La Scienza e i suoi Valori
La scienza oggi ha distrutto proprio questo concetto, il più essenziale in qualsiasi
sistema etico, pietra angolare di qualunque struttura sociale e unico sostituto (anche se
inaffidabile) del codice genetico; lo ha ridotto all'assurdo e lo ha fatto scadere allo
stato di pio desiderio, privo di ogni significato.
Molti potranno non essere d'accordo con quest'affermazione piuttosto radicale. Come tutti
sappiamo, sono state dette e scritte sulla scienza tantissime cose benevole e
sistematicamente ottimistiche, che la presentano come un'attività esclusivamente
costruttiva e creativa. Si sono invece generalmente ignorate le enormi potenzialità
distruttive del metodo scientifico e, io credo, non per ignoranza ma, almeno in parte, per
paura di guardarle in faccia. (Com'è ovvio, mi riferisco esclusivamente alla distruzione
di idee o di concetti, non alla Bomba.) Dire che le idee o i concetti che la scienza ha
dimostrato essere indifendibili erano davvero sbagliati o privi di significato da un punto
di vista oggettivo non equivale a dire che erano privi di significato soggettivamente e
che non servivano a niente. È evidente che è vero il contrario. Ma vediamo brevemente in
che modo e fino a che punto i concetti tradizionali che hanno dato un
"significato" alla vita dell'uomo sono diventati tutti sempre piu indifendibili
nel contesto della scienza moderna.
A mio parere, il nocciolo del problema può essere presentato così: praticamente in tutti
i sistemi mitici, religiosi o filosofici, l'esistenza del l'uomo acquista un significato
per il fatto che la si considera parte di un qualche disegno generale che spiega il
complesso della natura e della creazione. Il "significato" può essere
ingenuamente attribuito a un mitico eroe fondatore oppure, in modo più pomposo (ma meno
poetico) a una qualche intenzione divina astratta; o si può anche pensare che le
"leggi della natura" siano tali che l'universo, nella sua evoluzione, doveva
necessariamente arrivare a produrre l'uomo e la sua storia, la quale alla fine porta
inevitabilmente a una società senza classi. Questi sistemi, per diversi che siano, hanno
tutti la stessa struttura e la stessa funzione sociale. Tutti ipotizzano fra l'uomo e
l'universo, fra la cosmologia e la storia, una continuità ininterrotta, un'alleanza
immanente e profonda, in cui l'uomo e la natura servono insieme alla realizzazione del
disegno universale oppure procedono insieme verso la conclusione inevitabile di tutto il
creato. Idee del genere presuppongono necessariamente una certa identità di essenza fra
l'uomo e la natura. Poiché l'essenza dell'uomo - ed egli non può fare a meno di sentirlo
- è la sua coscienza, la sua conoscenza soggettiva di sé e del proprio processo
concettuale dialettico, egli attribuisce la stessa "essenza" anche alla natura.
Queste ipotesi, naturalmente, sono espresse in modo estremamente preciso e chiaro nei miti
animistici primitivi; ma la fondamentale ipotesi animistica iniziale, che porta a
proiettare nella natura stessa, per interpretarla, l'essenza cosciente dell'uomo, è anche
il fondamento di certe filosofie moderne. L'esempio più rivelatore è forse il
materialismo dialettico che, secondo Engels, ha come pietra angolare (anche se si tratta
in realtà di un'aggiunta tarda a un edificio di filosofia sociale già in fase avanzata
di costruzione) la tesi che le tre "leggi dialettiche" di Hegel sono le leggi,
generali della natura.
Il fatto che tanto Engels e Marx quanto uomini appartenenti alle tribù
indiane abbiano dovuto introdurre nel loro sistema del mondo la stessa ipotesi di base
dimostrerebbe, se fosse necessario, quanto essenziale è sempre apparso all'uomo in ogni
epoca, compresa la nostra, scoprire nella natura il proprio "significato" e in
se stesso il "significato" della natura. La scienza ha distrutto radicalmente
proprio questa ipotesi iniziale, quest'idea vecchia forse quanto l'uomo, di un duplice
rapporto fondato, su una comunanza d'intenti fra l'uomo stesso e la natura. L'ha distrutta
in due modi.
In primo luogo, l'adozione del metodo scientifico, che definisce la
"vera" conoscenza come qualcosa che non può avere altra fonte che il riscontro
oggettivo della logica e dell'osservazione, elimina ipso facto l'ipotesi animistica
dell'esistenza di un qualche tipo di soggettività nella natura. L'oggettività assoluta
della natura è il postulato essenziale del metodo scientifico, a cui Galileo e Cartesio
dettero per primi un fondamento nella loro formulazione del principio d'inerzia, che ha
eliminato una volta per tutte la fisica e l'astronomia teleologiche di Aristotele. La
Chiesa avrebbe avuto motivi più validi di condannare Galileo per questa scoperta
minacciosa che non per la sua difesa del sistema copernicano.
Eppure per molto tempo si continuò ad applicare questo postulato
fondamentale soprattutto nel campo delle scienze fisiche. L'enorme complessità degli
esseri viventi e, più di ogni altra cosa, il fatto che nella loro struttura, nel loro
sviluppo e nel loro comportamento sia possibile vedere immediatamente la loro
"essenza" palesemente intenzionale sembravano separarli, insieme con l'uomo, dal
mondo fisico. In che modo si poteva infatti utilizzare un postulato di oggettività per
interpretare esseri così chiaramente intenzionali? A mano a mano che si arrivava a
conoscere meglio la struttura e la fisiologia degli esseri viventi, questa obiezione
apparentemente valida alle idee cartesiane sembrava renderle sempre meno difendibili.
L'ipotesi animistica fu in tal modo eliminata dallo studio dei fenomeni
fisici, mentre in una qualche forma di vitalismo essa poteva rimanere, e di fatto rimase,
in biologia. Il vitalismo in verità può assumere aspetti diversi, talora abbastanza
sfumati da presentarsi come un approccio oggettivo. L'elaborazione della teoria
dell'evoluzione, compiuta in un primo tempo da Buffon e da Lamarck e poi, con molta più
efficacia e documentazione, da Darwin, non ha interrotto questa corrente di pensiero. Per
certi versi, l'ha addirittura rafforzata: l'evoluzione nella biosfera sembrava
testimoniare l'esistenza di una forza direttrice ascendente, che portava necessariamente e
infallibilmente dal mondo fisico al mondo biologico e, per questo tramite, al suo
coronamento: l'uomo.
