzioni il web. Le uniche
inserzioni che in homolaicus rendono un minimo sono quelle di Google (i cui
contenuti sono contestuali agli argomenti trattati), le altre sono tutte a
scopo gratuito o di scambio banner o di pari reciprocità e visibilità, o
comunque tali da non giustificare affatto alcun carattere commerciale del
sito. E lo posso dimostrare in qualunque maniera.
Si dirà che la Siae non può sapere se da un circuito banner il webmaster
ricava o no qualcosa. Ma a noi docenti quando mai è stato detto che un
semplice circuito banner trasforma, eo ipso, un sito da didattico a
commerciale? La Siae è in rete da un decennio, esattamente come i docenti, e
non s'è mai comportata così nei nostri confronti. Noi siamo funzionari
pubblici, dipendenti di un Ministero, svolgiamo un ruolo socialmente
rilevante, tutelato dalla Costituzione (non è forse anche dalla formazione
che dipende il destino di un paese?). E' da quando è nato il web che agiamo
per il bene della didattica e della cultura e quindi anche dell'arte: fino
adesso ci siamo limitati a citare le fonti e a scambiarci gratuitamente i
materiali.
Chi autorizza la Siae a impedirci dal continuare in questa maniera? Noi
docenti non abbiamo ricevuto disposizioni in merito dal nostro Ministro.
Chiediamo anzi che intervenga con un provvedimento urgente e ci dica come
comportarci. La Siae ha 80.000 artisti da tutelare, ma noi abbiamo milioni
di mega da controllare.
La Siae avrebbe dovuto dare comunicazione in una conferenza stampa che aveva
intenzione di interpretare la legge 633/1941 in maniera restrittiva per il
web didattico e culturale e che, dopo un certo periodo di tempo, si sarebbe
comportata in maniera conseguente. Tutto il detto web si sarebbe certamente
messo in regola: non a caso nelle interrogazioni parlamentari è stata
chiesta una moratoria.
Colpire così proditoriamente i docenti, senza alcun preavviso, mettendoli in
una condizione peggiore di quegli studenti che fanno pirateria informatica e
che facendola privatamente e senza scopo di lucro, non vengono sanzionati, è
stata un'azione a dir poco inqualificabile.
Peraltro nel sito della Siae, per andare a recuperare il file pdf (non
esiste neppure un motore di ricerca interno) degli autori protetti, bisogna
fare i salti mortali. Non hanno neppure pensato di metterlo nella home page.
Grave comunque resta l'affermazione secondo cui tutti i siti che presentano
inserzioni commerciali sono commerciali. Gli ad-sense di Google si trovano
su qualunque sito, ma non per questo ogni sito è dotato di p. iva, è
iscritto al registro delle imprese, tiene una contabilità... Non riuscire a
capire questa cosa è singolare per una Società che dispone del proprio
dominio dal 1997.
Che cos'è che qualifica come "commerciale" un sito? Il fatto di vendere beni
o servizi, materiali o immateriali, il fatto di avere un carrello, di fare
ecommerce o business to business, nonché il fatto di poter fare tutto questo
secondo le regole giuridiche previste dalla legge. Homolaicus non fa e non
potrebbe fare nulla di tutto questo. Tant'è che la stessa Siae è costretta a
dire che nei miei confronti è stata indotta ad applicare "tariffe ridotte,
in considerazione dell'uso culturale". Il che in sostanza vuol dire che per
la Siae tutti i siti, solo per il fatto di utilizzare immagini protette,
diventano siti "commerciali" e che solo in subordine, in ragione dei loro
contenuti culturali, possono beneficiare di sconti.
Di qui l'improprietà dell'esempio addotto per giustificare la riscossione
dei diritti d'autore: "Se pubblico un libro con decine d'immagini tutelate,
il diritto d''autore va corrisposto o no?". Homolaicus non è un editore che
pubblica libri con immagini tutelate. Quando "pubblica" qualcosa non lo fa
come "editore", a meno che per la Siae non valga l'assunto, del tutto
arbitrario, che qualunque webmaster sia ipso facto un editore. Tutti i testi
di Homolaicus sono originali e riproducibili in forma gratuita, oppure sono
stati presi dalla rete in quella forma che gli americani chiamano "as is",
cioè "qua talis", e se a volte vi sono state lacune nella individuazione
della fonte, la cosa s'è sempre risolta amichevolmente coi diretti
interessati.
Non ha poi alcun senso tecnico sostenere che le immagini usate in un sito
web siano una riproduzione fedele dell'originale, quando tutti sanno che il
formato jpeg è quanto di più precario si possa pensare a tale scopo, al
punto che nessun "editore" si sognerebbe mai di utilizzare le immagini di un
ipertesto per farci un libro o un poster o una locandina. Le immagini che ho
usato io sono tutte a bassa risoluzione e inutilizzabili persino per uno
screensaver.
Ma ciò che più mi mortifica come uomo, come insegnante, come operatore
culturale, come amante dell'arte in generale non è tutto questo: è piuttosto
il fatto che si insista nel dire che mettendo nel circuito banner cose non
attinenti all'arte io violo la dignità morale degli artisti.
Su questo vorrei precisare alcune cose per me molto importanti e facilmente
dimostrabili: tutti gli ipertesti rimossi contenevano esclusivamente gli
ad-sense di Google (non mi sarei sognato neanche lontanamente di associare
-come dice il responsabile dell'Uff. Arti Figurative - "gli alberghi della
Riviera romagnola" con "Matisse": frasi di questo e altro genere presenti
nell'intervista non potranno certo cadere nel vuoto). Il circuito banner
appare in tutte le sezioni principali del sito, che è di tipo "generalista".
In secondo luogo l'immagine di Picasso usata nel puzzle non è stata affatto
scomposta o manipolata: le tessere che si vedono sono semplicemente un
effetto ottico dell'applicativo in java. E in ogni caso anche se l'avessi
scomposta non può certo essere la Siae, che è società privata commerciale, a
dire che quel puzzle viola la dignità morale di Picasso. Dov'è quel critico
d'arte che direbbe la stessa cosa?
In terzo luogo voglio dire che un docente dovrebbe sentirsi libero di
apporre cerchi quadrati linee su un dipinto per poterlo meglio interpretare.
Se tale azione didattica fosse del tutto immorale, andrebbe considerata tale
anche dopo aver pagato i diritti patrimoniali e non la si dovrebbe neppure
vedere nei manuali scolastici.
In quarto luogo debbo dire che la Siae non può chiedere ai docenti di
disinteressarsi dell'arte degli ultimi 70 anni o di farci pagare i diritti
sopra, come se dall'affronto critico di quell'arte essi dovessero ricavarci
chissà quali interessi personali. In realtà il nostro lavoro è quello di
esaltare il genio creativo degli artisti e quindi, indirettamente,
inevitabilmente, di incrementare, a titolo gratuito, i loro diritti
patrimoniali e dei loro eredi. Lo sanno gli eredi di Picasso, Kandinsky,
Klee, Matisse, Marinetti, Balla, Severini, Braque, Cangiullo, Carrà che,
obbligandomi a rimuovere 70 mega di materiali dedicati a loro, la Siae ha
danneggiato gravemente i loro interessi? Davvero questi eredi avrebbero
preferito che avessi messo tutto in un'area riservata? E per quale ragione
un giornalista che avesse fatto la stessa cosa non avrebbe pagato nulla alla
Siae, in virtù del suo diritto di cronaca?
14-02-2007 inviato a Punto Informatico in risposta all'intervista al
responsabile dell'uff. Arti figurative della Siae
Enrico Galavotti
Indice
Forum
NEL MONDO LA TECNOLOGIA AVANZA IN ITALIA SI DEVE PAGARE LA SIAE
La Siae vorrebbe far pagare sempre. Nel mondo della
scuola ad ogni esecuzione musicale di fine anno (festa per i genitori), i
presidi devono pagare la Siae. Se fate un matrimonio o un compleanno, anche
se vi sono pochi invitati, e fate della musica attraverso un karaoke o un Dj,
dovreste pagare la Siae e non poco, circa 150 Euro. Persino sulla musica
fatta in chiesa c'è da pagare la Siae. Mi ha detto un collega che per una
festicciola in un ospizio di Cesena ove è ricoverata sua suocera, la
dirigenza ha pagato la Siae. Ma per la musica questa è una prassi
consolidata, da rivedere, ma si sa che è così da tempo. Ora però la Siae
vorrebbe applicare gli stessi principi alle immagini presenti in internet di
autori protetti, ovvero iscritti alla sua associazione. Solo che il discorso
qui è diverso: Internet infatti è un mezzo globale e se io devo pagare dei
diritti per delle fotografie del c..zo che non mi generano alcun profitto,
ovviamente le tolgo e al loro posto metto dei links su Google Images che
consentono comunque al visitatore di vedere le immagini in questione e al
tempo stesso non mi creano alcun problema di copyright. Risultato la Siae
non percepirà alcun compenso, perché queste immagini risiedono in paesi come
gli Stati Uniti per esempio dove esiste il Fair Use, strumento legislativo
che permette di pubblicare
materiali sotto copyright senza autorizzazione, purchè vi siano fini e intenti
educativi, il principio del fair use, infatti, rende i lavori
protetti dal diritto d'autore disponibili al pubblico come materiale grezzo
senza la necessità di autorizzazione, a condizione che tale libero utilizzo
soddisfi le finalità della legge sul diritto d'autore, che la Costituzione
degli Stati Uniti d'America definisce come promozione "del progresso della
scienza e delle arti utili". Morale della favola, il traffico verrà
dirottato sui siti degli altri paesi. In Italia invece continuerà a
governare sovrana la stupidità e la rigidità del nostro sistema che bloccano
la creatività e la crescita delle nostre pagine culturali e quindi al tempo
stesso inibiscono la promozione del nostro territorio, del nostro genio,
delle nostre imprese e allontanano i navigatori stranieri e locali dalla
nostra realtà, inutile dire dunque che la cosa costituisce un gravissimo
danno per tutto il paese. Così mentre in America accanto all'ormai famosissimo Google Map,
nasce anche Google Patents che
mette in linea tutti i brevetti, e ancora Google Print, che poi
è diventato Google Book Search il
motore di ricerca che indicizza testi digitalizzati, sia coperti da
copyright, sia di libero dominio, e che promette di creare una piattaforma
che sarà per l'editoria digitale ciò che Itunes è ora per la musica e presto
offrirà e-books interi a pagamento, in Italia si continua a perdere tempo,
energia e soldi su delle mostruose stupidaggini, come ad esempio quella che
vede impegnata una mastodontica e anacronistica struttura come la Siae (commissariata
per quattro anni) nel cercar di raccimolare due soldi ai danni di
insegnanti, intellettuali e operatori del mondo no-profit e a scapito della
sensibilità artistica, estetica ed etica della nostra realtà.
