IL POTERE DELLA
STUPIDITA'
Capitolo 1
Il problema della stupidità
Sono sempre stato afflitto e affascinato dal problema della stupidità umana.
A cominciare, naturalmente, dalla mia – e dalle tante cose stupide che ci
circondano, complicandoci la vita tutti i giorni. Basterebbe questa per
essere una grossa fonte di preoccupazione. Ma è ancora più allarmante quando
abbiamo l’occasione di scoprire come persone potenti e influenti prendono
“grandi” decisioni con “grandi” conseguenze.
Tendiamo abitualmente ad attribuire ogni sorta di decisioni sbagliate (o
catastrofiche) a intenzionale perversità, malvagità, astuta cattiveria,
megalomania, eccetera. Questi comportamenti ci sono – e in esagerata
abbondanza. Ma un attento studio della storia (come l’osservazione delle
cronache quotidiane) porta all’inevitabile conclusione che la principale
causa di terribili errori è una: la stupidità.
Questo è un fenomeno abbastanza noto. Uno dei modi in cui è stato riassunto
è il cosiddetto Rasoio di Hanlon: «Non attribuire a consapevole malvagità
ciò che può essere adeguatamente spiegato come stupidità».
L’origine di Hanlon’s Razor è un po’ misteriosa. È considerato un corollario
della cosiddetta “legge di Finagle” (Finagle’s Law of Dynamic Negatives) che
somiglia alla “legge di Murphy” (vedi capitolo 4). Si ispira al classico
“Rasoio di Occam” (ed è altrettanto tagliente). Non si ha notizia di alcun
autore chiamato Hanlon – probabilmente si tratta di una variazione fonetica
sul nome di Robert Heinlein, che aveva fatto quella constatazione nel suo
romanzo Logic of Empire (1941).
Il concetto è stato ribadito da Robert Heinlein in una frase ancora più
semplice: «Non sottovalutare mai il potere della stupidità umana».
Quando la stupidità si combina con altri fattori (come succede
continuamente) l’effetto può essere devastante. Spesso la stupidità umana è
all’origine di una catena di eventi che si complicano sempre di più, fino a
produrre conseguenze talvolta comiche, ma troppo spesso tragiche. In altre
situazioni la stupidità non è l’origine del problema, ma un’infinità di
comportamenti stupidi contribuiscono ad aggravarlo o a ostacolarne la
soluzione.
Una cosa che mi sorprende (o forse no?) è quanto poco studio si dedichi a un
argomento così importante. Ci sono dipartimenti universitari che si occupano
delle complessità matematiche dei movimenti delle formiche in Amazzonia o
della storia medievale dell’isola di Perim. Ma non mi risulta che ci siano
cattedre di stupidologia.
Nella letteratura di tutti i tempi ci sono molte opere che, in un modo o
nell’altro, ci aiutano a capire il problema della stupidità. Ma sono pochi i
libri che approfondiscono questo argomento. Ce n’è uno che ho letto quando
ero un ragazzino – e non ho mai dimenticato. Si chiama A Short Introduction
to the History of Human Stupidity di Walter Pitkin della Columbia University
ed era stato pubblicato nel 1932.
Pare che anche Jorge Luis Borges, nel 1934, avesse cominciato a scrivere una
Historia universal de la infamia, ma poi si fosse arreso davanti alla
vastità del tema, limitandosi a raccogliere alcuni esempi. Si dice che la
stessa cosa fosse accaduta a Gustave Flaubert, che dopo aver rinunciato a
compilare un’enciclopedia della bêtise trattò in parte l’argomento in un
romanzo incompiuto, Bouvard et Pécuchet (1881). Vedi Flaubert e l’ossessione
della stupidità
Vecchio com’è, è ancora un buon libro. Molte osservazioni del professor
Pitkin sono di grande attualità dopo ottant’anni.
Viene spontanea una domanda: perché un volume di trecento pagine si chiama
“breve introduzione”? Il libro si conclude con un epilogo: «ora siamo pronti
a cominciare lo studio della storia della stupidità». Poi... più nulla. Il
professor Pitkin era saggio. Sapeva che un’intera vita è troppo breve per
poter approfondire anche solo qualche frammento di un argomento così vasto.