Questa idea, che di fatto riprendeva in una forma apparentemente
"scientifica" l'antica alleanza animistica, è chiaramente presente non solo in
Engels e in Teilhard de Chardin; essa ispira anche gran parte del positivismo
"progressista" dell'Ottocento. La teoria della selezione, che grazie alla
genialità di Darwin era stata postulata come una delle forze direttrici dell'evoluzione,
avrebbe dovuto mettere in guardia contro questo tipo d'illusione. In realtà, mentre
l'evoluzione era accettata con entusiasmo da ogni sorta di progressisti e respinta con
furore da tutti i reazionari, la teoria della selezione non fu né pienamente compresa né
generalmente accettata. La ragione principale di questo fatto era che il concetto di
"sopravvivenza del più adatto", benché di facile comprensione, non poteva non
offendere il codice morale degli eredi della Rivoluzione francese e dell'Indipendenza
americana. Inoltre Darwin non aveva formulato con precisione, né avrebbe potuto farlo, il
meccanismo degli eventi iniziali che costituiscono la fonte prima dell'evoluzione, di
quelle anomalie negli esseri viventi che certamente dovettero precedere la selezione.
Anzi, Darwin stesso non respinse la teoria lamarckiana dell'adattamento, che a molti
appariva come un meccanismo "naturale" facilmente accettabile, e che
naturalmente piaceva molto di più ai progressisti.
La biologia moderna, a cominciare dalla genetica classica fino ad
arrivare al culmine con la biologia molecolare, doveva ancora scoprire la fonte ultima sia
della stabilità sia dell'evoluzione nella biosfera, con la , conseguente definitiva
distruzione del mito dell'antica alleanza.
Mi si consenta di riassumere semplicemente, senza fornire né prove né
esempi, le principali conclusioni della biologia moderna che riguarda l'argomento in
discussione:
1) La caratteristica unica, universale ed essenziale degli esseri viventi è la
possibilità di conservare la struttura chimica (DNA) nella quale è scritto il codice
genetico.
2) L'evoluzione non è una tendenza insita negli esseri viventi. Al contrario, tutta la
loro struttura è fortemente conservatrice, e infatti riesce quasi sempre a opporsi a
qualsiasi cambiamento.
3) La fonte prima e unica della reale innovazione nella biosfera è costituita da
perturbazioni casuali che si verificano nel meccanismo conservatore, perturbazioni di tale
natura che tutte le entità fisiche inevitabilmente vi sono soggette. Tali perturbazioni
colpiscono singole molecole e di conseguenza sono fondamentalmente imprevedibili e
incontrollabili.
È forse opportuno far notare che l'idea di una fonte rigorosamente
casuale dell'evoluzione non è una conseguenza né un'espressione del fatto che s'ignora
il suo meccanismo intimo o che questo ha dimensioni troppo infime per riconoscerlo; al
contrario, proprio grazie a una chiara comprensione della natura di questi meccanismi, si
arriva alla sola conclusione possibile: la natura puramente casuale della loro origine.
Così, la stessa comparsa della vita e, all'interno della biosfera, l'emergenza dell'uomo
non possono essere concepite se non come il risultato di un immaginario gioco d'azzardo in
cui a un certo punto è uscito il nostro numero; ma poteva anche non uscire, e comunque il
cosmo insondabile che ci circonda non se ne sarebbe affatto preoccupato.
Non si può sfuggire a queste conclusioni né c'è la minima
prospettiva che esse possano essere radicalmente modificate nel futuro in seguito a nuove
scoperte scientifiche. Non occorre dilungarsi per mettere in evidenza l'incompatibilità
assoluta fra questa concezione scientifica dell'uomo e della sua origine e i principi
tradizionali sui quali sono stati fondati i valori, l'etica e le società.
L'impostazione scientifica rivela all'uomo che egli è un accidente,
quasi un estraneo nell'universo, e riduce 1' "antica alleanza" fra lui e il
resto della creazione a un filo tenue e fragile. Nessuno dei miti piacevoli o terrificanti
che egli aveva sognato, nessuna delle speranze alle quali si era aggrappato tenacemente,
nessuna delle certezze che per millenni avevano sorretto la sua vita morale e sociale può
rimanere ancora in piedi.
La scienza, da quando è comparsa e si è sviluppata, ha improntato il
mondo moderno, ha dato alle nazioni moderne la loro tecnologia e la loro potenza. Eppure
queste società non hanno accettato, e quasi non hanno capito il messaggio più profondo
della scienza; insegnano e predicano ancora versioni più o meno modernizzate dei sistemi
tradizionali di valori che sono clamorosamente incompatibili con la loro cultura
scientifica. I paesi occidentali, liberali e capitalistici, manifestano ancora un'adesione
puramente formale a una nauseabonda mistura di religiosità giudaico-cristiana, di diritti
"naturali" dell'uomo, di prosaico utilitarismo e di progressismo ottocentesco. I
paesi marxisti producono ancora una stupefacente cortina fumogena fatta di storicismo e di
materialismo dialettico privi di senso.
Mentono tutti, e sanno di mentire. Nessuna persona intelligente e
colta, in questi due tipi di società, può credere sul serio alla validità di questi
dogmi. Più sensibili, più impazienti, i giovani sono coscienti della menzogna e si
rivoltano contro di essa, denunciando energicamente le contraddizioni intollerabili delle
società moderne. Smettiamo di vivere nell'illusione, come più o meno si è sempre fatto
nel passato. Gli uomini primitivi credevano nei miti, che guidavano tutta la loro vita; le
società medievali credettero al paradiso, all'infemo e al peccato; gli uomini della
Rivoluzione francese hanno creduto nei diritti naturali dell'uomo; Lenin e Trockij ebbero
una fiducia assoluta nel materialismo storico e nella sua promessa formale di una società
senza classi, liberata da ogni contraddizione.
Nessuna società può sopravvivere senza un codice morale basato su
valori compresi, accettati e rispettati dalla maggioranza dei suoi membri. Noi non abbiamo
più niente del genere. Potranno le società moderne continuare indefinitamente a
padroneggiare e a controllare gli enormi poteri che la scienza ha dato loro con il
criterio di un vago umanesimo tinto di una sorta di edonismo ottimistico e materialistico?
Potranno risolvere su queste basi le loro intollerabili tensioni? Oppure crolleranno per
lo sforzo?