Quindi senza far riferimento ai
pietosi dati delle statistiche sull'utilizzo di Internet e della banda larga
in Italia, dobbiamo rilevare che procedendo in questa direzione la nostra
povera Italia risulterà sempre più abitata da un popolo tecnologicamente,
scientificamente, culturalmente e artisticamente analfabeta, stupido,
violento, incolto, ignorante, insensibile, cafone, infelice, chiuso,
introverso, e che alla fine non riuscirà più a rimanere al passo delle
nazioni più libere e più civilizzate e sarà quindi sempre più costretto a
vivere in un paese squallido, triste, cupo, misero, ingiusto, ridicolo ed
ignobile. P.S. Nel
Forum di Punto Informatico ho trovato queste simpatiche riflessioni di un
anonimo navigatore che riporto di seguito: "Quando sono sotto la doccia canto a squarciagola
le canzoni di Elio e le Storie Tese. Mi sente tutto il palazzo. Ne traggo
profitto, perche' mi sento meglio e quindi ci guadagno in salute. Devo
pagare la SIAE?
Quando sono per strada o quando prendo la metro, fischietto motivetti di
brani musicali. Mi sentono tutti quelli che incontro. Ne traggo profitto,
perche' mi sento meglio e quindi ci guadagno in salute. In piu' metto
allegria a quelli che mi incontrano. Devo pagare la SIAE?
Nel mentre digitavo questo messaggio mi sono
accorto di battere sui tasti riproducendo il ritmo di "Macarena". La cosa mi
ha divertito, quindi ne ho tratto, ancora una volta, profitto. Devo pagare
la SIAE?
E vabbe'. Ma se mando affanculo la SIAE a ritmo di Samba, traendone il
dovuto profitto morale (quando ce vo', ce vo'), devo pagare la SIAE?
Carl William Brown
Indice
Forum
Against Intellectual Monopoly
Michele Boldrin and David K. Levine
LA SFIDA DEGLI
ANTIBREVETTO "COPIARE È UN DIRITTO"
La Open-Cola sfida Coca e Pepsi, rivela la propria ricetta di produzione e
dice: copiatemi. Linux, il programma di software gratuito, in pochi anni è
diventato il primo rivale del Windows di Microsoft. Ora c'è Wikipedia,
l'enciclopedia online che tutti possono copiare e integrare aggiungendo
nuove definizioni. E il popolo dei teen-agers continua imperterrito a
copiare musica gratis da Internet e si rifiuta di pagare le case
discografiche.
La rivolta contro la proprietà privata delle opere dell'ingegno invade nuovi
territori. Abbasso il copyright, viva il copyleft, è lo slogan di un
movimento anticapitalista che nasce nel cuore del sistema. Tra right e left
il gioco di parole allude a destra e sinistra, ma non solo: contrappone il
diritto d'autore remunerato e la "copia lasciata" a disposizione di tutti,
la libertà di copiare. Open-Cola è il primo caso di un prodotto di consumo
che nasce con "formula aperta", nel senso che il produttore regala sul suo
sito Internet le istruzioni per fabbricarlo, ed è aperto a ogni suggerimento
per migliorarlo.
Il modello è copiato dal mondo dell'informatica, dove fin dalle origini una
corrente libertaria e anticapitalista cercò di impedire l'appropriazione
privata delle innovazioni a fini di profitto. Nel lontano 1975 - agli albori
del personal computer - nella Silicon Valley californiana nasceva il celebre
Homebrew Club, un'associazione di giovani ricercatori appassionati di nuove
tecnologie, ostili agli interessi della grande industria, e pronti a tutto
pur di impedire che l'establishment si impadronisse delle loro scoperte. Lì
nacque il termine hacker, che all'origine non designava i cyberpirati bensì
i giovani scienziati animati da ideali antiautoritari e dal sogno di
promuovere la massima diffusione sociale delle nuove tecnologie.
Nel 1984 l'informatico Richard Stallman del Mit lanciò la Free Software
Foundation e il movimento dell'open source - "sorgente aperta" - per
promuovere la divulgazione gratuita dei codici-sorgente che custodiscono i
segreti di funzionamento dei programmi di software. L'etica hacker ha
trovato poi un alleato insperato e prezioso nella logica dell'efficienza.
Via via che il computer diventava uno strumento di massa, e l'industria del
software (Microsoft in testa) sfornava a getto continuo nuovi programmi,
molti informatici si sono persuasi che la formula del software aperto si
presta meglio a veloci correzioni e perfezionamenti. Il segreto industriale
che circonda i sistemi Windows, per esempio, fa sì che solo i tecnici della
Microsoft possono correggere i difetti che regolarmente accompagnano le
prime versioni.
Se invece tutti possono partecipare attivamente al miglioramento del
prodotto, lo sforzo corale dei consumatori motivati può dare risultati
eccellenti. All'inizio degli anni Novanta lo studente finlandese Linus
Torvalds lanciò il più celebre sistema operativo open source, "sorgente
aperta". Il suo Linux è disponibile gratis su Internet, è una valida
alternativa a Windows (lo usano già 18 milioni di computer in tutto il mondo
ed è consigliato nientemeno che dalla Ibm), potete modificarlo, copiarlo,
regalarlo ad altri senza pagare un centesimo. In cambio della gratuità gli
utenti sono invitati a segnalare errori e a migliorarlo. Un gruppo di
esperti seleziona le proposte valide, e così Linux è in costante progresso
grazie al volontariato di milioni di appassionati informatici. Chi introduce
una modifica di successo viene anche premiato con riconoscimenti accademici,
tale è il prestigio di Linux negli ambienti universitari americani.
Sulla scia di Linux il movimento copyleft si trasforma in valanga. Ora ha
anche una legge che lo tutela, la General Public License: quando un prodotto
nasce con il marchio copyleft, può essere copiato cambiato e distribuito da
chiunque, ma sempre con l'obbligo della gratuità. Nessuno può fare il furbo,
brevettarlo e impadronirsene a fini di profitto. La popolarità del copyleft
si salda con vari fenomeni di rigetto del copyright. C'è stato il celebre
caso Napster, il sito che ha permesso a milioni di adolescenti di
"scaricare" da Internet canzoni e brani musicali senza pagare un centesimo
di diritti d'autore. Condannato un anno fa dal tribunale di San Francisco,
Napster ha generato però dozzine di cloni, altri siti che continuano a
sfuggire alla caccia delle case discografiche. Crollano le vendite dei cd, e
un'intera generazione di teen-agers ormai dà per scontato che la musica non
si paga.
A San Francisco è nata l[b4]Electronic Frontier Foundation per difendere le
libertà civili nell'èra digitale: tra l'altro promuove un modello di
copyleft chiamato Open Audio License, per i musicisti che vogliono offrire
le loro opere gratis su Internet senza finire nelle grinfie dell'industria
discografica. In un campo molto diverso, l'industria farmaceutica è sotto
assedio per l'esosità con cui pretende di estrarre profitti dai suoi
brevetti, vendendo farmaci salvavita (come le cure anti-Aids) a prezzi
inaccessibili per i paesi poveri. Dopo l'11 settembre un colpo inaspettato
alle multinazionali farmaceutiche lo ha sferrato George Bush, che ha piegato
le leggi sui brevetti imponendo alla Bayer di dimezzare il prezzo
dell'antibiotico per l'antrace.
Wikipedia è l'enciclopedia online che permette a chiunque di modificare e
integrare le sue "voci". E' un puro prodotto copyleft, ha già 20.000
articoli e ogni mese si arricchisce di nuovi contributi. "Alla gente piace
l'idea - dice il suo caporedattore Larry Sanger - che la conoscenza possa
essere distribuita e sviluppata liberamente". Ma l'esperimento più
rivoluzionario di copyleft riguarda nientemeno che un processo in tribunale.
Lawrence Lessig, uno dei massimi giuristi dell'università di Stanford, sta
preparando una causa storica contro la legge americana sui diritti
d[b4]autore.
Lo fa per conto di un editore online, la Eldritch Press, che vorrebbe
offrire su Internet libri il cui copyright è scaduto, ma è penalizzata dalla
nuova legge Usa che ha esteso la durata del copyright da 50 a 70 anni dopo
la morte dell'autore. Il giurista Lessig ha lanciato un appello a tutti gli
studenti di diritto delle università americane, da Stanford a Harvard,
perché contribuiscano a definire assieme a lui gli argomenti legali per
contestare la legge sul diritto d'autore. E' nato così il primo caso di
Open-Law: gli argomenti legali sono a disposizione anche di altre
associazioni di cittadini che si mobilitano contro il copyright. "In un
mondo in cui cresce l'opposizione al potere delle grandi aziende, ai diritti
restrittivi sulla proprietà intellettuale e alla globalizzazione, l'open
source emerge come una possibile alternativa, un mezzo per contrattaccare"
ha scritto Graham Lawton sul New Scientist.
Con il copy-left anche il movimento no-global può scoprire di avere un'altra
freccia al suo arco: proprio in America, nel centro del capitalismo
mondiale, la legge consente di vietare la proprietà privata.
(Dalla Repubblica Articolo reperito in rete)
Indice Forum
Against Intellectual Monopoly
Michele Boldrin and David K. Levine
PER L'ABOLIZIONE DEI DIRITTI
D'AUTORE
La proprietà intellettuale è un furto!
È legittimo che gli artisti ricevano una giusta remunerazione dal loro
lavoro. I diritti d'autore sembrano rappresentare una delle loro più
importanti fonti di reddito. Purtroppo stanno diventando uno dei prodotti
più commerciali del XXI secolo. Il sistema non sembra più capace di
proteggere gli interessi della maggioranza di musicisti, compositori,
attori, ballerini, scrittori, designer, pittori o registi... Una
constatazione che spinge ad aprire un dibattito sulle strade da ricercare
per assicurare agli artisti i mezzi per vivere del loro lavoro e garantire
alle creazioni il meritato rispetto.
I grandi gruppi culturali e d'informazione
coprono il mondo intero con satelliti e cavi. Ma possedere tutti i canali
d'informazione del mondo ha senso solo se si possiede l'essenziale del
contenuto, di cui il copyright costituisce la forma legale di proprietà.
Attualmente nel settore della cultura assistiamo ad una vera giungla di
fusioni, come quella di Aol e Time Warner. Tutto questo rischia di far sì
che, in un prossimo futuro, sia solo un gruppetto di poche compagnie a
disporre dei diritti di proprietà intellettuale su quasi tutta la creazione
artistica, passata e presente. Il modello è Bill Gates e la sua società
Corbis, proprietari dei diritti di 65 milioni di immagini in tutto il mondo,
di cui 2,1 milioni disponibili in rete (1).
