Eravamo noiosi noi, proprio noi
oppure erano le frasi come "prendi tu il pane?", "al latte ci penso io" che,
ripetute giorno dopo giorno, riuscivano a svuotare anche il sentimento più
profondo?
Già, massacrato o quasi, così vedevo l'affetto che avevo provato un tempo.
Non sarà invece la crisi della mezza età? Avevo pensato subito dopo.
Certo ero invecchiato. Oh, nemmeno poi tanto, pensiero positivo di rimando.
Snello, ero ancora snello, forse un po' molle sull'addome, non tanto grave,
pensai.
Contrassi un muscolo del braccio, beh, quello funzionava ancora.
"Cosa stai facendo?" disse mia moglie abbassando il lavoro. Colto di
sorpresa.
"Perché stai contraendo il braccio?" non le sfuggiva nulla. "No, niente, è
che, oh beh, mi trovi invecchiato? Pensi che sia ancora attraente?" chiesi.
"Che domande, a me sembri sempre uguale" disse. Gentile. Rise e riprese il
suo lavoro.
Dovevo smetterla di pensare, per quella sera dovevo piantarla di rimuginare
scemenze.
Avevo però bisogno di qualcosa di nuovo. Ne ero certo.
Non dormo.
Ricordo un'altra notte, tempo fa, quanto non so più. Due bombe cadono vicino
al padiglione femminile. Veniamo svegliati dal rumore infernale e dalle urla
che provengono da quel settore.
Trambusto totale.
Meno male che sono qui, penso, ed è la prima volta che realizzo che, con
tutta probabilità, è meglio essere dentro che fuori.
Sono ancora nel reparto normale, lavoro ai maiali, io. Aprono la porta del
dormitorio e gli infermieri ci esortano ad uscire.
"Svelti, tutti sotto" dicono.
È la prima volta che ci spostano, forse perché non era mai scoppiata una
bomba, prima.
Scendiamo le scale di corsa. Attilio inciampa, quasi si ammazza. Non
l'uccide una bomba, ma una scala. Ironia della sorte, penso.
Ci sistemano nelle stanze di sotto.
Chi in lavanderia, chi nelle cantine; qualcuno dondola, qualcuno gesticola,
qualcuno urla.
Un attimo di calma poi altro vociare, grida più acute; arrivano le donne,
trasferite anche loro.
Scendono in disordine sparso.
Le suore vociano più delle pazienti.
Mi trovo in un angolino abbastanza buio e nascosto. Le luci sono spente ma
io, seduto a terra, ho sopra la mia testa, una bocca di lupo dalla quale
entra piano la luce della luna che illumina, appena appena, lo spazio
davanti a me. Sono tranquillo la guerra è fuori.
I miei occhi si sono abituati all'oscurità, vedo qualcosa di più.
Sento all'improvviso che qualcuno si siede vicino a me. Giro la testa e vedo
una ragazza; è abbastanza giovane e ha i capelli cortissimi.
Sorride, credo e ci guardiamo.
La osservo meglio ora mi sorride, ne sono sicuro. "Come ti chiami?"
bisbiglia.
"Antonio" dico "anzi no, Giulio".
"Insomma deciditi, o Antonio o Giulio" sussurra. "Fai tu, comunque sono io"
rispondo piano.
"Lo so" fa lei e mi chiedo cosa diavolo sa, forse niente.
Si avvicina ancora un po' ed io sento il suo corpo contro il mio.
Chissà perché mi viene in mente Alberto, mio cugino. Ricordo un'estate
caldissima passata nella casa dei nonni, in campagna.
Spazi enormi e noia assoluta.
Io e lui sotto la grande quercia. Pomeriggio.
"Lo sai come sono fatte le donne?" mi chiede a bruciapelo. "Beh sì e no"
rispondo un po' intimorito.
"Ah non sono come noi" riprende. "Bella scoperta, Alberto" dico.
"Sono vuote, lì" dice. "Vuote?" replico io. "Sì, peli e vuoto" continua lui.
"Non ti credo, tu dici sempre stupidaggini" e gli allungo una pacca sulla
spalla.
Chissà perché penso ad Alberto, alle sue teorie sul vuoto femminile ora che
sono nello scantinato ed ho una ragazza praticamente incollata al mio lato
destro.
Effetto manicomio, forse.
Fuori nel frattempo cadono altre bombe. "Tu come ti chiami?" bisbiglio
"Clara, lavoro in lavanderia" risponde. "Ah, io con i maiali" dico.