È quest'ultima, io credo, l'ipotesi più probabile, a meno che non si
verifichi una condizione: che si rimettano profondamente in discussione i valori umani, la
loro vera natura e la loro origine; e, per cominciare, che si prenda coscienza della
singolarità dell'uomo nel cosmo, della sua assoluta solitudine. L'uomo può allora
rendersi conto che al di fuori di lui non ci sono, e non possono esserci, nessuna fonte e
nessun criterio divini, storici o naturali per i suoi valori. Lui soltanto li crea, li
definisce e li plasma. Ciò equivale a dire che, per ricostruire le basi di un sistema di
valori su cui possa fondarsi la vita sociale, politica e personale
dell'uomo nell'epoca della scienza, dobbiamo prima di tutto fare veramente tabula rasa,
dobbiamo andare più avanti e più a fondo di quanto implichi la frase profetica di
Nietzsche: "Gott ist tot". Non soltanto, infatti, "Dio è morto", ma
sono morti anche i suoi diversi succedanei, romantici, storicisti, progressisti. Non
possiamo neanche più permetterci di proclamare la libertà "assoluta"
dell'uomo, come hanno fatto Nietzsche e, sulla sua scia, alcuni degli esistenzialisti
francesi moderni. Nessun biologo potrebbe accettarlo. Sappiamo che siamo fatti degli
stessi amminoacidi e degli stessi nucleotidi, che siamo dotati dello stesso codice,
genetico di qualsiasi altro essere vivente, batterio, pianta o pesce. Saremmo ciechi se
non riconoscessimo quanto siamo simili, non solo nella nostra struttura ma anche nel
nostro comportamento, ai nostri cugini primi, le scimmie superiori. Faremmo bene ad
ascoltare attentamente quanto ci fanno notare etologi come il professor Lorenz, secondo i
quali molti comportamenti dei mammiferi, degli uccelli o dei pesci che sono determinati
geneticamente potrebbero essere descritti come esempi di rigorosa obbedienza ad alcuni dei
dieci comandamenti. Non c' è bisogno di cercare una base trascendente per l'imperativo
categorico: in molti casi, è abbastanza evidente la sua origine biologica.
Questa eredità biologica, profonda ed esigente, fa parte dell'essenza
dell'uomo. Non tenerne conto sarebbe sciocco tanto quanto negare che questa stessa essenza
partecipa anche di un altro regno, che trascende quello fisico e perfino quello biologico:
parlo del regno delle idee e della conoscenza, della "noosfera", per riprendere
l'espressione di Teilhard de Chardin. La noosfera esiste come regno in parte autonomo,
perché nella famiglia degli ominidi è comparsa una forma di comunicazione, che è
esclusiva di questa famiglia. Se all'inizio è stata indubbiamente selezionata e
sviluppata per il suo valore di sopravvivenza, essa, introducendo nuove pressioni
selettive, deve avere avuto anche un'influenza, sull'evoluzione fisica dell'uomo. Mi
riferisco allo sviluppo della corteccia cerebrale umana, che possiamo ragionevolmente
considerare dotata di "circuiti predisposti" per l'acquisizione del linguaggio.
Il linguaggio è dunque, allo stesso tempo e inseparabilmente, un tratto fisiologico e un
prodotto culturale; partecipa nel modo più profondo della duplice natura dell'essenza
dell'uomo.
Recentemente è diventato di moda in alcuni ambienti filosofici
francesi negare qualsiasi valore e significato al concetto di "essenza" umana. I
biologi non possono non considerare del tutto insensato quest'atteggiamento. Per me, il
concetto di essenza umana ha la massima importanza e il più grande fascino, perché in
esso confluiscono sia i problemi genetici, embriologici e fisiologici sia gli aspetti
culturali, linguistici, psicologici ed estetici.
Una ricostruzione razionale del nostro sistema di valori dovrà tener
conto di tutti questi elementi ed essere pronto a evolvere e a modificarsi a mano a mano
che si approfondirà la nostra comprensione dell'essenza dell'uomo. Bisogna tuttavia
capire e riconoscere appieno che anche nell'epoca della scienza la filosofia morale non
può fondarsi semplicemente su una sorta di essenzialismo biologico, poiché nessun
sistema di valori e nessuna etica potrebbero mai essere costruiti sulla base di un'analisi
puramente oggettiva dell'uomo quale esso è. Per definizione e per funzione, un sistema di
valori, un'etica deve definire non un "essere" ma un "dover essere":
un alto ideale, uno scopo da perseguire che non può essere l'uomo stesso. Nessun sistema
etico può essere puramente utilitaristico; pensarlo è un errore psicologico, una
contraddizione in termini, la negazione della funzione stessa dell'etica.
Ne consegue che, nell'epoca della scienza nella quale non è ormai più
difendibile nessuna delle ipotesi trascendenti tradizionali che avevano la funzione di
definire uno scopo o un imperativo sovrumani, noi dobbiamo fare la stessa cosa, costruire
un analogo sistema di valori, ma con una premessa essenziale: noi sapremo, e dichiareremo,
che la nostra scelta è deliberata, cioè assiomatica, nei fatti come nelle intenzioni.
Sono convinto che ciò possa essere realizzato, che un sistema del genere potrebbe venire
insegnato e capito e che sarebbe rispettato proprio nella misura in cui avrà definito i
valori più alti come misura e criterio di tutti i valori, di un'etica sociale e
personale.
E quali altri valori ultimi allora potremmo scegliere, se non quelle
creazioni che esistono nel regno delle idee, nate dall'uomo, e tuttavia trascendenti il
loro creatore, dal contenuto più ricco e più vasto di quanto ogni singolo individuo e
addirittura la totalità degli uomini in un determinato momento possa percepire? Parlo
naturalmente del grande monumento, sempre incompiuto, della creazione e della conoscenza,
vale a dire dell'arte e della scienza.
L'etica e i valori, da quando l'uomo ha cominciato a indagare sul significato della
propria esistenza, sono sempre stati fondati su un qualche rapporto essenziale che si
pensava esistesse fra lui e l'universo. Noi oggi sappiamo che l'unico rapporto autentico
si stabilisce attraverso il regno astratto della noosfera e che l'uomo, questo straniero
nel cosmo può conquistare l'universo solo mediante la conoscenza. L'arte e la scienza
esprimono due aspetti complementari della conoscenza umana, l'uno sintetico e parzialmente
soggettivo, l'altro analitico e rigorosamente oggettivo. Una società che accettasse
questi valori trascendenti come misura e criterio ultimo di tutti i più immediati valori
umani e che si proponesse deliberatamente di servirli, dovrebbe difendere la libertà,
intellettuale politica ed economica e considerare suo compito primario incoraggiare
l'istruzione estensiva e intensiva. Essa dovrebbe anche promuovere un tipo di
Stato-provvidenza non come un fine in sé, ma come un mezzo che consente di raggiungere un
grado più alto di libertà, di creatività e di conoscenza, cioè di servire l'uomo nella
sua essenza più preziosa ed esclusiva.