Il concetto, un tempo utile, di diritto d'autore diventa così uno strumento
di controllo del bene comune intellettuale e creativo, nelle mani di un
ristretto numero di imprese. Non si tratta solo di abuso che sarebbe facile
individuare. L'antropologa canadese Rosemary Coombe, specialista in diritti
d'autore, osserva che «nella cultura consumistica, la maggior parte di
immagini, testi, etichette, marchi, logo, disegni, arie musicali e anche
colori sono governati, se non controllati, dal regime di proprietà
intellettuale (2).» Le conseguenze di questo controllo monopolistico sono
spaventose.
I pochi gruppi dominanti dell'industria culturale trasmettono solo le opere
artistiche o di intrattenimento di cui detengono i diritti.
Si concentrano sulla promozione di alcune star, sulle quali investono
fortemente e guadagnano sui prodotti derivati. A causa dei rischi elevati e
delle esigenze di ritorno sull'investimento, il marketing rivolto ad ogni
singolo cittadino del mondo è così aggressivo che tutte le altre creazioni
culturali sono eliminate dal panorama mentale di molti popoli. A scapito
della diversità delle espressioni artistiche, di cui abbiamo disperatamente
bisogno in una prospettiva democratica.
Si assiste anche ad una proliferazione di norme legali su tutto ciò che
riguarda la creazione. Le società che comprano l'insieme dei diritti, li
proteggono con regole molto dettagliate e fanno difendere i loro interessi
da avvocati altamente qualificati. Improvvisamente, l'artista deve fare
attenzione a che queste società non gli rubino il lavoro. Per difendersi è
costretto ad assumere a sua volta degli avvocati, anche se i suoi mezzi
economici sono molto più limitati.
Vivere decentemente del lavoro creativo Con il sistema dei diritti d'autore
le grandi compagnie fanno fortuna.
Ma la pirateria che «democratizza» l'uso, in casa propria, della musica e di
altri materiali artistici, le minaccia. Con un suo giro di affari pari a 200
miliardi di dollari l'anno, disturba l'accumulazione di capitale (3).
Tuttavia la lotta contro la contraffazione sembra vanificata dall'invenzione
di Mp3, Napster, Warapster, ecc. Questi ultimi rendono possibile in pochi
minuti il telecaricamento di notevoli quantità di musiche, immagini, film o
software dallo stock virtuale di dati disponibili in tutto il mondo. Un
fenomeno che l'industria del disco e la sua associazione, la Riaa (Recording
Industry Association of America), non apprezzano affatto.
Philip Kennicott, un ricercatore australiano, ritiene che Napster permetta
di scavalcare completamente il circuito commerciale della produzione
musicale. «Gli americani, scrive, commettono l'errore di paragonare un certo
stile di cultura popolare - come le grandi macchine prodotte dall'industria
americana - con la cultura americana, come se i film spettacolari e i dischi
venduti a milioni di copie rappresentassero, da soli, la creatività degli
Stati uniti. È affascinante pensare che i prodotti di divertimento formino
il cemento culturale che unisce i popoli. Ma questo tipo di cultura
popolare, di cui le industrie sono proprietarie, è molto diversa dalla
cultura del popolo, che non appartiene a nessuno (4).» Per di più, computer
e Internet forniscono agli artisti un'occasione unica di creare utilizzando
materiali che provengono da correnti artistiche di tutto il mondo, del
passato e del presente. E in questo senso non fanno nulla di diverso da ciò
che hanno fatto i loro predecessori: Bach, Shakespeare e migliaia di altri.
È sempre stato normale utilizzare idee e parte del lavoro dei precursori.
Altra cosa è il plagio.
Su questo fenomeno, il filosofo Jacques Soulillou sviluppa un interessante
commento teorico: «La ragione per la quale è difficile produrre la prova di
plagio nel campo dell'arte e della letteratura sta nel fatto che non basta
soltanto dimostrare che B si è inspirato ad A, senza citare eventualmente le
sue fonti, ma bisogna anche provare che A non si è ispirato a nessuno. Il
plagio suppone infatti che la regressione di B verso A si esaurisca lì,
perché si arrivasse a dimostrare che A si è inspirato, e per così dire ha
plagiato un X che cronologicamente lo precede, la denuncia di A ne
risulterebbe indebolita (5).» La sua analisi ricorda non solo che il sistema
dei diritti d'autore diventa sempre meno sostenibile, ma anche che questo
sistema è fondato su un concetto meno evidente di quanto non sembri. Si può
forse immaginare un poema creato senza poemi antecedenti ? Ecco perché
Rosemary Coombe si chiede fino a che punto l'immagine di una star e il suo
valore sia dovuto ai suoi sforzi personali. «Le immagini della diva devono
essere costruite... Le immagini delle star sono il prodotto di studi
cinematografici, media, agenzie di pubbliche relazioni, club di ammiratori,
cronisti, fotografi, parrucchieri, insegnanti di ginnastica, professori,
registi, addetti ai lavori, direttori, avvocati e medici (6).» Senza
dimenticare il ruolo del pubblico, a proposito del quale la stessa Marylin
Monroe dichiarava: «Se sono una star, è perché il pubblico ha fatto di me
una star, né gli studios né altri, solo il pubblico (7).» Abbiamo bisogno di
un sistema di proprietà intellettuale per promuovere creatività?
Assolutamente no. Un numero sempre maggiore di economisti, dati alla mano,
dimostra che l'espandersi dei diritti d'autore favorisce più chi investe che
chi crea e interpreta. Di fatto il 90% del reddito ottenuto a questo titolo
va al 10% degli artisti. L'economista britannico Martin Kretschmers conclude
che «la retorica dei diritti d'autore è stata ingigantita essenzialmente da
un terzo partner: Gli editori e le case discografiche, cioè da coloro che
investono in creatività (più che dagli artisti), diventati i primi
beneficiari di questa protezione estesa (8)».
Il sistema non favorisce neppure il terzo mondo. Come spiega il
l'universitario James Boyle, per acquisire il diritto di proprietà
intellettuale un artista deve essere affermato. «Questa esigenza favorisce
in maniera sproporzionata i paesi sviluppati. Così curaro, batik, miti e il
ballo lambada volano via dai paesi in via di sviluppo senza alcuna
protezione, mentre il Prozac, i pantaloni Levi's, i romanzi di John Grisham
e Lambada, il film, vi ritornano protetti da un insieme di leggi sulla
proprietà intellettuale (9)».
Sarebbe giusto studiare un altro sistema che favorisse la diversità della
creazione artistica. Rosemary Coombe individua la contraddizione che
dovrebbe essere risolta: «La cultura non è fissata in concetti astratti che
interiorizziamo, ma nella materialità delle esperienze e degli argomenti sui
quali ci battiamo e nel segno che queste lotte lasciano nella nostra
coscienza. Questa discussione e la battaglia attualmente in corso sui
sentimenti sono al centro del dialogo. Molte interpretazioni delle leggi
relative alla proprietà intellettuale, facendo appello al concetto astratto
di proprietà, soffocano il dialogo sostenendo il potere della corporazione
degli attori sul mondo dei sentimenti. Le leggi sulla proprietà
intellettuale privilegiano il monologo al dialogo e creano grandi
differenziali di potere tra attori sociali impegnati in una lotta egemonica
(10)». Il concetto centrale è quindi il dialogo.
Secondo obiettivo del nuovo sistema: deve garantire ad un alto numero di
artisti, appartenenti a paesi sia poveri sia ricchi, di vivere decentemente
del loro lavoro creativo. Per tutte queste ragioni, il mantenimento
dell'attuale sistema dei diritti d'autore non risulta né auspicabile, né
realizzabile.
La relazione diretta con l'artista, come la concepiva inizialmente la
filosofia del diritto d'autore, in pratica non esiste più. Perché non fare
un ulteriore passo abolendo l'intero sistema? Perché non sostituirlo con un
altro in grado di garantire una migliore remunerazione sia agli artisti del
terzo mondo che a quelli dei paesi sviluppati, un maggior rispetto del loro
lavoro e la capacità di riportare il pubblico al centro della nostra
attenzione?
A prima vista, può sembrare contraddittorio che un artista, di un paese
sviluppato o del terzo mondo, possa vivere meglio senza i diritti d'autore.
Tuttavia, questa possibilità deve essere presa in seria considerazione.
Senza dubbio l'aspetto più radicale della proposta sta nel fatto che
diminuirà l'entusiasmo suscitato dalle industrie culturali per le loro star.
Non avranno più interesse a investire in modo massiccio su «fenomeni» capaci
di attirare il grande pubblico, se non possono poi sfruttarle in modo
esclusivo; il che, dopotutto, è il principio di base dei diritti d'autore.
Se questi ultimi scomparissero, non esisterebbero più industrie
monopolistiche della cultura capaci di determinare il gusto comune con la
promozione dei loro protetti. Per l'artista medio, la situazione
ritornerebbe «normale»: potrebbe di nuovo trovare mercati e pubblici
diversi, nel suo ambiente e su scala mondiale, via Internet; potrebbe così
guadagnare normalmente, e anche di più.
Le imprese e chiunque utilizzi materiali artistici sarebbero liberati dal
pagamento dei diritti d'autore e dalle scartoffie burocratiche connesse. Ma
questo non vuol dire che non si dovrà pagare per l'utilizzazione di un
lavoro artistico. Chi usa a scopo commerciale creazioni artistiche e
spettacoli fa ricorso a musiche, immagini, disegni, testi, film,
coreografie, pittura, multimedia... per suscitare desideri e guadagnare di
più. Contro l'industria culturale Si potrebbe allora pensare ad una tassa
prelevata sui profitti delle imprese che in un modo o nell'altro utilizzano
materiale artistico.
Il che riguarda la quasi totalità delle aziende. Il denaro così prelevato
potrebbe essere assegnato ad un fondo speciale, secondo procedure fissate
per legge, con tre categorie di beneficiari: i gruppi di artisti, gli
artisti individuali e quelli del terzo mondo. Verrebbe quindi eliminata la
connessione diretta - misurata in quantità, minuti o altro - tra
l'utilizzazione attuale del lavoro di un artista e la sua remunerazione.
Quanto ai diritti morali che dovrebbero proteggere l'integrità del lavoro
artistico e scientifico dall'imitazione, è ora di riconoscere che frenano la
creazione artistica. La conclusione logica dovrebbe essere di eliminare
anche questi. Nella società occidentale abbiamo creato una strana
situazione: corriamo in tribunale non appena riteniamo che un diritto
d'autore sia stato violato... Ma se non c'è proprietà in senso assoluto,
allora non c'è niente da violare e da citare in giudizio. Il problema
centrale nei nostri dibattiti dovrebbe consistere nel verificare se l'uso
(di una parte) delle opere di altri artisti è stato fatto con rispetto e
apporto di nuova creatività. O al contrario, se è raffazzonato, noioso o
obiettivamente mal fatto. Un artista che prenda in prestito troppo
facilmente dai suoi predecessori o da uno dei suoi contemporanei non potrà
che essere considerato un artista minore.