Perciò pubblicò l’introduzione – e basta.
Secondo Walter Pitkin, quattro persone su cinque si possono definire
“stupide”. Si trattava, allora, di un miliardo e mezzo di persone – oggi più
di cinque miliardi. Naturalmente neppure Pitkin si aspettava che la sua
ipotesi potesse essere presa numericamente alla lettera. Ma, comunque, il
fatto è preoccupante – come vedremo nel capitolo 29.
Una fondamentale osservazione di Pitkin è che è difficile studiare la
stupidità perché manca una buona definizione di che cosa sia. Per esempio i
geni sono spesso considerati stupidi da una maggioranza stupida (non è
facile neppure definire che cosa sia il genio). Ma la stupidità palesemente
esiste. E ce n’è molta più di quanto possiamo immaginare nei nostri peggiori
incubi. Infatti governa il mondo – cosa ampiamente dimostrata dal modo in
cui il mondo è governato. (Vedi il capitolo 10 La stupidità del potere).
Anche Robert Musil nel suo Discorso sulla stupidità (1937) notava come fosse
poco studiato «il dominio vergognoso che ha la stupidità su di noi». E
diceva di aver trovato «incredibilmente pochi predecessori nella trattazione
di questo argomento».
In periodi più recenti la letteratura sulla stupidità è un po’ meno scarsa.
Benché ci siano alcuni altri libri interessanti, di cui si parla nelle
prossime pagine, tutti gli autori che hanno cercato di approfondirlo
confermano la scarsità di studi sull’argomento.
Insomma ragionare sulla stupidità vuol dire avventurarsi in un territorio
poco conosciuto, poco e male studiato, generalmente trascurato per un misto
di imbarazzo e di disagio. Come se tutti sapessimo di essere stupidi, ma
avessimo una gran paura di ammetterlo.
Proprio per questo mi sembra che sia il caso di prendere la lanterna di
Diogene e andare a vedere di che cosa si tratta. Se riusciremo a fare un po’
di luce forse la notte della ragione sarà un po’ meno scura.
* * *
L’essenza della stupidologia è un tentativo di spiegare perché le cose non
funzionano – e quanto ciò è dovuto alla stupidità umana, che è la causa di
quasi tutti i nostri, grandi o piccoli, problemi. E anche quando la causa
non è la stupidità le conseguenze peggiorano perché sono stupide le nostre
reazioni e i nostri tentativi di soluzione.
Questa analisi è essenzialmente diagnostica, non terapeutica. Il concetto
fondamentale è che, se riusciamo a renderci conto di come funziona la
stupidità, possiamo controllarne un po’ meglio le conseguenze.
Non possiamo sconfiggerla del tutto, perché fa parte della natura umana. Ma
i suoi effetti possono essere meno gravi se sappiamo che c’è, capiamo come
funziona, e così non siamo presi del tutto di sorpresa.
* * *
Alcuni lettori mi hanno fatto notare che sono troppo lunghe, nelle prime
pagine del libro, le citazioni di vari autori. Chi non è interessato alla
parte che segue la può tranquillamente saltare, almeno a una prima lettura –
e passare direttamente al secondo capitolo.
Ma mi sembra che sia corretto (pur nella generale scarsità di
approfondimenti sul tema) citare il fatto che esistono libri recenti sulla
stupidità, di cui alcuni offrono contributi interessanti. Una “bibliografia”
estesa porta a citare parecchi titoli, che in un modo o nell’altro
riguardano l’argomento, anche se raramente arrivano alle radici del
problema. Un “elenco ragionato” si trova online; qui mi limito ad alcune
delleosservazioni più interessanti.
Sono note ai lettori italiani le “leggi” di Carlo Cipolla, di cui si parlerà
nel capitolo 7. Ma prima, nei capitoli 5 e 6, si tratterà di due brillanti
autori, Cyril Parkinson e Laurence Peter, che non hanno scritto libri sulla
stupidità – ma aiutano a capire “perché le cose non funzionano”.