Dalla biologia molecolare all'etica della conoscenza
La scienza ha dato all'uomo poteri immensi. Ma, oltre al fatto che nell'uso di questi
poteri sono stati perpetrati abusi atroci, va detto che per la maggior parte degli uomini
rimane oscura la fonte stessa della scienza, che risiede nella conoscenza oggettiva e
nell'etica che la fonda. Ne deriva quest'ansia, questa profonda diffidenza che tanti dei
nostri contemporanei provano nei confronti del mondo moderno e della scienza: sentimento
di estraneità e di alienazione che certamente non investe solo i meno istruiti, visto che
alcune delle tendenze più tipiche della letteratura e della filosofia contemporanee si
alimentano direttamente di questa alienazione, spesso esplicitamente dichiarata.
Oggi per la comunità degli uomini di scienza, ci sono pochi doveri più chiari o più
urgenti della lotta contro questa moderna schizofrenia. Ma come combatterla, se non con
l'approfondimento della conoscenza, con l'applicazione costante del metodo oggettivo a
sempre nuovi campi e infine con un insegnamento impartito senza costrizioni e senza
sanzioni a uomini liberi?......................
Ma la funzione del DNA nella cellula è
radicalmente differente dalla funzione della memoria magnetica di un calcolatore (o per lo
meno di tutti i calcolatori che esistono attualmente).
In primo luogo, la memoria di un calcolatore contiene in generale
alcune informazioni e un programma che non riguardano affatto la struttura fisica della
macchina stessa, per esempio quella dei suoi componenti. Le informazioni contenute nel
DNA, viceversa, consistono esclusivamente di prescrizioni riguardanti la sintesi dei
costituenti cellulari, vale a dire, in definitiva, degli agenti che eseguiranno il
programma.
In secondo luogo, la memoria di un calcolatore è modificabile; può
arricchirsi sia di nuove istruzioni comunicate dall'esterno sia di risultati ottenuti
dalla stessa macchina. La struttura, e quindi il contenuto di informazioni, del DNA è al
contrario sostanzialmente invariante, inaccessibile a qualsiasi "istruzione", a
qualsiasi esperienza vissuta dall'organismo.
Infine, e soprattutto, il risultato finale, cioè, in termini
oggettivi, lo "scopo" del programma contenuto nel DNA è di riprodurre
esattamente - di moltiplicare ne varietur - la struttura di questo stesso DNA.
In tale processo di replicazione, il DNA interviene direttamente come
matrice o stampo; ciascuno dei suoi due filamenti dirige l'assemblaggio sequenziale dei
radicali che costituiscono l'alfabeto del linguaggio chimico, e in tal modo viene stampata
una nuova copia del programma, identica alla lettera. Benché il DNA, a rigore, non sia un
cristallo, il suo meccanismo di replicazione è strettamente paragonabile al fenomeno che
da molto tempo viene indicato come esempio di emergenza nel mondo fisico: la
cristallizzazione. Questa vecchia analogia, che è stata spesso derisa per la sua pretesa
ingenuità, appare oggi pienamente giustificata: il supporto molecolare dell'emergenza
negli esseri viventi è, proprio come aveva previsto Schrödinger, un "cristallo
aperiodico", utilizzato come modello per la riproduzione ne varietur della sua stessa
struttura.
Potrebbe sembrare che questo estremo conservatorismo si opponga alla
variazione e quindi all'evoluzione; e in effetti vi si oppone. Risultato soddisfacente,
dato che l'evoluzione delle specie è in definitiva un fatto molto meno paradossale della
loro stabilità. Basterebbe ricordare che alcune di esse hanno continuato a riprodursi
senza modificazioni apprezzabili da quasi un miliardo di anni.
D'altra parte, la contraddizione fra stabilità ed evoluzione è solo
apparente. È facile vedere che il meccanismo della replicazione del DNA, che è destinato
a produrre copie conformi, in effetti consente di conservare non solo la norma specifica,
ma anche tutti i cambiamenti fortuiti sopravvenuti durante la riproduzione di questa
norma; perché è evidente che i meccanismi che assicurano la replicazione del DNA non
possono essere assolutamente infallibili. Se si verifica un incidente che produce un
errore nella riproduzione del programma, anche l'errore verrà conservato, riprodotto,
moltiplicato, a meno che non provochi la scomparsa della linea cellulare nella quale si è
prodotto, come succede certamente nella grandissima maggioranza di questi casi.
L'evoluzione, cioè l'emergenza di strutture complesse a partire da
forme più semplici, è dunque in realtà la conseguenza delle imperfezioni di quel
sistema di conservazione delle strutture rappresentato dalla cellula. La teleonomia quindi
certamente non "guida" l'emergenza evolutiva, ma al contrario vi contribuisce
soltanto quando commette errori, agendo in modo cieco e non mirato. E si può dire che gli
stessi avvenimenti fortuiti che in un sistema non vivente porterebbero, accumulandosi,
alla scomparsa di ogni struttura, nella biosfera hanno come risultato la creazione di
strutture nuove e sempre più complesse.
Tutto ciò che esiste nell'universo è frutto del caso e della necessità. Democrito
L'evoluzione delle specie in realtà non è, o non è più,
attualmente, il problema centrale della biologia. Le frontiere di questa disciplina, i
confini della Terra incognita oggi si situano piuttosto ai due poli dell'evoluzione: le
fonti prime dell'emergenza e le manifestazioni più raffinate della teleonomia; o in altre
parole, da una parte il problema della comparsa delle strutture primordiali dotate della
capacità di autoriprodursi, dall'altra quello del funzionamento della più evoluta fra le
strutture teleonomiche, il sistema nervoso centrale.
L'estrema difficoltà del primo di questi due problemi dipende dal
fatto che la cellula "moderna", la sola che noi possiamo studiare, è il
prodotto di miliardi di anni di selezione spietata, che ha accumulato un formidabile
apparato teleonomico nel quale ci è quasi impossibile distinguere ancora le vestigia
delle strutture primitive. Infatti, se il DNA è certamente il supporto materiale
dell'emergenza, di per sé esso è inerte e privo di proprietà teleonomiche. Queste si
manifestano soltanto nell'attività del sistema cellulare, il cui "progetto", in
definitiva, è la conservazione, della struttura del DNA, e quindi dell'informazione , che
essa rappresenta.
È interessante misurare il numero e la complessità delle operazioni
che la realizzazione di un progetto del genere richiede. Nel sistema vivente più
"semplice" che conosciamo, la cellula batterica, il metabolismo propriamente
detto, cioè l'insieme delle operazioni che assicurano la mobilizzazione del potenziale
chimico e la sintesi dei costituenti cellulari essenziali, comporta più di 2000 reazioni
covalenti, distinte e stereo-specifiche, la grande maggioranza delle quali ha una
complessità tale, che anche il più abile dei chimici organici non riuscirebbe a
eseguirle. Ciononostante, ognuna di queste reazioni è effettuata con un rendimento del
100 per cento, grazie all'intervento di un enzima, cioè di un catalizzatore specifico che
agisce elettivamente a livello di quell'unica reazione. Tutti gli enzimi appartengono alla
classe delle proteine, ma ognuno di essi è una specie chimica distinta; consistono di
macromolecole formate dall'assemblaggio di un certo numero (da 150 a 1500) di radicali
appartenenti a venti diversi tipi, i quali si dispongono secondo una sequenza
rigorosamente determinata.