Immaginiamo comunque che una persona copi il lavoro di un altro artista,
asserisca che è suo e lo firmi. Se non c'è né rielaborazione, né commento
culturale, né aggiunta, né traccia di creatività, si tratta evidentemente di
un vero e proprio furto che merita di essere sanzionato.
A questo punto, l'obiettivo dovrebbe essere la creazione di un nuovo sistema
che garantisca agli artisti dei paesi occidentali e del terzo mondo redditi
migliori, che si apra in modo ampio a un dibattito pubblico sul valore della
creazione artistica, che si preoccupi del miglioramento del livello
culturale del pubblico, che spezzi il monopolio delle industrie della
cultura, le quali vivono sul sistema dei diritti d'autore.
Joost Smiers
NOTE:
* Direttore del centro di ricerche e professore ordinario all'Università
delle arti, Utrecht (Paesi Bassi). In particolare autore di Etat des lieux
de la création en Europe. Le tissu culturel déchiré, L'Harmattan, Parigi,
1999.
(1) C. Alberdingk Thijm, Websurfen? Treck je creditcard, Het Parool,
Amsterdam, 7 marzo 2000.
(2) Rosemary J. Coombe, The Culturel Life of Intellectual Properties,
Authorship, Appropriation and the Law, Durhamand, Londra,1998.
(3) Christian De Brie «L'economia criminale», Le Monde diplomatique/il
manifesto, aprile 2000.
(4) Philip Kennicott, «Napster gives musicians a chance to be heard»,
International Herald Tribune, 1° agosto 2000.
(5) Jacques Soulillou, L'auteur, mode d'emploi, L'Harmattan, Parigi, 1999.
(6) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(7) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(8) Martin Kretschmers, Intellectual Property in Music. An Historical
Analysis of Rethoric and Institutional Practices, Paper, City University
Buisiness School, Londra, 1999.
(9) James Boyle, Shamans, Software and Spleens. Law and the Construction of
Information Society, Harvard University Press, Cambridge MA, 1996.
(10) Rosemary J. Coombe, op. cit.
(Traduzione di G. P.)
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2001/0109lm28.01.html
Indice Forum
PARADOSSI DEL COPYRIGHT
Non sono pochi quelli che pensano che il copyright
sia un concetto che merita una nuova formulazione. Nato come strumento
elastico per favorire la produzione culturale, si è progressivamente
trasformato quasi ovunque in una legge sulla proprietà. Secondo molti, in
questa evoluzione, il concetto si è infine rivoltato nel suo opposto, vale a
dire, un ostacolo alla creatività che intendeva salvaguardare.
La causa tra il Sudafrica e le multinazionali del farmaco sui medicinali
anti-aids e analoghe vertenze in altri paesi del terzo mondo hanno mostrato
in modo lampante alcune conseguenze paradossali della attuale legislazione
sulla cosiddetta proprietà intellettuale. Mentre milioni di persone muoiono
a causa dell’Hiv, i loro governi non possono produrre i farmaci che
potrebbero salvarle senza incorrere nelle denuncie dei proprietari del
brevetto, i quali però vendono le medicine a prezzi inaccessibili per quei
governi. Se quello dei farmaci anti-aids è un caso drammatico, altre
iniziative più estemporanee hanno recentemente cercato di illuminare alcuni
aspetti perversi del copyright versione inizio millennio.
E’ di pochi giorni fa la notizia che due australiani, Nigel Helyer e Jon
Drummond, hanno brevettato 100 miliardi di sequenze di toni telefonici, vale
a dire le melodie composte ogni qualvolta premiamo i tasti di un telefono.
Questo significa che quando chiamiamo un amico rischiamo di riprodurre una
sequenza musicale soggetta a copyright e quindi rischiamo di violare le
leggi internazionali in materia.
I due australiani hanno utilizzato un algoritmo in grado di generare tutte
le combinazioni possibili da 16 coppie di toni iniziali. Lo scopo di Helyer
e Drummond è evidentemente provocatorio: se si possono avanzare pretese di
copyright sul Dna umano, vale a dire il nostro patrimonio più intimo, perché
non farlo sulle sequenze di toni prodotte ogni giorno da miliardi di
individui? E’ dunque possibile recarsi sul sito dei due immaginifici
australiani (www.magnus-opus.com) e controllare se la melodia prodotta dal
proprio numero di telefono è di loro proprietà. In questo caso, non resta
che compilare un modulo già predisposto che ci fornirà l’autorizzazione
all’utilizzo della sequenza numerica (e musicale) desiderata.
Ma non si rischia di violare la legge sul copyright solo facendo una
telefonata. Anche guidare una macchina o pedalare su una bicicletta comporta
dei rischi. La storia è curiosa e coinvolge un’invenzione vecchia di
millenni, un premio Nobel particolare e l’ufficio brevetti australiano
(sempre lui). Scorriamola a ritroso. La settimana scorsa sono stati
assegnati, come ogni anno, gli Ig Nobel Prize per le migliori invenzioni
“impossibili”. Il premio della categoria “tecnologia” è stato assegnato non
ad uno scienziato ma ad un giovane avvocato, John Keogh, anche lui, come
Helyer e Drummond, australiano. L’invenzione che gli è valsa l’ambita
onorificenza? La ruota, o meglio un “dispositivo circolare che facilita il
trasporto”, registrato qualche mese fa all’Ufficio brevetti australiano con
il numero #2001100012.
L’intento di Keogh è mostrare le falle del meccanismo che permette di
ottenere la proprietà di un’idea o di un’invenzione. E’ molto facile infatti
spingere questo sistema all’estremo con conseguenze gravi sulla creatività e
lo sviluppo, privando così legittimi fruitori dei benefici di tecnologie
condivise. Quello che, secondo i critici più radicali della proprietà
intellettuale, fanno ogni giorno impunemente grandi gruppi industriali.
A questo punto l’Ufficio brevetti australiano può decidere di contestare la
registrazione, accusando Keogh di frode e portandolo in tribunale. Proprio
quello che l’avvocato si augura. Quella giudiziaria è infatti la sede adatta
per dimostrare l’inefficienza del sistema di brevetto australiano, che ha
recentemente introdotto la categoria delle “Innovation patent”, per ottenere
le quali si deve solo mostrare che c'è dell'innovazione
nella propria invenzione. Con il risultato, secondo Keogh, che quasi tutto
può essere brevettato. Raffaele
Mastrolonardo
http://www.smau.it/smau/view_NO.php?IDcontent=9844 Indice Forum
MENTE UMANA,
IDENTITA' E INTELLIGENZA COLLETTIVA
L'intelligenza collettiva non è semplicemente un
modo di lavoro collettivo. E' anche una modalità operativa di conoscenza del
mondo. Di fatto non sarebbe possibile ritenere l'enorme quantità di
informazioni significative che ogni giorno, fin dalla nascita, percepiamo
attraverso l'esperienza. Per fronteggiare questo problema l'umanità ha
creato nel suo procedere storico un'enormità di artefatti cognitivi,
disseminati negli oggetti, nei testi, nei comportamenti e nella lingua in
generale. Ovverosia gli oggetti si danno alla nostra percezione fornendoci
attraverso forma e sostanza le tracce inerenti al loro senso ed uso. In
pratica il processo del nostro pensiero non si avvale esclusivamente degli
input che emergono dall'interno, ma si appoggia a una parte della mente
disseminata negli artefatti cognitivi di cui il mondo abbonda. Il nostro
pensiero, funziona grazie ad una parte della nostra mente collettiva che
risiede nelle cose che ci circondano e che sono il prodotto delle molteplici
culture che si sono susseguite, mescolate, sussunte e rielaborate.
Questo vuol dire che non possiamo fare a meno dell'intelligenza collettiva
per elaborare pensieri sensati. Che, dunque, qualsiasi cosa prodotta da
ognuno di noi è contemporaneamente anche il frutto dello sforzo del resto
della collettività nello spazio e nel tempo.
E' difficile quindi pensare di poter assegnare ad alcuni il diritto di
possedere una proprietà intellettuale esclusiva su qualcosa.
Uno dei processi in base a cui funziona la mente umana è anche quello della
ricombinazione delle idee sulla base di un processo analogo al funzionamento
dei geni per le cellule, che R. Dawkins ha definito "memi". Le nostre idee,
attraverso i memi, farebbero in qualche modo parte del nostro apparato
riproduttivo influenzando, ed essendo influenzati nel nostro sviluppo
evolutivo dallo sviluppo dell'umanità nel suo complesso.
A. Di Corinto e T. Tozzi, Hacktivism.
La libertà nelle maglie della rete, Manifestolibri, Roma 2002
http://www.hackerart.org/storia/hacktivism.htm
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ANTI
COPYRIGHT
"The question of copyright promises to be the
Vietnam of the Net". Mitch Kapor
"If creativity is the field, copyright is the fence". John Oswald
Copyright is in crisis. Photocopying, sound- and video-recording, computers,
and the net have all made it increasingly difficult for the owners of
copyright to enforce their rights. Levies or legal penalties only patch the
holes in an already leaky system. The flaw lies not in the technology or in
our society, but in the very notion of copyright. Intellectual "property"
does not behave like material property. If I give you a physical object I
may no longer have use or control of that thing, and may ask for something
in return -- some payment or barter. But when I give you an idea, I lose
nothing. I can still use that idea as I wish. I need ask nothing in return.
The laws of exchange of matter being so very different from the laws of
exchange of information, any attempt to trade ideas with material goods was
destined for trouble sooner or later.
Not only do people hold on to ideas for material gain, they also hang on to
them for psychological gain. The ego likes to be identified as the source of
a particular insight or concept. But what right has the ego to attach itself
to something that was never its in the first place?
We say "an idea came to me". I did not make it happen. What I do is shape
the ideas "that come" into forms -- usually words and images -- that satisfy
me, and hopefully communicate something to others. If I am to be paid for my
work (which I am not averse to), I should be paid for my time and energy,
not some dubious concept of intellectual property.
Thoughts are free. They should remain free, and be given freely.
And, following the universal law, the more we
give the more we shall receive.
* * *
N.B. This is not a license to rip off. Let integrity prevail, and give
credit where credit is due.
Liberated gratefully and without permission from
Peter Russell
http://anticopyright.com/
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SENTENZA
ANTICOPYRIGHT E CYBERAGONIA DEL DIRITTO D'AUTORE
Se il copyright attuale è antiumanesimo,
sopraffazione economica e morale dell'uomo sull'uomo con la scusa dell'arte,
ben venga l'anticopyright. Essere giusti non significa sempre accettare lo
status quo.