Sono interessanti, in questo senso, anche le opere di Scott Adams, che è
noto per la sua straordinaria serie di vignette satiriche “Dilbert”, ma ha
anche scritto libri sull’inefficienza delle organizzazioni. Fra cui uno
pubblicato nel 1997 con il titolo The Dilbert Future: Thriving on Business
Stupidity in the 21st Century che non è un trattato sulla stupidità, né una
profezia, ma (come gli altri testi dello stesso autore) un’acuta e ironica
analisi della degenerazione strutturale e culturale delle imprese.
Come in diversi altri testi, anche nel ponderoso saggio accademico Stupidity
di Avital Ronell (University of Illinois – 2003) ricorre la constatazione
che la stupidità è perennemente diffusa, insidiosa, difficilmente
definibile. «Benché non sia una patologia o un indice in sé di difetto
morale, la stupidità è connessa ai più pericolosi fallimenti delle imprese
umane».
La mancanza di studi e approfondimenti sulla stupidità è rilevata da quasi
tutti gli autori che trattano l’argomento. Per esempio José Antonio Marina,
in La inteligencia fracasada (2004), osserva che da secoli ci sono
molteplici (anche se discutibili) lavori sull’intelligenza – ma non sulla
stupidità. Da una diversa prospettiva Fausto Manara in Il sale in zucca
(2003) costata che «con i tempi che corrono l’intelligenza ha vita sempre
più difficile».
Anche Robert Sternberg, nella nota introduttiva a Why Smart People Can Be So
Stupid (Yale, 2002), osserva che «si spendono milioni di dollari nelle
ricerche sull’intelligenza, ma quasi nulla si fa per capire come viene
travolta da sconvolgenti atti di stupidità».
Il libro raccoglie saggi di vari autori su come le persone intelligenti si
comportano in modo stupido. È una compilazione accademica e aneddotica, ma
contiene alcuni commenti interessanti. A questo proposito vedi anche
Intelligenza, furbizia, dabbenaggine e stupidità di Gabriele Calvi in Social
Trends, novembre 2002 ).
È più interessante il contributo di James Welles. Nel 1986 aveva pubblicato
una prima stesura di Understanding Stupidity, che poi ha esteso e sviluppato
in successive edizioni. Anche questo autore – come Pitkin e Musil
cinquant’anni prima – osserva che la stupidità è uno dei problemi meno
trattati e approfonditi nello studio della storia e delle culture umane.
Welles ci fa notare che «Benché gli studiosi del comportamento umano abbiano
sistematicamente ignorato la nostra dilagante stupidità c’è un’enorme
produzione di letteratura scientifica sull’intelligenza. Eppure, vasta
com’è, porta a una conclusione predominante: nessuno sa che cosa sia.
L’unica cosa che sappiamo con certezza è che, qualunque cosa sia, non è mai
stata misurata con i test di intelligenza. Perciò, se siamo intelligenti,
non lo siamo abbastanza per sapere che cosa sia l’intelligenza e quindi non
sappiamo chi o che cosa siamo».
«Se è comprensibile – continua Welles – che si dedichi così tanto impegno
allo studio dell’intelligenza, è stupefacente constatare come il fenomeno
molto più diffuso, palesemente pericoloso e potenzialmente devastante, della
stupidità sia completamente trascurato. Si potrebbe leggere l’intera
letteratura delle scienze sociali senza trovare un cenno alla stupidità. Al
massimo ci si limita a metterla da parte come il contrario
dell’intelligenza, ma questo serve solo a rendere l’argomento ancora più
oscuro».
Ci sono altri autori, anche recentemente, che hanno constatato la difficoltà
di definire l’intelligenza – e ancor più la stupidità. Per esempio, nel
2006, Giovanni Sartori.
Fra gli autori italiani sul tema della stupidità è da ricordare Ennio
Flaiano, che non ha mai scritto un libro sull’argomento, ma ha dimostrato in
diversi suoi scritti di averne capito chiaramente la gravità.
* * *
Fare chiarezza non è facile. Dai commenti dei lettori sembra che questo
libro ci sia riuscito. I tre capitoli iniziali sono introduttivi, perché
prima di svolgere l’argomento è meglio definire alcune premesse. Comunque è
un libro che può essere letto in due modi: partendo dall’inizio, oppure
scegliendo fra i diversi argomenti secondo le proprie inclinazioni e
curiosità.