Le proteine, oltre a essere responsabili di tutta l'attività chimica
della cellula, sono anche, grazie alle interazioni non covalenti e tuttavia specifiche cui
danno luogo, i supporti molecolari della morfogenesi celluare. Negli organismi
pluricellulari, la morfogenesi è assicurata da interazioni fra cellule o tessuti, di cui
Wolff ha descritto straordinari esempi. Anche in questo caso, benché non sappiamo ancora
dare nessuna interpretazione molecolare di tali fenomeni, la specificità delle
interazioni è dovuta, senza alcun dubbio, a proteine.
La realizzazione del "progetto" cellulare richiede dunque che
si verifichino, contemporaneamente oppure una dopo l'altra, le seguenti operazioni
principali:
1) La traduzione in strutture proteiche dell'informazione rappresentata
dalla struttura del DNA. Quest'operazione comprende la sintesi di molte classi di RNA, il
quale ha la funzione di intermediario nel trasferimento dell'informazione. In ciascuna
fase interviene un certo numero di proteine specifiche.
2) L'organizzazione, la strutturazione degli organuli cellulari,
assicurata da interazioni elettive fra proteine.
3) L'attivazione catalitica di circa 2000 reazioni organizzate in
sequenze parallele, divergenti, convergenti e cicliche, che assicurano allo stesso tempo
la mobilizzazione del potenziale chimico e la biosintesi dei costituenti chimici di base.
4) La sintesi di due mezze molecole di DNA, copiate direttamente
ciascuna su una mezza molecola del DNA preesistente.
5) La separazione delle due molecole risultanti, che precede il
meccanismo estremamente complesso della divisione cellulare.
Tutto questo marchingegno chimico funziona con un'efficienza che si
avvicina alla perfezione. In condizioni favorevoli, una cellula batterica realizza il suo
progetto (il suo "sogno", diceva François Jacob), che consiste nel riprodurre
il suo DNA e diventare due cellule, in circa venti minuti. Gli errori gravi, capaci di far
fallire il progetto, sono rari: in una popolazione in fase di crescita, la mortalità è
praticamente nulla. La sintesi di una molecola proteica, che comporta (assemblaggio di un
migliaio di amminoacidi in una sequenza definita con precisione dal DNA, si compie in meno
di un minuto e la percentuale di errori - in effetti, se ne verificano - non supera
normalmente l'uno per mille. Il rendimento energetico si avvicina al massimo possibile e
il rendimento materiale globale non è lontano dal 100 per cento.
È evidente che la potenza, la perfezione teleonomica di un sistema tanto complesso
implica un coordinamento rigoroso di tutte le attività, di tutti gli scambi di materia e
di energia che vi hanno luogo. In definitiva, l'esistenza stessa del sistema in quanto
tale si basa, più che sulle singole attività, sul coordinamento di queste attività.
Oggi sembra possibile riconoscere ad alcune classi di molecole una
specifica funzione di coordinamento. Queste molecole sono proteine, dette
"allosteriche", le quali sono dotate, grazie alla loro struttura, della
proprietà di associarsi elettivamente e reversibilmente con due o più specie chimiche
differenti, anche del tutto prive, l'una rispetto all'altra, di qualsiasi analogia
strutturale, affinità o reattività chimica.
Queste sostanze, che dal punto di vista chimico si ignorano e fra le
quali spontaneamente non avverrebbe alcuno scambio di energia né si eserciterebbe alcuna
mutua influenza, stabiliscono fra loro un'interazione elettiva grazie alla mediazione
della proteina allosterica. L'analisi di tali interazioni e la loro interpretazione è un
argomento sul quale oggi la ricerca è in pieno sviluppo; a esso intendo dedicare il mio
corso di quest'anno.
In questa sede mi limiterò a far notare alcuni punti essenziali: per
esempio, il fatto che queste interazioni, se pure a prima vista sembrano eccessivamente
complesse, possono venire spiegate, almeno in prima approssimazione, con una teoria
semplice nel suo principio ispiratore. Tale teoria si basa, in particolare, su
considerazioni di simmetria molecolare. La maggior parte delle proteine (dette globulari)
sono composte in effetti di un numero finito di sottounità simili, ognuna delle quali di
per sé è del tutto priva di simmetria. Ma si può dimostrare che queste sottounità
asimmetriche con ogni probabilità vengono assemblate in modo tale che la molecola
presenta gli elementi di simmetria di uno dei gruppi puntuali di rotazione. Queste
molecole costituiscono dunque quelli che si possono chiamare "cristalli chiusi".
Proprio sulla simmetria di queste strutture molecolari viene basata l'interpretazione di
una delle proprietà più notevoli delle interazioni allosteriche: la loro non-linearità.
Grazie a questa proprietà, infatti, le proteine allosteriche possono essere considerate
veri e propri amplificatori di segnali chimici, paragonabili dal punto di vista funzionale
ai relè amplificatori usati nei circuiti elettronici.
Ho usato il termine relè. In effetti, è il termine più opportuno,
perché la funzione delle proteine allosteriche è di stabilire una comunicazione, un
accoppiamento fra vie metaboliche le quali, pur essendo indipendenti dal punto di vista
chimico, acquistano il loro valore teleonomico solo alla condizione di coordinarsi
strettamente fra loro. L'essenziale, in definitiva, è il fatto che le interazioni
allosteriche sono gratuite, e ciò in diversi sensi. Prima di tutto perché, essendo non
covalenti e reversibili, fanno intervenire solo energie molto deboli. Ma soprattutto sono
chimicamente gratuite, perché non sono condizionate o limitate in nessun modo dalla
struttura, dalla reattività o dall'affinità delle sostanze fra le quali la proteina
stabilisce un'interazione. Questa dipende esclusivamente dalla proteina stessa, dalla sua
struttura dettata in tutta libertà dal DNA.
Da tutto ciò si vede chiaramente in che modo, grazie
all'"invenzione" delle proteine allosteriche, l'evoluzione molecolare ha potuto
liberare a poco a poco i sistemi viventi dai vincoli chimici (strutturali e termodinamici)
che altrimenti avrebbero impedito l'emergenza del prodigioso edificio funzionale
rappresentato dalla cellula così come noi la conosciamo oggi.