Le quattro sentenze anticopyright emesse dallo scrivente il 15 febbraio
2001, che assolvevano quattro extracomunitari venditori per strada di cd
contraffatti per stato di necessità, sono state una rivoluzione globale e
personale.Da quell'atto di coraggio, in apparenza stridente con il ruolo di
un giudice ma comprensibile perché dietro quel ruolo istituzionale c'è il
fondatore del movimento Antiarte 2000, è nato uno scossone tra gli oligopoli
produttori di arte ad altissimo costo ma soprattutto un plauso
incondizionato in rete. Subivo, intanto, in seguito a un'interrogazione
parlamentare un'azione disciplinare ministeriale per quelle sentenze
ritenute "abnormi", fortunatamente conclusa con un proscioglimento. Il CSM
ribadiva la
correttezza dei principi esposti in quelle pronunce e insieme la libertà e
l'indipendenza della magistratura soprattutto in rapporto alla facoltà di
portare avanti nuove visioni del mondo e della giustizia. Ed è così che
l'entusiasmo è aumentato e con esso la voglia di approfondire quella
cyberrivoluzione che avevo intuito e portato avanti nel mio verdetto.
La sentenza è rivoluzionaria perché abbatte in re il sistema del copyright
rilevando che
La norma repressiva di base, la protezione penalistica - e non meramente
civilistica del diritto d'autore - è desueta di fatto per l'abitudine di
molte persone di tutti i ceti sociali, che, in diuturnitas, ricorrono
all'acquisto di cd per strada o scaricano MP3 da Internet. Anche grossi
network come Napster si sono mossi da tempo in senso anticopyright e hanno
permesso copie di massa dell'arte musicale. Fenomeno appena sfiorato dalle
recenti sentenze degli USA che si sono espresse nel senso di regolamentare
la materia della riproduzione di massa, ma con un pagamento ridottissimo in
un nuovo mercato dove il guadagno dei produttori è quantificato su "minimi
diffusissimi"[1].
La rivoluzione era quella annunciata dal mondo delle cose concrete, dai
popoli che bypassano le norme repressive e indicano comportamenti dettati
dalle stesse tecnologie riproduttive dei beni immateriali, prendendosi a
piene mani quello che i produttori-distributori vorrebbero vendere a prezzi
esorbitanti.
Emerge dalla sentenza questa sete spasmodica delle masse di usufruire
liberamente dei prodotti dell'arte e della cultura, senza ingombri
economici, culturali, censori. C'è voglia globalizzata di accedere in
maniera totale e inebriante ai beni immateriali che danno gioia, elevano gli
animi, dissuadono i giovani dalle droghe artificiali e dalle azioni
malefiche. C'è voglia di ubriacarsi, liberamente e fraternamente, alle fonti
delle arti, della cultura, delle idee, spazzando via le pastoie dei
grassatori del copyright. Copyright che, è dimostrato, si è sviluppato nei
secoli solo per far arricchire produttori e distributori, oltre a qualche
star, a scapito della massa degli artisti e soprattutto degli usufruenti
tutti dell'arte e della cultura.
La sentenza anticopyright nasceva da una consapevolezza dello scrivente che
già da anni studiava la disgregazione della proprietà intellettuale.
Elaborando il MANIFESTO "IPERTRANSAVANGUARDIA DEL MEDIOEVO ATOMICO"(poi
ANTIARTE 2000), pubblicato nel 1997[2], già in quel tempo esprimevo l'idea
che l'autore è solo il portavoce di un messaggio d'arte universale, che egli
esprime in nome dell'Umanità; dal che deriva che non ha la proprietà
intellettuale delle sue opere ma il mero possesso(detentio) delle forme
artistiche, senza che chicchessia possa vantare alcuna proprietà né assoluta
né relativa sul prodotto. Quest'idea era già nell'aria tanto che Joost
Smiers arrivava addirittura a considerare la proprietà intellettuale un
autentico furto[3].
Il concetto fu esplorato più a fondo nella Dudda: DICHIARAZIONE UNIVERSALE
DEI DIRITTI DELL'ARTE. Quella dichiarazione venne elaborata dallo scrivente
e firmata nel novembre 2002 da una serie di artisti, intellettuali,
rappresentanti di associazioni culturali presso il Museo del Cinema di Roma,
nel corso di un sit in per salvare il Museo che rischiava di essere cacciato
dalla sua sede per farne al suo posto un centro commerciale.
Nel preambolo alla DUDDA si affermava un
principio chiave per il ribaltamento radicale degli attuali rapporti tra
produttori-distributori di arte e cultura da una parte, creativi e massa dei
fruitori dall'altra. Si asseriva il primato dell'arte e della cultura
sull'economia che rende la tutela del diritto all'arte e al sapere dell'uomo
prioritaria di fronte ad ogni altro interesse materiale ed economico.
Attraverso quest'ultima via veniva ribadito il principio già espresso nella
sentenza anticopyright, là dove si afferma il nuovo cybervangelo connesso al
diritto di accesso totale all'arte e alla cultura:
Anche la New Economy depone nel senso dell'arte
a diffusione gratuita o a bassissimo prezzo, per rendere effettivo il
principio costituzionale dell'arte e la scienza libere(art. 33 della Cost.)
e, quindi, usufruibili da tutti, cosa non assicurata dalle attuali
oligarchie produttive d'arte che impongono prezzi alti, contrari a
un'economia umanistica, con economia anzi diseducativa per i giovani spesso
privi del denaro necessario per acquistare i loro prodotti preferiti e
spinti, quindi, a ricorrere in rete e fuori a forme diffuse di "pirateria"
riequilibratrice[4].
L'azione degli oligopoli produttivi appare, quindi, in contrasto con l'art.
41 della Cost. secondo cui l'iniziativa economica privata libera "non può
svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Solo un'arte a portata di
tasca di tutti i cittadini e soprattutto dei giovani può essere a livello
produttivo umanitaria e sociale come richiesto dalla Costituzione, per far
sì che davvero tutti possano godere dei prodotti artistici[5].
Nel preambolo alla DUDDA veniva espressa un'altra chiave di rivoluzione del
copyright, posta a base di un ribaltamento sociale epocale in cui Internet
diventa strumento di realizzazione finale - in chiave realmente democratica
- dei principi della Rivoluzione Francese. Si affermava che "il
riconoscimento da parte della specie umana del diritto alla creatività e al
sapere, fondato su Liberté, Egalité, Fraternité, costituisce il fondamento
della coesistenza della vita nel Mondo". Si aggiungeva "che un concreto
diritto di accesso all'arte e alla cultura - inteso in rafforzativo quale
diritto a non essere esclusi - è fondamentale per l'elevazione dell'Uomo, il
che si realizza sostituendo l'attuale modello gerarchico a Piramide della
società con la nuova struttura Sferica di platonica memoria".
Dal che si ricava il superamento di fondo dell'ideologia sottesa al Decreto
Urbani. Vediamolo questo decreto, approvato il 18 maggio 2004 dall'aula del
Senato, prima cercando di vedere cos'è il sistema informatico attaccato e
come funziona.
Il P2P incriminato, ovvero il peer to peer, offre letteralmente uno scambio
di informazioni alla pari, attraverso cui tutti possono scaricare dati e
farli scaricare ad altri, senza nessun tipo di limitazione e/o obbligo di
sorta. Le reti P2P sono gestite e mantenute dagli stessi client/server,
qualunque essi siano, che si "preoccupano" di tenerci collegati ad un
determinato numero di computers e, quindi, di mandare le nostre ricerche
alla rete.
Le reti P2P non sono solamente luoghi dove scambiare files, ma ci si può
scambiare qualsiasi tipo di informazione dal che è evidente la loro forza
comunicativa e rivoluzionaria dal punto di vista del sapere fraterno fra gli
uomini. Basti pensare che in questo momento migliaia di computer si
scambiano informazioni in maniera del tutto trasparente e senza regole
precise, tutto ciò grazie a questo protocollo (peer to peer).
Le reti P2P cambieranno in modo sostanziale il nostro modo di comunicare,
possibilmente rivoluzionando parte del nostro sistema economico-sociale di
cui la cosiddetta "piaga" dello scambio di musica on-line che l'industria
discografica non riesce a fermare è solo la punta di un iceberg.
Il peer to peer, che oggi è anche sviluppo, ricerca scientifica, è stato,
dunque, fatto oggetto di sanzionamento amministrativo e penalistico da parte
del decreto Urbani approvato. Rispetto alla precedente formulazione sono
attenuate le sanzioni, ma esse sono state estese a tutte le opere
dell'ingegno.
E' riconosciuta la liceità dell'uso personale. Per chi immette e scarica per
uso personale copie pirata, la sanzione amministrativa (passata da 1.500 a
154 euro come previsto dalla legge sul diritto d'autore), sale a 1.032 in
caso di reiterazione. Resta la confisca dei materiali e la pubblicazione
della condanna sui giornali per chi duplica cd e dvd non per scopo
personale.
Sanzioni penali, invece, per chi fa commercio o trae profitto dall'illecita
attività (reclusione da tre mesi a sei anni). Lo scambio di brani musicali e
audiovisivo (file-sharing) è consentito solo a condizione che si tratti di
file dotati degli appositi avvisi informativi, previsti dalla legge sul
diritto d'autore. Se il file non sarà provvisto di avviso, chi lo immette
commetterà un reato.
Viene introdotto un prelievo del 3% per i produttori, destinato alla Siae,
sul prezzo di listino dei masterizzatori. Se la quota non è versata, ne
deriva una sanzione doppia (6%) per i produttori. E' affidato all'autorità
giudiziaria e non al ministero dell'Interno il compito di intervento per
violazioni per via telematica (come previsto da art. 15 Costituzione). E'
stato eliminato il rafforzamento sulla funzione di controllo dei
provider.
Andando non contro ma oltre il Decreto Urbani, noi dell'Antiarte affermiamo
che gli omini hanno diritto di scambiarsi informazioni, arte, cultura
soprattutto attraverso
Internet senza che chicchessia possa limitare il loro potere, essendo
prioritaria la tutela di quel diritto di scambio rispetto a beceri interessi
economici degli oligopoli produttori-distributori non di arte - là sono i
creativi titolari di diritti - ma di copie puramente materiali.
E' un falso problema quello secondo cui copiare le opere senza compenso
comprometta la sopravvivenza economica degli artisti, perché questi
guadagnano proprio dalla diffusione in sé della propria arte e cultura. E'
quello il loro intento primario, spirituale ed anche materiale, ovvero il
profitto della diffusione su scala quanto più ampia possibile della propria
arte e cultura, essendo il lucro un elemento succedaneo e conseguenziale.