Sento una sua mano che mi accarezza la faccia, una sensazione piacevole,
rara qui dentro.
Non ricordo esattamente cosa accade dopo, ma so che la ritrovo seduta sopra
di me.
Si è alzata la divisa e armeggia con la mia. Lascio fare. Respiro piano
perché ho il terrore che qualcuno si accorga di ciò che stiamo facendo.
Riesco a infilare una mano sotto la tunica. Ha la pelle morbida, Clara.
Le tocco un seno, piano, è morbido anche quello.
Penso per un attimo ad Alberto e al vuoto; questo è decisamente un vuoto
bello, piacevole, caldo.
Ci muoviamo appena.
Sono fortunato, penso, molto fortunato.
Nessuno si accorge di noi, tanto che i miei piccoli, agili e filiformi
spermatozoi entrano nel vuoto di Clara, dolce, morbida Clara.
Da quando Giuseppe è morto, nessuno
può scendere più in giardino senza permesso. Dobbiamo essere accompagnati,
sempre.
Non mi resta che pensare, dondolare, ricordare.. i maiali sono
tranquilli, oggi.
Ho voglia di vedere Clara, ma ritengo il mio desiderio impossibile a
realizzarsi e mi siedo, controllando il monotono grufolare degli animali.
Arriva Vittorio e la cosa mi fa piacere. "Allora, che fai?" dice.
"Lo vedi da te, maiali e puzza" rispondo io.
Si siede vicino a me e si accende una sigaretta, lui fuma. Decido di
raccontargli di Clara, anche perché il solo parlarne mi fa sentire allegro e
poi, chi meglio di lui può capirmi? Vittorio ascolta il mio racconto e mi
guarda con aria compiaciuta, come per dire "sei dei nostri, amico" e fuma.
Ad un tratto, come scosso, mi dice "Perché non vai da lei?". "Ma dai"
replico io, "con tutta la sorveglianza che c'è!". Lui mi guarda "Volere è
potere" replica, frase questa che non
ammette discussioni.
"Ti copro io" prosegue "se arriva qualcuno dico che sei andato a portare un
maiale ferito dal veterinario".
Mi sembra un'idea assurda ma mi convince.
"Se ti dovessero scoprire" aggiunge "fai qualche tanto siamo in un
manicomio" e ride.
Cosa ho da perdere, in fondo? Mi chiedo. Mi alzo e decido di tentare la
sorte. Saluto Vittorio e lo ringrazio.
"Ma di che" mi dice guardandomi sempre con quell'aria complice.
Mi avvio, so la strada.
Arrivo vicino al padiglione femminile; ricordo che Clara lavora in
lavanderia e le lavanderie sono sotto.
Entro e non incrocio nessuno, sono fortunato, molto fortunato.
Scendo le scale, ancora nessuno; sento però parlare, qualcuno sta arrivando.
Allungo il passo e mi nascondo dietro un provvidenziale angolo. Due suore
passano poco più in là e non mi vedono. Sono sudato e ho il cuore in gola.
Percorro un lungo corridoio, procedo un po' a caso, finché sento un rumore
di panni sbattuti e acqua che scorre.
Non troppo difficile, in fondo.
Mi avvicino, la porta della lavanderia è aperta. Sbircio e vicino ad una
grande vasca, vedo Clara che sta lavando.
Oggi è proprio il mio giorno fortunato. Il cuore mi batte ancora più forte.
"Clara" sussurro. Ovvio, non mi sente con tutta quell'acqua. "Clara", ripeto
un po' più forte.
Per qualche misterioso motivo, la ragazza si volta e mi vede. Ho l'ansia.
Clara molla i panni, si asciuga velocemente le mani nel grembiule e mi viene
incontro guardandosi intorno.
Nessuno sembra accorgersi del suo spostamento e di me. Non riesco a dirle
nulla, in quanto mi trascina in uno sgabuzzino lì vicino.
La prima cosa che avverto entrando è un forte odore di urina, ci sono panni
sporchi tutt'intorno, ma non mi importa, sono con Clara.
"Sono felice di vederti" mi sussurra lei. "Anch'io" replico piano.
Si avvicina e quasi come la prima volta, mi accarezza il viso e mi bacia.
Ci sdraiamo vicino a lenzuola puzzolenti e quant'altro ma non mi interessa,
sono riuscito ad arrivare sino a Clara e questa, la conquista più importante
della mia vita qui dentro. Facciamo l'amore e non sento più né la puzza, né
l'ansia.