Resta il fatto che fino a oggi, benché le generalizzazioni teoriche
facciano intravedere una grande varietà di possibili applicazioni, la funzione essenziale
delle interazioni allosteriche è dimostrata sperimentalmente soltanto a livello
cellulare. Gli organismi pluricellulari sono potuti emergere solo in seguito alla comparsa
di nuovi circuiti di coordinamento. In ordine di complessità crescente, si devono
distinguere:
- i coordinamenti che derivano da interazioni dirette, di contatto, fra
cellule;
- le correlazioni endocrine;
- il sistema nervoso.
Tutti questi sistemi funzionano per il tramite di segnali chimici i
quali, in ultima analisi, agiscono a livello cellulare. Ancora oggi rimane quasi
totalmente sconosciuto il meccanismo d'azione molecolare di questi segnali, che si tratti
di mediatori dell'impulso nervoso come 1'acetilcolina o di ormoni come gli steroidi.
Un'ipotesi allettante è che queste sostanze possano fungere da ligandi allosterici; ciò
equivarrebbe a dire che di per sé esse sono prive di significato e che la loro
interpretazione come segnali dipende esclusivamente dal programma cellulare. Si potrebbe
capire allora come una stessa sostanza possa produrre effetti primari differenti a seconda
del tessuto o dell'organo recettore.
Tutte queste sono ancora soltanto congetture. È certo, in ogni caso,
che 1' embriologia, la fisiologia endocrina, la neurofisiologia e la biologia molecolare
sono chiamate fin da questo momento a trovare un terreno comune per affrontare insieme
questi argomenti e per chiarire questi problemi teleonomici fondamentali.
Posso dire che sarei sorpreso, e che la mia fiducia nell'unità del
mondo vivente sarebbe delusa, se quel prodigioso organo di coordinamento teleonomico che
è il sistema nervoso centrale dell'uomo non utilizzasse il mezzo di comunicazione
molecolare già scoperto dai batteri, rappresentato dalle interazioni allosteriche.
Supponiamo che questa congettura sia verificata. Avremmo allora il
diritto di dire che conosciamo il supporto fisico primo del pensiero, della coscienza,
della conoscenza, della poesia, delle idee politiche o religiose, il supporto fisico dei
progetti più nobili o delle più basse ambizioni?
Sì, certamente, noi dovremmo dire che tutto ciò, tutti questi esseri
che abitano in noi, sono in effetti contenuti, iscritti nelle deformazioni geometriche di
alcuni milioni di miliardi di piccoli cristalli molecolari. Dovremmo dirlo, come dobbiamo
riconoscere che le opere di Racine sono scritte in questo libro e le opere di Shakespeare
in quest'altro.
L'emergenza nella biosfera di un sistema differenziato di comunicazioni
intercellulari capace di trasferire i segnali riguardanti esperienze vissute da alcune
cellule ad altre cellule che si trovano lontano è certamente un evento notevole, legato
molto probabilmente all'acquisizione della motilità negli esseri pluricellulari, e quindi
associato a quell'altro evento rappresentato dalla differenziazione di un tessuto con
funzione meccanica: evento che, pur non essendo inevitabile, aveva la possibilità di
prodursi, dato che in ogni cellula esistevano già i supporti molecolari della
comunicazione e del coordinamento. Dal momento che si era stabilita una rete di
comunicazioni intercellulari quasi istantanee, si può considerare un fenomeno di
emergenza ancora più prodigioso, ma non un paradosso, il fatto che il sistema che ne era
responsabile sia diventato capace, in seguito ad altri eventi fortuiti, non soltanto di
stabilire un coordinamento centrale, ma anche di registrare, di elaborare, di trasformare
e di riprodurre l'informazione. Come sappiamo, il sistema nervoso centrale di molti
animali (e non solo di animali considerati superiori) è certamente in grado di compiere
tutte queste prestazioni, che sono particolarmente sviluppate nelle specie sociali per le
quali la comunicazione informativa fra individui è una condizione di sopravvivenza del
gruppo.
Ma di tutti questi eventi fortuiti, solo l'ultimo in ordine di tempo
poteva condurre all'emergenza nella biosfera di un nuovo regno, la noosfera, cioè il
regno delle idee e della conoscenza, nato nel giorno in cui le associazioni nuove, le
combinazioni creatrici realizzate da un individuo hanno avuto la possibilità di essere
trasmesse ad altri individui quindi di non perire con lui.
II sistema nervoso centrale dell'uomo, pur essendo più grande in
volume, non si distingue da quello degli altri primati per quanto riguarda le sue
strutture generali. E se, dopo Broca, si può riconoscere a certe parti dell'encefalo la
funzione di centro del linguaggio, non si può ancora dire se questa facoltà è legata
all'esistenza di circuiti particolari, presenti nell'uomo e non nella scimmia, oppure se
è associata all'accrescimento complessivo della capacità di registrazione e di
elaborazione del sistema. Sarei tentato di fare l'ipotesi che la comparsa del linguaggio
è stata resa possibile dall'emergenza di nuove interconnessioni, non necessariamente
molto complesse di per sé, in un preominide dotato fino a quel momento di un sistema
nervoso centrale poco più sviluppato di quello di una scimmia superiore attuale. Ma una
volta comparso, il linguaggio doveva conferire alla capacità di elaborare e di registrare
un valore selettivo immensamente più alto. In base a questa ipotesi, potrebbe darsi che
la comparsa del linguaggio abbia preceduto, forse di molto, l'emergenza del sistema
nervoso centrale proprio della specie umana e abbia contribuito di fatto in maniera
decisiva alla selezione delle varianti più adatte a utilizzarne tutte le risorse. In
altri termini, è il linguaggio che avrebbe creato l'uomo e non viceversa.
[...] sempre e sempre più i vivi sono dominati dai morti. Auguste Comte
Su quest'ultima riflessione che, vera o falsa che sia, appartiene
ancora al suo campo, il biologo, cultore di una scienza che non è qualificata come
scienza umana, dovrebbe forse chiudere il suo discorso per passare la parola ai linguisti,
agli psicologi e ai filosofi. Eppure la noosfera, benché sia immateriale e popolata solo
di strutture astratte, presenta forti analogie con la biosfera dalla quale è emersa.
Un'idea trasmissibile costituisce un essere autonomo, un ente, nel senso in cui si parla
di enti in matematica - dotato di per sé di emergenza e di teleonomia, capace di
conservarsi, di crescere e di diventare sempre più complesso. Di conseguenza, è
l'oggetto di una selezione della quale la cultura moderna è il prodotto attuale, ma in
piena evoluzione. Forse un giorno un uomo geniale saprà scrivere, come pendant all'opera
di Darwin, una "storia naturale della selezione delle idee". Si può vedere che
le leggi di questa selezione sono necessariamente molto complesse, perché operano a due
livelli, come nel caso di una specie parassita. II successo di un'idea dipende prima di
tutto dal suo potere d'invasione, che è certamente legato alla sua struttura individuale
e alla sua capacità di dominare o di assimilare altre idee, ma senza un rapporto
immediato con il valore selettivo di questa idea per l'uomo o per il gruppo che l'accetta.