La diffusione dell'immagine di un creativo, soprattutto via Internet, di per
sé è fonte di guadagno sia come omesso investimento personale(l'opera si
diffonde senza che l'autore spenda alcunché), sia come profitti occulti e
conseguenziali perché la nuova industria dell'arte e cultura, o quella
vecchia decrepita, lo gratificheranno anche economicamente per poter avere
la sua opera, i suoi discorsi, le sue apparizioni mediatiche.
Il nuovo mercato senza produttori-distributori squali sarà proprio di una
società aperta dove i vecchi produttori, ridotti plebiscitariamente via
Internet a misura d'uomo, dovranno solo riciclare i loro investimenti che
assumeranno altre forme.
Intanto non c'è più il mercato dominante dei produttori-distributori che
impongono prezzo e tirannia nello scambio dell'arte-cultura, ma ci sono i
mercati. Lo stesso prodotto artistico-culturale viene smerciato nelle varie
tecnologie parallele.
La prima via è Internet col che si consentirà a chiunque di fruire di quel
prodotto, di vederlo, scaricarlo nel computer a prezzo pressoché zero. Nella
sentenza anticopyright si afferma al riguardo:
Il fatto è che la strategia del regalo è uno dei
punti centrali nel mondo digitale, tanto che si parla di free economy,
economia del gratis appunto, o di gift economy, economia del regalo.
"Nell'età dell'accesso si passa da relazioni di proprietà a relazioni di
accesso. Quello di proprietà privata è un concetto troppo ingombrante per
questa nuova fase storica dominata dall'ipercapitalismo e dal commercio
elettronico, nella quale le attività economiche sono talmente rapide che il
possesso diventa una realtà ormai superata"[6].
A questo si aggiungerà la possibilità di riprodurre l'opera con mezzi
tecnologici interni(una stampante) o esterni (tipografie che si
specializzeranno in confezioni dei prodotti personalizzate, soprattutto
digitalizzate e a bassissimo costo)[7].
La seconda via è quella tradizionale dove un produttore riproduce l'opera in
serie per poi distribuirla tra librai, edicole etc.. Il prodotto
probabilmente costerà di più rispetto al precedente ma, chi è preso dal
furor d'aver libri e soprattutto avrà i soldi per comprarlo, lo comprerà.
Vi sarà, comunque, un plafond nei ricavi economici. Quando verrà sfondato il
tetto stabilito dalla legge, la somma eccedente sarà messa in un fondo di
solidarietà per gli artisti deboli(emergenti, giovani, poveri, anziani,
malati, etc.).
Quanto alla SIAE essa svolge allo stato una funzione passiva, limitandosi a
intervenire in intermediazione per proteggere i diritti morali ed economici
degli autori. Dovrebbe essere, invece, rigenerata per assumere una funzione
propulsiva dell'arte e della cultura, soprattutto proteggendo gli autori
deboli, i talenti etc. attualmente bistrattati e trascurati dal mercato
famelico e piramidale che porta avanti sempre gli stessi creativi, i più
"forti socialmente" e neppure i migliori talora.
Dovrebbe la SIAE coi compensi sforanti delle star creare dei fondi di
solidarietà per gli artisti deboli, onde ridistribuire il lucro equamente
tra tutti i creativi, proprio per eliminare lo squilibrio tra gli affermati
e i non.
Dovrebbe la SIAE incrementare gl'interventi sociali e istituzionali a favore
delle forze creative emergenti, controllare la distribuzione dei
finanziamenti pubblici, anche questi spesso destinati ai forti e ai ben
agganciati politicamente(spesso sempre gli stessi) a scapito degli artisti
puri, che hanno in orrore ricorrere ai maneggi, frustrati dalla mancata
attribuzione di fondi che in uno stato democratico dovrebbero a rotazione,
d'amblais, spettare a tutti.
La SIAE dovrebbe combattere contro le ingiuste tassazioni statali, che
aiutano a portare alle stelle i prezzi dei prodotti artistici[8].
Insomma alla SIAE, trasformata in SIA, società di solo difesa degli autori(e
non più degli editori), affidiamo il compito nuovo e luminoso di indebolire
i creativi forti e rafforzare i deboli, tenendo presente che se i primi
emergono ciò è col sacrificio della massa degli artisti, che si vedono
precluse le vie alte del successo o quanto meno della decente manifestazione
della loro opera.
Nel nuovo progetto la SIAE "riciclata" sarà diretta a tutelare realmente gli
autori, soprattutto quelli fragili, e non più i produttori e i distributori
com'è adesso. Oggi la SIAE combatte i cosiddetti pirati che usufruiscono di
musica, libri etc. senza pagare diritti; domani garantirà la libera
diffusione del sapere e attaccherà i nuovi pirati, ovvero i
produttori-distributori che tralignino, superando i plafond di lucro
stabiliti
per legge.
Tornando all'oggi, quanto alla borsa per acquistare arte e cultura, ciò di
cui non si tien conto nei decreti alla Urbani è che, se davvero una persona
volesse comprare tutti i prodotti di cui necessita il suo spirito(libri,
musica, film, video etc.) nelle vie cosiddette legali, ci vorrebbero enormi
patrimoni che non ci sono. E, allora, perché privarsi di questa ricchezza
enorme di arte-cultura che fa così bene agli uomini, è panacea ai nostri
giovani dissuadendoli dalle vie dei paradisi artificiali?
Tutto quanto detto è in linea a con l'articolo 6 della DUDDA dove si
afferma; "All'autore dell'opera è riconosciuto il diritto morale d'autore e
il mero possesso a nome altrui (detentio) delle forme artistiche, con un
ridotto diritto di sfruttamento commerciale, senza che chicchessia possa
vantare alcuna proprietà assoluta sul prodotto artistico". Ergo l'autore ha
solo diritti provvisori e limitati. Se egli si allea con partners
produttori-distributori tradizionali, potrà operare lo sfruttamento della
sua opera al di sopra del costo zero ma per mera concessione graziosa
dell'Umanità. Egli dovrà, comunque, concedere che chiunque non abbia la
somma necessaria per acquistare il prodotto o, pur avendola non voglia
spenderla(per lo meno in vista della massa di prodotti da acquisire),
l'acquisisca in via informatica, digitalizzata etc..
Concludendo è evidente che, a fronte dello scontro titanico oggi in atto tra
il cyberspazio e l'ulespazio[9], i movimenti per la libertà e l'uguaglianza
reali dell'uomo passano attraverso la fratellanza internettiana che
abbatterà la tirannia attuale dei produttori-distributori impregnati di old
economy. Questa comunità è stata annunciata nella sentenza anticopyright che
sottende un nuovo principio metacostituzionale: il prevalere del Sapere
sull'Economia. Ed oggi il Sapere dei Saperi è Internet. Solo attraverso il
cyberspazio iperaperto - che è comunicazione galattica - è possibile
compiere quel grande salto di qualità che permetterà di realizzare in
concreto, e non a chiacchiere costituzionalizzate, i principi della
Rivoluzione Francese per realizzare l'Utopia dell'Uomo Libero, Eguale e
soprattutto Fraterno.
Di fronte a queste evidenze i decreti alla Urbani sono solo sassi che
saranno travolti dall'Oceano di Internet. I più grandi megastore del mondo
oggi non possono rivaleggiare con la ricchezza del catalogo disponibile sui
sistemi di file sharing. E la gente lo vuole quel catalogo universale perché
così si arricchisce dentro. E lo manterrà quel catalogo malgrado le leggi
pro copyright che sono contro il popolo, contro il mondo assetato
d'arte, di sapere e di cultura. Il fatto stesso che si sia parlato di
"repressione simbolica" da parte del legislatore nel caso del decreto Urbani
dimostra non tanto un pudore interno quanto la sotterranea consapevolezza di
combattere una battaglia perduta.
Quel decreto o altri cento decreti emessi nel mondo in quella linea
inutilmente repressiva non riusciranno ad arrestare il popolo d'Internet,
emblema della popolazione mondiale soggiogata da una legge sul copyright che
non risponde ai tempi e che non vuole più.
Nessun decreto è concepibile che riesca a metterci tutti dentro; men che mai
che qualcuno vada dentro com'è capitato recentemente - horribile dictum - in
Grecia per un compratore per strada di cd contraffatto; nessun decreto
riuscirà a fermare la nostra voglia di sapere e di cultura per il bene
stesso dell'Umanità.
Gli argini molochiani innalzati contro la dissoluzione del copyright non
crolleranno: sono già crollati!
Per Ulteriori Approfondimenti si veda il sito
www.antiarte.it
1)G. FRANCIONE, DECALOGO DAL MANIFESTO "IPERTRANSAVANGUARDIA DEL MEDIOEVO
ATOMICO"(POI
ANTIARTE 2000)pubbl. sulla rivista Dismisura(Anno XXV, n° 115-117 gennaio
1997), p. 108.
2)DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'ARTE(DUDDA) firmata al Museo del
Cinema di
Roma Via Portuense 101 l'11 novembre 2002
NOTE:
[1] La sentenza riporta la situazione al 2001.
Napster è tramontato ma poi sono apparsi i
suoi cloni.
[2]Vedi allegato A).
[3]Vedi Joost Smiers, La proprietà intellettuale è un furto, artic. pubbl.
su
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Settembre-2001/0109lm28.01.html.
Smiers è direttore del centro di ricerche e professore ordinario
all'Università delle
arti, Utrecht (Paesi Bassi). In particolare è autore di Etat des lieux de la
création en
Europe. Le tissu culturel déchiré, L'Harmattan, Parigi, 1999.
[4]Nel saggio di G. Francione, Hacker, i Robin Hood del Cyberspazio,
Lupetti, Milano 2004,
si avanza l'ipotesi di una "legittima difesa economica". Vedi anche la
rivista Tutto da
capo, Lupetti, maggio 2004.
[5]Per una lettura integrale della sentenza vedi
http://www.antiarte.it/eugius/sentenza_anticopyright.htm
[6]Vedi New economy in http://mediamente.rai.it/biblioteca.
[7]Un esempio della nuova produzione anticopyright è offerto dal sito
animalista Nuova
Etica, diretto da Massimo Tettamanti(dottore in chimica) e Marina Berati
(ingegnere
elettronico). Nuova Etica si propone di distribuire gratuitamente, romanzi,
saggi, poesie
e materiale informativo sugli animali creando libri e opuscoli. Ognuno può
scaricare dal
sito la versione elettronica delle pubblicazioni, in formato PDF, e farne
l'uso che vuole.
In una seconda procedura è anche disponibile la versione stampata e
rilegata, nel normale
formato dei libri da libreria. In questo caso i gestori chiedono solo la
copertura delle
spese di stampa e spedizione, senza alcun sovrapprezzo, perché la
distribuzione resta
sempre e comunque gratuita. Vedi http://www.nuovaetica.org/
[8] In Spagna Zapatero ha tagliato l'Iva su libri e cd(notizia del 30 aprile
2004).