Tratto dal Libro Il Potere
della stupidità di Giancarlo Livraghi
L’UMANITA' DELL'INTERNET
Capitolo 3
Le vie della rete
sono infinite
La dimensione dell’internet è impressionante. Nel 1980 c’erano meno di 200
host internet. Nel 1990 erano 300.000. Nel 2000 100 milioni. Nel 2006 si
avvicinano a 500 milioni – e la crescita continua. (Vedi la cronologia e i
dati internazionali). I siti web, che nel 2000 erano meno di 20 milioni, ora
sono quasi 100 milioni.
Un “motore di ricerca” riesce a individuare miliardi di pagine online. Ma
quella è solo una parte dell’internet. La quantità di informazioni
disponibili (ma non sempre facilmente reperibili) è molto più grande –
nessuno sa come misurarla. Si stima la rete contenga una quantità di testo
superiore a quella di tutti i libri pubblicati dalle origini della stampa ai
nostri giorni.
Il problema (come abbiamo visto nel capitolo 1) è che all’enorme quantità
non corrisponde sempre la qualità. Con l’internet possiamo fare
straordinarie scoperte. Trovare cose che non potremmo mai scoprire in alcun
altro modo. Ma c’è anche un immenso affollamento di cose spesso inutili,
irrilevanti, o comunque diverse da ciò che interessa a ciascuno di noi.
Come trovare in rete ciò che vogliamo? L’impresa può sembrare disperata, ma
non lo è. L’importante è capire che ci sono tanti modi diversi per esplorare
la rete.
Le vie della rete sono infinite. I percorsi più interessanti sono i meno
ovvi. Spesso mi diverto a cercar di capire come le persone trovano cose (o
altre persone) in rete. E scopro che le vie sono più svariate e diverse di
quanto la più sfrenata fantasia possa immaginare. Ci sono maggiori
probabilità di arrivare alla scoperta di qualcosa per un percorso imprevisto
e “laterale” che con una ricerca ordinata e mirata.
Accade spesso, nella vita e nel lavoro. Ma ne siamo meno sorpresi. Perché,
pensiamo, “così è la vita”. Nell’internet, con tanto sfoggio di tecnologie e
di (presunta) organizzazione, ci aspettiamo percorsi precisi e lineari. Ma
non è così. La rete, come sa chi la conosce bene, somiglia più a un sistema
biologico, a qualcosa che cresce disordinatamente per l’intrico di tante
piante diverse, che a qualcosa di schematico e programmato.
Molte delle cose più interessanti che ho trovato in rete (e molte delle
persone più simpatiche che ho conosciuto) sono quelle che ho scoperto in un
modo inaspettato, quando credevo di fare tutt’altro.
Non sto dicendo, intendiamoci, che il modo migliore di usare la rete sia una
“navigazione” a casaccio e senza bussola. In quel modo si trova poco o nulla
– e di solito ci si stanca presto. Ma credo che sia importante (nella rete
come nella vita) il “pensiero laterale”; che la curiosità e la capacità di
cogliere nessi non sempre ovvi possano portare alle scoperte più
interessanti.
Questa capacità di sorprendere, di offrire l’inaspettato, è una delle
caratteristiche più interessanti della rete. Ma ci vuole lo spirito
giusto... l’attenzione ai dettagli... l’intuito per cambiare percorso quando
si coglie un segnale stimolante. Certo, si trovano vicoli ciechi... ma
quelli ci sono comunque... e non è difficile capire quali strade portano
verso una piccola scintilla di inaspettato e quali invece ritornano nel
solco dell’ovvio.
Lo studio del pensiero scientifico dimostra che tutte le grandi innovazioni
sono nate da una sintesi intuitiva. Ma anche senza essere Archimede, Newton
o Einstein ognuno di noi può fare scoperte molto interessanti con un pizzico
di curiosità e di fantasia.
Tutto questo, naturalmente, è vero da sempre, anche senza i sistemi di
comunicazione elettronica di cui disponiamo oggi. Ma nulla offre così tante
possibilità, così a portata di mano, come può fare la rete per chi ha la
curiosità e l’istinto della scoperta.