Una specie parassita dotata di una virulenza e di una capacità di trasmissione tale da
portare a morte senza eccezione tutti i rappresentanti del suo ospite d'elezione
scomparirebbe essa stessa. Molte idee hanno avuto questa sorte, o l'avranno.
Analogamente, come certe differenziazioni estreme che inizialmente
hanno procurato un successo e poi, in un contesto ecologico modificato, hanno portato
interi gruppi all'estinzione (è il caso, per esempio dei grandi rettili dell'era
secondaria), così oggi si può constatare che l'estrema e superba rigidità dogmatica di
certe religioni (quali l'islamismo, il cattolicesimo e i1 marxismo), che ha favorito le
loro conquiste in una noosfera che non è più la nostra, diventa oggi per esse causa di
un'estrema debolezza che può portarle, se non alla scomparsa, per lo meno a laceranti
revisioni.
Il buon senso è la cosa più diffusa nel mondo. Tuttavia solo io, finora, ne ho capito
l'uso.
Parafrasi del Discours
Così vorremmo proprio conoscere quale sarà la sorte dell'idea più
potente che sia mai emersa nella noosfera: l'idea di conoscenza oggettiva la quale,
secondo una definizione che ne è stata data, ha come unica fonte il confronto sistematico
fra la logica e l'esperienza.
Non conosciamo bene neanche la storia di questa idea, che certamente è
antica quanto l'uomo; infatti nessun individuo e nessuna società sarebbero potuti
sopravvivere se non l'avessero messa in pratica. Molto probabilmente l'emergenza di questa
nozione è stata tanto difficile e lenta proprio perché essa era tanto profondamente
radicata nella prassi. Si può certamente spiegare così il fatto che intere civiltà,
anche fra le più raffinate come quella cinese, non siano mai arrivate a esprimerla,
mentre nell'Europa occidentale occorsero più di duemila anni, dai presocratici a Galileo
e a Cartesio, per preparare l'avvento della scienza moderna
Si tratta quindi di un'idea che, per la sua stessa semplicità, per la
sua apparente aridità, è quasi del tutto priva di potere d'invasione e di conseguenza è
totalmente disarmata di fronte a nozioni ricche di contenuto etico che pretendono di
offrire una soluzione al problema della condizione umana. Se in definitiva quest'idea,
nonostante tutto, si è imposta, è proprio per merito esclusivo del suo valore selettivo
al secondo livello: quello della prassi, dell'immenso potere che essa metteva a
disposizione degli uomini.
L'idea della conoscenza oggettiva s'imponeva, creava il mondo moderno,
non era accettata in sé e per sé; questo non succede neanche ora, e l'angoscia degli
abissi pascaliani che la sua luce rivela è più che mai presente. II vecchio mito
dell'albero della conoscenza testimonia che questi terrori sono antichi, ma è un poeta
moderno a dirlo:
Frères, làchez la Science gourmande Qui veut voler sur les ceps défendus Le fruit
sanglant qu'il ne faut pas connaître.
[Lasciate, fratelli, la ghiotta Scienza che vuol rubare sui rami proibiti il frutto
sanguinante che non bisogna conoscere.]
L'estraneità dell'uomo moderno nei confronti della cultura
scientifica, che pure tesse il suo universo, si rivela sotto ben altre forme, oltre che
nell'ingenuo orrore espresso da Verlaine. In questo dualismo io vedo uno dei mali più
profondi di cui soffrono le società moderne, causa di squilibri così gravi da minacciare
fin da ora la realizzazione del grande sogno del secolo XIX: l'emergenza futura di una
società non più costruita sull'uomo, ma per l'uomo.
Quali sono dunque le ragioni di questa estraneità? Se ne possono
riconoscere diverse, distinte ma convergenti.
Una prima ragione riguarda, semplicemente, tutto ciò che nella scienza
va al di là della comprensione immediata e intuitiva. Non si tratta soltanto della
relatività, della teoria dei quanti o dei meccanismi dell'emergenza molecolare. Le
tecniche generate dalla scienza moderna sono incomprensibili per la maggior parte degli
uomini e sono per essi una causa di umiliazione permanente (a meno che, per compensazione,
queste perplessità, amalgamate con miti antichi, non vadano a costituire una sorta di
neo-esoterismo, che sembra avere grande potere di penetrazione).
In secondo luogo, ci sono gli abusi di potere di cui in definitiva si
considera responsabile la scienza. Su questo argomento è sorta una ricca letteratura, e
già molto tempo prima dell'esplosione di Hiroshima è stato inventato l'archetipo dello
scienziato paranoico, che non si fermerà davanti al crimine pur di realizzare il suo
esperimento folle. Da Frankenstein al dottor Stranamore, passando per il professor
Moriarty, ce n'è una serie ininterrotta.
Ogni conquista della scienza è una vittoria dell'assurdo. McGregor
C'è poi un sentimento molto più profondo, più diffuso e più grave,
che già Kant confessava, secondo il quale la scienza fa dell'uomo un estraneo in un cosmo
che non lo considera più necessario e non ha più un posto da sempre destinato a lui. Che
l'uomo non abbia nessuna importanza nell'universo, che non vi eserciti nessuna funzione
essenziale e che solo per un caso vi sia emerso, tutto questo è il risultato principale
della scienza ed è anche il suo risultato più inaccettabile. Rifiutare questo risultato,
ricorrere alla trascendenza o a una qualsiasi entelechia universale non esige tanta ascesi
oggettiva e permette di assegnare alla nostra condizione umana un'origine che appare più
nobile e più significativa.
Si vede bene, d'altra parte, che le concezioni probabilistiche della
scienza moderna sono ancora più detestabili delle teorie meccanicistiche della fine del
secolo XIX. L'universo di Laplace faceva meno paura del nostro. L'uomo vi aveva da tutta
l'eternità il suo posto stabilito inevitabilmente, e per piccola che fosse questa
nicchia, era già qualcosa. Ma che l'uomo sia il prodotto di una somma incalcolabile di
eventi fortuiti conservati con grande cura, come crederlo, non dico in rapporto all'uomo
biologico, ma per lo meno in rapporto alle sue opere? In che modo il puro caso potrebbe
mai aver scritto l'Odissea, l'Andromaca o La passione secondo Matteo?