L’industria discografica ha espresso soddisfazione per le misure annunciate
dal nuovo
governo. «Un buon inizio», hanno commentato, anche perché l’Iva
drasticamente ridotta
permetterà di porre un limite al «trattamento discriminatorio» nei confronti
dei dischi
rispetto a libri. "Non si capiva perché per i dischi il compratore dovesse
pagare il 16% di Iva e per libri soltanto il 4%".
[9]Termine di neo conio dello scrivente indicante lo spazio materiale(dal
graco ulè,
materia).
Gennaro Francione
www.antiarte.it
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NOTE
INEDITE SU COPYRIGHT E COPYLEFT (2005) di WU MING
1. I due corni del falso dilemma
2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia
1. I due corni del falso dilemma
Partiamo dalla fine: il copyleft si basa sulla necessità di coniugare due
esigenze primarie, diremmo due condizioni irrinunciabili del convivere
civile. Se smettiamo di lottare perché si soddisfino questi bisogni,
smettiamo di auspicarci che il mondo migliori.
Non vi è dubbio che la cultura e i saperi debbano circolare il più
liberamente possibile e l'accesso alle idee dev'essere facile e paritario,
senza discriminazioni di censo, classe, nazionalità etc. Le "opere
dell'ingegno" non sono soltanto prodotte dall'ingegno, devono a loro volta
produrne, disseminare idee e concetti, concimare le menti, far nascere nuove
piante del pensiero e dell'immaginazione. Questo è il primo caposaldo.
Il secondo è che il lavoro deve essere retribuito, compreso il lavoro
dell'artista o del narratore. Chiunque ha il diritto di poter fare dell'arte
e della narrazione il proprio mestiere, e ha il diritto di trarne
sostentamento in un modo non lesivo della propria dignità. Ovviamente, siamo
sempre nel campo delle condizioni auspicabili. E' un atteggiamento
conservatore pensare a queste due esigenze come ai corni di un dilemma
insolubile. "La coperta è corta", dicono i difensori del copyright come lo
abbiamo conosciuto. Libertà di copia, per costoro, può significare solo
"pirateria", "furto", "plagio", e tanti saluti alla remunerazione
dell'autore. Più l'opera circola gratis, meno copie vende, più soldi perde
l'autore. Bizzarro sillogismo, a guardarlo da vicino.
La sequenza più logica sarebbe: l'opera circola gratis, il gradimento si
trasforma in passaparola, ne traggono beneficio la celebrità e la
reputazione dell'autore, quindi aumenta il suo spazio di manovra all'interno
dell'industria culturale e non solo. E' un circolo virtuoso.
Un autore rinomato viene chiamato più spesso per presentazioni (a rimborso
spese) e conferenze (pagate); viene interpellato dai media (gratis ma è
tutto grasso che cola); gli si propongono docenze (pagate), consulenze
(pagate), corsi di scrittura creativa (pagati); ha la possibilità di dettare
agli editori condizioni più vantaggiose. Come può tutto questo...
danneggiare le vendite dei suoi libri?
Parliamo ora del musicista/compositore: la musica circola, piace, intriga,
intrattiene; chi l'ha scritta o chi la esegue ne ha un "ritorno d'immagine",
e se sa come approfittarne viene chiamato a esibirsi più spesso e in più
occasioni (pagato), ha la possibilità di incontrare più persone e quindi più
committenti, se "si fa un nome" gli si propongono colonne sonore di film
(pagate), serate come DJ (pagate), "sonorizzazioni" (pagate) di eventi,
feste, mostre, sfilate; può addirittura trovarsi a dirigere (pagato) un
festival, una rassegna annuale, cose del genere; se parliamo di artisti pop,
mettiamoci anche i proventi del merchandising, come le T-shirt vendute via
web o ai concerti... Ecco il "dilemma" risolto nei fatti: si sono rispettate
le esigenze dei lettori (che hanno avuto accesso a un'opera), degli
autori/compositori (che ne hanno avuto ritorni e tornaconti) e di tutto
l'indotto della cultura (editori, promoter, istituzioni etc.). Cos'è
successo? Perché il sillogismo è franato in modo tanto repentino sotto i
colpi degli
esempi? Perché tale sillogismo non mette in conto la complessità e la
ricchezza delle reti e degli scambi, il passaparola incessante da un medium
all'altro senza soluzione di continuità, le possibilità di diversificazione
dell'offerta, il fatto che il "ritorno economico" per l'autore può
percorrere diversi tragitti, alcuni (apparentemente) tortuosi.
E' a causa di questa incapacità di figurarsi la complessità che l'industria
culturale (soprattutto quella discografica) ha perso i primi cinquanta treni
dell'innovazione telematica, vivendo le nuove opportunità tecnologiche come
minacce anziché come sfide, reagendo in modo scomposto a Napster e a tutto
quello che è seguito. Cominciano a muoversi adesso, a cavalcare la tigre
dopo che Steve Jobs ha dimostrato che si può fare, ma nel frattempo sono
andati allo scontro con eserciti di potenziali clienti, la cui fiducia è
persa per sempre. Anti-marketing.
Qual è l'ultima cosa che dovrebbe fare uno che produce e vende musica?
Sicuramente criminalizzare chi li ascolta, trascinare in tribunale chi la
ama etc. Ne valeva la pena? Secondo noi no. Il "diritto d'autore"
(attenzione, però, a non prendere sul serio quest'espressione
semi-truffaldina!) come lo abbiamo conosciuto è ormai un freno al mercato.
Al contrario, il copyleft (che non è un movimento né una "ideologia", è
semplicemente il
vocabolo-ombrello per una serie di pratiche, istanze e licenze commerciali)
incarna tutte le esigenze di riforma e adeguamento delle leggi sul
copyright, in direzione di uno "sviluppo sostenibile". La "pirateria" è
endemica, è irreprimibile, è marea montante portata dal vento
dell'innovazione tecnologica. Certo, i potentati dell'industria
dell'intrattenimento possono continuare a far finta di niente, come la Casa
Bianca ha fatto finta che non ci fossero effetto-serra, riscaldamento
globale e sconvolgimenti climatici in corso. In entrambi i casi, chi nega la
realtà verrà travolto. Ostìnati a non ratificare il Protocollo di Kyoto,
ostìnati a non investire su fonti energetiche rinnovabili e alternative al
petrolio, ostìnati a non voler risolvere i
problemi ambientali, e prima o poi t'arriva tra capo e collo l'uragano
Katrina (e ce n'est qu'un debut!).
2. Nascita del copyright e censura: contro il "mito delle origini" liberista
Torniamo all'ABC, mettendo in fila fatti noti e più volte ricordati. La
storia del copyright comincia in Inghilterra nel XVI° secolo. La diffusione
della stampa, la possibilità di distribuire tante copie di uno scritto,
galvanizza chiunque abbia qualcosa da dire, soprattutto di politico. C'è un
boom di pamphlet e giornali. La Corona teme la diffusione di idee sovversive
e decide di affidare a qualcuno il controllo di quel che si stampa.
Nel 1556 nasce l'ordine degli Stationers [editori-tipografi-librai], casta
professionale a cui viene concesso in esclusiva il "diritto di copia" [copy
right], e quindi ha il monopolio delle tecnologie di stampa. Chiunque voglia
stampare qualcosa deve passare al loro vaglio. Fino a quel momento era
diverso, chiunque poteva farsi stampare copie di un'opera letteraria o
teatrale, l'autore non si preoccupava perché non deteneva i diritti (che non
esistevano), la cosa importante era che le opere circolassero e aumentassero
la fama dell'autore, che in quel modo avrebbe intercettato i desideri di più
committenti (mecenati privati, enti culturali di vario genere come teatri
etc.) Da lì in poi, invece, un'opera potrà andare in stampa solo se otterrà
il visto (in pratica, il placet della censura di stato) e sarà segnata sul
registro ufficiale - attenzione a questo dettaglio! - a nome di uno
stationer. Quest'ultimo diverrà il proprietario dell'opera nell'interesse
dello stato. Tutta la mitologia "liberista" sul copyright come diritto
naturale, che nasce spontaneamente grazie alla crescita e alle dinamiche del
mercato... sono tutte fandonie! L'origine remota del copyright sta nella
censura preventiva e nella necessità di restringere l'accesso ai mezzi di
produzione della cultura (leggi: restringere la circolazione delle idee).
Trascorre un secolo e mezzo e in questo periodo l'autorità della Corona
subisce attacchi inauditi: la ribellione scozzese del 1638, la "Grande
Rimostranza" parlamentare del 1641, lo scoppio della guerra civile nell'anno
successivo, la rivoluzione di Cromwell con tanto di decapitazione del re...
Alla fine degli anni cinquanta del XVII° secolo nel Paese torna la
monarchia, ma la situazione rimane instabile e finalmente il Parlamento
riesce a imporre alla Corona una Dichiarazione dei diritti. Da quel momento,
la monarchia inglese sarà una "monarchia costituzionale".
Era necessario elencare questi eventi per far capire quanto si modifichi, in
centocinquant'anni, l'atteggiamento nei confronti del sovrano, quindi anche
della censura preventiva, e di conseguenza anche del potere degli stationers.
Nei confronti di questi ultimi c'è sempre più insofferenza, così si decide
di abolire il monopolio sul diritto di stampa.
Gli stationers verrebbero colpiti dove fa più male, cioè nel portafogli,
quindi reagiscono con rabbia. Iniziano a fare pressioni perché l'imminente
nuova legge riconosca i loro legittimi interessi e si volga comunque a loro
vantaggio. Ecco la nuova argomentazione: il copyright appartiene all'autore;
l'autore, però, non possiede macchine tipografiche; tali macchine le
possiede lo stationer; ergo: l'autore deve comunque passare attraverso lo
stationer. Come regolare tale "passaggio"? Semplice semplice: l'autore, nel
proprio interesse a che l'opera venga stampata, cederà il copyright allo
stationer per un periodo da stabilirsi.
Alla foce, la situazione resta più o meno invariata. A cambiare è la
sorgente, il presupposto giuridico. La giustificazione ideologica non si
basa più sulla censura, ma sulle necessità del mercato. Tutte le conseguenti
mitologie sul diritto d'autore derivano dallo stratagemma argomentativo
della lobby degli stationers: l'autore è di fatto costretto a cedere i
diritti, ma è costretto... per il proprio bene.