Questo è un problema per chi ci si aspetta qualcosa di più omogeneo e
lineare. Ma è una risorsa se si impara a usare la rete secondo la sua natura
mutevole e – apparentemente – illogica. Trovare, con percorsi non troppo
ovvi, informazioni, contatti e occasioni che ad altri sfuggono. Assecondare
l’imprevisto. Come diceva nel 1997 Kevin Kelly: «Spesso le informazioni più
interessanti sono oggetti in rapido movimento che volano sotto il livello
del radar».
Se ci fermiamo alla superficie della rete, alle cose un po’ troppo ovvie di
cui si parla sui giornali e in televisione, rischiamo di trovare solo una
ripetizione di ciò che ci somministrano i “mass media” – o delle solite
conversazioni al bar o nel corridoio di un ufficio. Usata così, la rete è
solo un altro strumento per fare sempre le stesse cose. Ma se diamo spazio
alla fantasia e alla curiosità possiamo fare molte scoperte. Trovare notizie
e informazioni che altrimenti sarebbero quasi irreperibili. Scoprire
ambienti in cui si parla di cose che ci interessano – per lavoro, studio,
approfondimento culturale o semplice divertimento. Conoscere persone che
altrimenti non avremmo mai incontrato.
L’internet ormai non è più una cosa “per pochi”. La usano, anche in Italia,
milioni di persone. Ma probabilmente non sarà mai “per tutti”. Perché la
parte più viva e interessante della rete è quella che interessa solo a chi
ha una buona dose di curiosità e il desiderio di scoprire idee, conoscenze,
ambienti, situazioni e persone. Di aprirsi alla diversità – e trovare
somiglianze inaspettate.
Ci sono, nella specie umana, due tendenze contrastanti; sempre conviventi e
mescolate. Una è quella del gregge: adeguarsi, imitare, obbedire. L’altra è
quella innovativa, curiosa, esploratrice. Anche nell’internet convivono,
necessariamente, i due modi di essere. Ma per i comportamenti succubi e
imitativi è solo una ripetizione di ciò che già avevamo con gli altri mezzi
di comunicazione. Per chi non si accontenta, per chi vuole esplorare,
innovare, andare oltre le apparenze... è uno strumento straordinario, che
offre possibilità mai conosciute prima. Per questa parte dell’umanità, “se
non ci fosse l’internet bisognerebbe inventarla”.
Tratto dal Libro L'umanità
dell'Internet di Giancarlo Livraghi
LE IMPRESE E L'INTERNET
Capitolo 8
Il valore delle
relazioni
Per cominciare sull’importante argomento delle relazioni in rete vorrei
cedere la parola a uno dei miei autori preferiti. Nel suo articolo Customer
service (21 giugno 1999) Gerry McGovern diceva:
L’e-commerce è più impegnativo di quanto si possa pensare. Si parla
dell’internet come di un fantastico strumento commerciale che permette di
vendere al mondo intero a costi enormemente ridotti. Troppo facile per
essere vero? Si, lo è.
Molti sovrastimano largamente l’internet come strumento di commercio, mentre
sottostimano i costi di una vera operazione commerciale online. Non si
diventa “e-commerce enabled” mettendo su un sito con un server sicuro. Non
basta essere “on the web” per diventare miracolosamente un’impresa globale e
far sparire improvvisamente – magicamente – tutti i problemi della vendita
in mercati stranieri – o anche solo nel mercato interno. Smettiamo di
sognare e guardiamo la realtà.
Uno studio condotto in 11 paesi da Consumers International e pubblicato nel
giugno 1999 dice che «benché comprare beni sull’internet possa dare vantaggi
ai consumatori offrendo convenienza e scelta, ci sono ancora molti ostacoli
da superare prima che i consumatori possano acquistare in rete con fiducia».
«Se le persone non si sentono sicure e tranquille con il commercio
elettronico, non useranno l’internet e tutte le rosee previsioni sullo
sviluppo commerciale della rete non si avvereranno» ha osservato il ministro
americano del commercio, William Daley.
Non basta vendere per sviluppare le vendite, come sanno bene tutte le
imprese di successo. Perciò mi sorprende che persone normalmente ragionevoli
perdano la testa quando si tratta di e-commerce. Parlano animatamente di
quante occasioni apre e di come ridurranno i costi a un centesimo di quelli
attuali.