L'universo è riempito solo di rumori. L'uomo li sceglie e li usa per comporre a sua
immagine una musica di cui si meraviglia. McGregor
Si può calcolare la probabilità che una scimmia dattilografa scriva
le opere di Shakespeare. Questa probabilità è dello stesso ordine di quella di vedere
congelare l'acqua di una pentola messa sul fornello acceso. Si tratta di eventi che, come
dice Borel, sarebbero legittimamente considerati miracoli. Ma se queste opere, così come
sono state scritte da Shakespeare, devono la loro emergenza, in definitiva, a una somma di
avvenimenti fortuiti, la loro probabilità iniziale era la stessa di quella calcolata
considerando la scimmia come autore. Si tratta dunque di un miracolo.
Questo ragionamento inattaccabile ha un solo difetto: è applicabile a
qualsiasi accadimento particolare verificatosi nell'universo, poiché a priori la
probabilità di ognuno di essi era infinitesima. Ma l'universo esiste, bisogna pure che vi
accadano avvenimenti, che sono tutti ugualmente improbabili; e l'uomo si trova a essere
uno di tali avvenimenti improbabili. Egli è stato estratto a sorte! Deve disperarsi? Deve
rifiutare la scienza che ci impone concezioni di questo genere? Il tema della disperazione
dell'uomo convinto di essere qualcosa di assurdo e che rifiuta di esserlo ha alimentato
molte delle maggiori opere contemporanee.
La scienza delle cose esteriori non mi consolerà dell'ignoranza della morale nel momento
del dolore; ma la scienza della morale mi consolerà sempre dell'ignoranza delle scienze
esteriori. Pascal
Se pure non si prendono in considerazione conclusioni del genere -
questa paura davanti all'ignoto che rischia di scoprirsi, questo orgoglio ferito - resta
ancora l'argomento ultimo: che la conoscenza oggettiva ignora i valori; che, se ha potuto
distruggere i fondamenti tradizionali delle etiche religiose, per sua natura essa non può
proporne un'altra; e che la filosofia, poiché la sua funzione è prima di tutto quella di
stabilire un sistema di valori, dovrà pure cercarne le basi al di fuori o al di là, se
non al di qua della scienza.
Spero che mi si vorrà scusare se ho osato affrontare un argomento come
questo. Ma come potrebbe uno scienziato, e soprattutto un biologo, nascondere la sua
preoccupazione e la sua ansia davanti a questo inevitabile paradosso? Se è uno
scienziato, è perché ha scelto di diventarlo. Con questa scelta, egli affermava la sua
adesione a un certo sistema di valori, assumeva, in modo esplicito o implicito, un'etica.
Sceglieva una disciplina e accettava di sottomettervisi: una disciplina in effetti con
tutte le sue implicazioni ,di rigore morale, senza il quale il rigore logico e
l'obiettività sarebbero inaccessibili.
La scienza ignora i valori; la concezione dell'universo che oggi essa
ci impone non contiene nessun tipo di etica. Ma la ricerca costituisce di per sé
un'ascesi; implica necessariamente un sistema di valori, un' "etica della
conoscenza", di cui tuttavia non può dimostrare la validità.
Ci troviamo dunque davanti alla seguente contraddizione: le società
moderne vivono, affermano, insegnano ancora - senza peraltro crederci - sistemi di valori
i cui fondamenti sono crollati, mentre d'altra parte queste stesse società, , permeate di
scienza, devono la loro emergenza all'accettazione, il più delle volte implicita e fatta
da un numero molto esiguo di uomini, di quest'etica della conoscenza che esse ignorano.
Ecco le vere radici dell'alienazione moderna.
In che cosa consiste dunque questa etica, creatrice di conoscenza? Io
credo che essa sia ancora poco conosciuta, perfino dagli scienziati. Nietzsche non si era
sbagliato, quando ne denunciava con violenza il temibile segreto:
Tutte le scienze operano oggi al fine di distruggere nell'uomo l'antico rispetto di sé...
Impegnano il loro austero e rude ideale di atarassia stoica nell'alimentare nell'uomo
questo disprezzo di sé, ottenuto al prezzo di tanti sforzi, presentandolo come l'ultimo e
più serio titolo per la stima di sé...
Nietzsche
Ho ricordato poco fa che l'idea stessa di conoscenza oggettiva,
racchiusa in un primo momento nella pratica delle arti meccaniche, aveva impiegato secoli
per emergere come concetto nella noosfera. Ancora oggi si confonde spesso l'etica della
conoscenza con il metodo scientifico. Ma il metodo è un'epistemologia normativa, non è
un etica. Il metodo ci dice come ricercare. Ma chi ci comanda di ricercare, e a questo
fine di adottare il metodo, con l'ascesi che esso implica
Qui nasce un nuovo malinteso. Oggi si sente continuamente difendere la
ricerca pura, libera da qualsiasi contingenza immediata, ma questa difesa è fatta proprio
in nome della prassi, in nome delle potenzialità ancora sconosciute che solo la ricerca
pura è in grado di rivelare e assoggettare. Io accuso gli scienziati di avere spesso,
troppo spesso alimentato questa confusione, di avere mentito sul loro reale intendimento,
parlando di potenzialità mentre in realtà perseguivano l'unica conoscenza che veramente
importa loro. L'etica della conoscenza è radicalmente diversa dai sistemi religiosi o
utilitaristici che vedono nella conoscenza non il fine, ma un mezzo per raggiungerlo.
Il solo scopo, il valore supremo, il "sommo bene", nell'etica
della conoscenza, non è, confessiamolo, la felicità degli uomini, e ancor meno la loro
potenza temporale o le comodità della vita, e neanche il socratico "conosci te
stesso",: è la pura e semplice conoscenza oggettiva. Io penso che sia giusto dirlo;
che si debba sistematizzare questa etica, che si debba farne scaturire tutte le
implicazioni morali, sociali e politiche, che si debba diffonderla e insegnarla, perché,
avendo creato il mondo moderno, è la sola compatibile con esso. Non si dovrà nascondere
che si tratta di un'etica dura e vincolante la quale, mentre rispetta l'uomo in quanto
veicolo della conoscenza, definisce un valore superiore rispetto all'uomo stesso. È
un'etica conquistatrice e, per certi aspetti, nietzscheana, perché è una volontà di
potenza: ma di una potenza confinata solo nella noosfera. E un'etica che insegnerà di
conseguenza il fermo rifiuto della violenza e del dominio temporale; un'etica della
libertà personale e politica, dato che la contestazione, la critica, la costante rimessa
in questione vi trovano posto non solo come diritto, ma come dovere; un'etica sociale,
poiché la conoscenza oggettiva può essere stabilita come tale solo all'interno di una
comunità che ne riconosce le norme.
Quale ideale proporre agli uomini di oggi, che sia al di sopra e al di
là di loro stessi, se non la riconquista, mediante la conoscenza del nulla che essi
stessi hanno scoperto?
Jacques Monod Indice
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