I contraccolpi psicologici saranno devastanti, si arriverà a una variante
della "Sindrome di Stoccolma" (l'amore del sequestrato per il proprio
rapitore), autori che si mobilitano in difesa di uno statu quo che si fonda
sul loro stare ai piedi del tavolo in attesa degli avanzi e di una carezza
sulla testa, pat! pat! wuf! La legge è il celebre "Statute of Anne" -
capostipite di tutte le leggi e gli accordi internazionali sul diritto
d'autore, fino alla Convenzione di Berna del 1971, al Digital Millennium
Copyright Act, al Decreto Urbani et cetera - ed entra in vigore nel 1710. E'
la prima definizione legale del copyright come si è continuato a intenderlo
fino a oggi, o meglio, fino a stamattina, perché dopo mezzogiorno qualcuno
ha cominciato ad avere dei dubbi.
I dubbi derivano dal fatto che oggi la "copia" è possibile a molte più
persone, forse a quasi tutti.
Buona parte di noi ha in casa gli eredi domestici delle tecnologie di cui
gli stationers avevano il monopolio. Per fare la copia di un'opera non è più
necessario passare attraverso un ordine professionale. Gli eredi degli
stationers vengono scalzati dalla rivoluzione microelettronica iniziata
negli anni Settanta, dall'avvento del digitale, dalla "democratizzazione"
dell'accesso al computing. Prima la fotocopiatrice e l'audiocassetta, poi il
videoregistratore e il campionatore, poi il masterizzatore cd e il
peer-to-peer, infine le memorie portatili tipo i-Pod... Come si può pensare
che sia ancora valida la giustificazione ideologica del copyright, quella
che diede forma allo Statute of Anne?
E' chiaro che va tutto rivisto, questo processo cambia faccia, cervello e
cuore dell'intera industria culturale! Occorrono nuove definizioni dei
diritti di chi crea, di chi produce, di chi mette a disposizione. Se una
"opera dell'ingegno" può giungere al pubblico senza la mediazione di un
editore, di
un discografico, di produttori televisivi o cinematografici, sono questi
ultimi a dover interrogarsi su come proseguire, a dover inventarsi qualcosa,
a dover ridefinire il proprio ruolo imprenditoriale e la propria ragione
sociale. Cercare di mantenere con la minaccia della galera un monopolio che
non ha più basi significa imbucarsi in un vicolo cieco, è un comportamento
da Ancien Régime, da autocrazia zarista. Per fortuna qualcuno
comincia a rendersene conto.
3. Google Print e affini: rete, gratuità e battaglie di retroguardia
Google Print, Creative Commons, copyleft etc. sono progetti e concetti
diversi, ma in realtà vanno tutti nella stessa direzione, come vanno nella
stessa direzione biblioteche e librerie. Nelle prime si accede al libro
gratuitamente, nelle seconda lo si acquista, ma non c'è scontro tra le due
opzioni: i paesi dove si vendono più libri sono anche quelli in cui più si
frequentano le biblioteche. E' normale: più il libro circola, più lo si
legge,
più ritorno positivo c'è per l'editoria. Il download libero e gratuito di un
testo e la sua "navigabilità" in stile Google Print hanno una finalità
comune e ambiscono allo stesso risultato: entrambi vogliono rendere i
prodotti culturali accessibili on line, e questo può favorire la vendita di
libri.
La parola-chiave è proprio "biblioteche". si parla di una lunga tradizione
di gratuità dell'accesso, soltanto di recente messa in discussione (e la
battaglia è ancora in corso).
Che si parli di biblioteche di mattoni o biblioteche di elettroni, sempre
biblioteche sono. Se invece il download è a pagamento, allora si tratta di
librerie, su per giù come quelle che siamo abituati a conoscere, non è
difficile immaginare la modalità di prelievo del diritto d'autore, è una
cosa piuttosto semplice. Detto questo: Seth Godin, uno dei più grandi
filosofi del marketing, dice che se un e-book a pagamento viene comprato da
tot persone, lo stesso e-book, reso gratuito, verrà scaricato da tot
moltiplicato per quaranta. L'informazione utile si ottiene invertendo il
dato: su quaranta persone che scaricano un e-book gratis, ce n'è una
disposta a comprarlo. La somma di quegli "uno su quaranta" corrisponde allo
"zoccolo duro" dei lettori, quelli che comprano per primi, che fanno partire
il passaparola. Sono i connettori, gli "evangelisti", i buzzers. Ogni mossa
va fatta avendo in testa questo insieme di persone. Godin, poi, fa così: le
nuove uscite (elettroniche e cartacee) sono a pagamento. Poco prima di una
nuova pubblicazione, mette scaricabile gratis quella precedente. E' una
strategia di lancio formidabile. Gli editori che si oppongono a Google Print
sono come quegli studios cinematografici che, venticinque anni fa,
denunciarono i produttori di videoregistratori e videocassette,
dicendo che la registrazione domestica violava il copyright. Il famoso caso
"Universal contro Betamax".
La Universal arrivò fino alla Corte Suprema e perse... per fortuna sua.
Negli anni a seguire, l'industria cinematografica ha realizzato la maggior
parte dei suoi profitti non nelle sale ma grazie all'home video. E'
sopravvissuta alla crisi delle sale grazie al VHS e poi al DVD. Se Universal
e compagnia avessero vinto, a quest'ora sarebbero morti e sepolti. Ma hanno
perso, e quindi si sono salvati.
Si potrebbe citare anche l'assurda battaglia dei discografici contro
l'introduzione sul mercato delle musicassette, negli anni '70, preludio alla
guerra senza quartiere contro il download, quando (iTunes lo ha dimostrato)
bastava fornire agli utenti un canale di accesso legale a questa risorsa.
Anche questa degli editori è una battaglia suicida contro un'innovazione
potenzialmente vantaggiosa. Per il loro bene, gli editori devono perdere.
Vincendo, si assesterebbero una formidabile martellata nei cosiddetti.
(stralci di corrispondenza privata e risposte a interviste inedite in
italiano. da carmillaonline.com del 6 Novembre 2005)
http://www.wumingfoundation.com
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EDITORI A TITOLO DIVERSO
Giorgio Assumma, presidente della Siae, ha
scritto sul Sole24ore dell’8 febbraio scorso che Kant “sentiva già
l’esigenza di un diritto d’autore nei confronti del proprio editore”.
È vero, ma non avrebbe mai considerato i propri studenti, che si fossero
passati gratuitamente gli appunti delle sue lezioni, alla stregua di
“editori” da perseguire civilmente.
Nessuno mette in dubbio che un autore debba tutelarsi nei confronti di
editori che si appropriano del suo ingegno creativo e intellettuale, senza
riconoscergli alcunché.
Ma non saper distinguere tra un editore senza scrupoli, che fa del business
la propria ragione di vita, e un editore amatoriale, che da semplice
webmaster di un sito didattico-culturale, pubblica gratuitamente in rete
ipertesti multimediali, è grave.
Il web non è solo un “mercato” e i webmaster non sono tutti “editori”
paragonabili a quelli del mondo cartaceo, filmico o musicale. Non ha senso
trasporre meccanicamente in rete una situazione tipica della società reale.
L’averlo fatto – come nel caso del mio sito homolaicus.com- lascia pensare
che si voglia in realtà “colpire” il web non commerciale, cercando di
estorcergli quanto più possibile.
Se la Siae sta perdendo introiti dalla pirateria informatica, non può
prendersela con chi dalla rete, mettendo in chiaro ipertesti culturali,
ricava solo immagine, visibilità, ma nulla di commerciale.
Considerare poi le immagini usate in rete, in quel formato jpeg che è quanto
di più precario si possa pensare ai fini della riproduzione fedele di un
originale, attesta eloquentemente in quali difficoltà interpretative oggi si
muova la dirigenza Siae.
A che titolo la Siae è in grado di dire che un
docente, un operatore culturale, un webmaster viola, con le proprie
realizzazioni ipertestuali o multimediali, la dignità morale di un artista?
Chi sono i critici d’arte che lavorano per la Siae e che possono sostenere
che un ipertesto del genere (sottratto dal luogo originario e collocato qui
provvisoriamente): www.homolaicus.it/picasso/ è un’opera volgare, triviale,
offensiva del grande cubista?
Eppure la raccomandata che l’Ufficio Arti Figurative mi ha spedito parla
chiaro.
E se quest’opera non lede la dignità morale dell’artista, ma anzi la esalta,
mettendone in rilievo la forza creativa, l’ingegno intellettuale, a che
titolo la Siae sostiene ch’essa viola i diritti patrimoniali dell’artista e
dei suoi eredi?
Chiunque è in grado di capire che quando si apprezza il lato morale e
intellettuale di un artista e soprattutto il suo genio creativo,
s’incrementa, indirettamente, anche il valore economico delle sue opere.
Quanto maggiori e importanti sono gli ipertesti didattici e culturali che
esaminano determinate opere, tanto maggiori saranno le loro quotazioni in
aste, gallerie, cataloghi, mostre, musei…
Dunque perché prendersela con chi dà lustro, in tutto il mondo, al web
artistico? Perché attaccare chi fa a titolo gratuito un’operazione del
genere, che in definitiva favorisce i diritti non solo degli artisti e dei
loro eredi ma persino quelli della Siae.
Dove sono gli eredi di Picasso, di Kandinsky, di Klee e dei Futuristi
italiani che desiderano “penalizzare” chi mette in risalto il genio
estetico, creativo dell’umanità.
Comportandosi così, la Siae procura un danno incalcolabile alla libera
fruizione della cultura, mortifica il valore artistico del nostro paese e
del mondo intero (“web” infatti vuol dire “pianeta”), danneggia persino gli
interessi degli eredi.
Quando arrivano certe “raccomandate” la coscienza impone a noi docenti il
dovere morale e civile di non considerarle una mera “questione personale”.
Attaccando un singolo docente si minaccia tutta la
categoria, si scuote il web nazionale dalle fondamenta, essendo stati
infatti i docenti i primi a crearlo e a svilupparlo.
È da un decennio che siamo in rete e una cosa così grave non s’era mai
vista.
Chiediamo dunque ai dirigenti Siae di ritornare sui loro passi, di dare il
tempo ai docenti di controllare il loro enorme patrimonio digitale,
conformemente alle esigenze di questa Società privata (la moratoria dev’essere
almeno di un anno).
Chiediamo altresì al nostro Parlamento di rivedere la legge n. 633/1941 sul
diritto d’autore, precisando in maniera inequivocabile la differenza tra
sito didattico-culturale senza fine di lucro, e sito commerciale.
Chiederemo infine alla stessa Siae, una volta approvate le modifiche della
legge, una liberatoria a titolo gratuito per tutte le nostre opere
telematiche che possono contenere oggetti sotto tutela, in modo che nessuno
possa rivendicare alcunché.
Quello che si offre a titolo gratuito deve restare patrimonio libero
dell’umanità: quindi non solo non va penalizzato, ma va anche difeso.
Enrico Galavotti
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