Sì, l’occasione c’è; è grande e aperta. Ma sembra che ogni imprenditore e il
suo cane si stiano precipitando a cercare di approfittarne. È un mondo di
cane-mangia-cane – meglio stare attenti. L’internet non è la pietra
filosofale. I costi sono costi. Ciò che succede con la rete, come
nell’information technology, è che i costi non si eliminano, si spostano.
L’IT in certe aree ha ridotto i costi, ma ha ridotto anche la fedeltà dei
clienti; così aumenta il costo di trovare nuovi consumatori. L’internet fa
la stessa cosa. Ci sono imprese che investono milioni e milioni (di dollari)
per costruire e mantenere le loro marche nell’affollato ambiente online.
Possono aver bisogno di meno personale per gestire i siti web; ma chi lo sa
fare costa caro ed è difficile trovarlo. L’automazione non è tutto. Come
dimostra efficacemente lo studio di Net Effect, le persone desiderano
comunicare con altre persone prima di fare un acquisto. Se l’e-commerce non
diventa reale (cioè umano) le relazioni con i clienti saranno il suo tallone
d’Achille.
Questa analisi mi sembra importante perché porta a un’inevitabile
conclusione: la relazione è ciò che conta. E anche perché ci conferma che il
problema non è solo italiano. Il gigante (reale o immaginario) del
“commercio elettronico” mondiale ha ancora i piedi d’argilla. Il gioco è
aperto, quasi nessuno ha le idee chiare; solo Amazon e pochi altri hanno una
reale, consolidata esperienza.
Donna Hoffman e Thomas Novak della Vanderbilt University, che per anni hanno
dedicato molta attenzione a studi sulla rete, definivano il problema nel
loro documento Trustbuilders vs. trustbusters dell’11 maggio 1998.
I consumatori online vogliono uno scambio basato su un esplicito contratto
sociale costruito sulla fiducia. Ma i siti web commerciali sono i propri
peggiori nemici. Contrariamente alle opinioni diffuse, sconti, accessi ai
siti e servizi a valore aggiunto non incoraggiano i consumatori a rivelare
informazioni. La maggior parte degli utilizzatori di siti web non è
interessata a vendere i propri dati personali in cambio di incentivi
monetari o privilegi di accesso. I consumatori non considerano le
informazioni personali come una merce di scambio, contrariamente a ciò che
credono molti operatori commerciali in rete.
Perciò il modo più efficace per sviluppare relazioni con i clienti online è
guadagnarsi la loro fiducia... Sembra una cosa semplice, ma permettere che
l’equilibrio del potere si sposti a favore del cliente si dimostra difficile
per molte imprese perché è radicalmente in contrasto con le pratiche di
business tradizionali.
C’è un’obiezione, che ho sentito spesso. Le imprese devono far tornare i
conti. Gestire bene le relazioni con un gran numero di clienti è impegnativo
e costoso. Chi, specialmente in Italia, se lo può permettere? La risposta
non è sempre facile. Ma un fatto è chiaro: siamo davanti alla classica
equazione problem-opportunity. Coltivare efficacemente le relazioni può
sembrare complesso e difficile; ma dà grandi vantaggi a chi ci riesce. La
soluzione sta nella flessibilità. In rete si può procedere per tentativi
graduali; e ognuno può definire il suo ambito di azione che, soprattutto
all’inizio, si può basare su un numero limitato, quindi gestibile, di
relazioni.
Inoltre, puntare sulla fiducia e sulla qualità della relazione non è solo un
modo di gestire il dialogo diretto. È un modo di pensare, una disciplina, un
atteggiamento, che possiamo far percepire anche a quelle persone che non
cercano un colloquio con noi. Anche chi non scambia messaggi personali con
l’impresa ha molti modi per capire com’è impostata la relazione: giudicando
da come sono presentati i contenuti e le offerte, da ciò che pensano altre
persone che hanno avuto rapporti con quell’impresa e soprattutto dai fatti
concreti: cioè dalla qualità del servizio.
Tratto dal Libro Le Imprese
e l'Internet di Giancarlo Livraghi
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