La stringo forte tra le mie braccia e le chiedo "Ma tu perché sei qui?"
"Oh", mi risponde "io sento le voci, non sempre però, ma quando le sento, mi
sembra che la testa mi scoppi".
Non so cosa dire e l'abbraccio ancora, forte.
Devo andare, prima che qualcuno si accorga che siamo spariti, ma non voglio
lasciarla.
"Spícco il volo sotto l'ombra di una luna bianca" dico d'un tratto.
"E poi?" chiede Clara.
"Atterro piano sopra un covone odoroso di fieno" aggiungo. "È una poesia"
proseguo, "l'abbiamo scritta io e la figlia di un amico di mio padre, Eva;
mio padre amava molto la poesia e mi spingeva a scrivere" le dico.
Ricordo.
Le racconto di quel pomeriggio in cui io ed Eva, non sapendo cosa fare,
ciondoliamo per casa.
Arriva mio padre e ci dice di prendere penna e fogli, una frase per uno,
scrivete una bella poesia, ci esorta.
Vengono fuori frasi buffe, stupide e alla fine questa, un verso lei ed uno
io.
"È molto bella" osserva Clara.
"Già" aggiungo io, "pensala quando sei triste o in ansia, oppure quando
senti le voci, ti farà bene, ti calmerà, vedrai". "Lo farò" dice baciandomi.
Devo proprio andare.
Esco dallo stanzino e mi allontano con cautela.
Sono decisamente fortunato, tanto che riesco a tornare dai maiali, indenne.
Vittorio, ancora li, mi guarda sornione ed io gli dico solo: "Spicco il volo
sotto l'ombra di una luna bianca, atterro pia¬no sopra un covone odoroso di
fieno".
Arturo Airoldi era un sergente
fatto e finito. Dritto e impettito anche senza uniforme.
Mi fece entrare in casa sua, rimanendo quasi sull'attenti mentre varcavo la
soglia.
Avrei voluto salutarlo con il tipico saluto militare, ma mi trattenni.
Mi fece accomodare su una poltrona decisamente scomoda, rigida e dura come
il suo proprietario. Si sedette di fronte a me.
Gli raccontai quanto stavo facendo e gli chiesi se lui avesse qualche
informazione utile.
Mi guardò ascoltando in assoluto silenzio, fumava. Probabilmente rifletteva,
perché dopo aver aspirato una profonda boccata di fumo, "Non ha pensato di
dare un'occhiata negli ospedali?" mi disse "Molti soldati si fingevano
malati o smemorati, veri lavativi senz'anima" sentenziò. Riflettei un
attimo.
In effetti Giulio poteva essere ricoverato in qualche ospedale, magari del
tutto privo di memoria.
Il sergente cominciò a parlare della guerra e mi raccontò alcuni episodi
della sua vita militare; partito, pensai per un attimo e chi lo fermerà?
Fu un'impresa farlo smettere, sembrava inesauribile, un fiume in piena,
avrei detto.
Prima di salutarmi mi diede il nome di alcuni ospedali dove qualcuno dei
suoi soldati era stato ricoverato e anche grazie al suo impegno, prontamente
dimesso.
Avrei fatto di più, pensai mentre mi allontanavo per raggiungere la mia
auto, avrei chiamato tutti gli ospedali, tutti, non dovevo lasciare nulla di
intentato.
Accesi il motore e apri completamente il finestrino, partii per raggiungere
il mio studio, avevo pur sempre fatto un piccolo passo in avanti.
L'aria che entrava mi muoveva tutti i capelli, guidavo e pensavo a Emma e al
suo bacio, avevo un'incredibile voglia di rivederla ma, al contempo, mi
sentivo in colpa.
Perché è tutto così difficile, pensai, perché non ci si incontra mai?
Si è sempre sfasati, o troppo avanti o troppo indietro. Dov'era stata Emma
finora? E io?
Riflettei.
In ufficio tutto il giorno, la notte a casa e la domenica? A messa da mio
fratello, ovvio.
Ma che vita intensa, la mia...
Dovevo resistere pensai, forse con il tempo avrei dimenticato tutto e anche
questo strano sentimento che ora provavo, sarebbe svanito, perso nel tempo e
nello spazio, ma vivo e non consumato dal quotidiano.
Rimasto per sempre inalterato in un angolo della mia memoria.
Era poi vero quello che stavo pensando?
Presto avrei scoperto che ci sono percorsi che, pur non volendo, siamo
inevitabilmente chiamati a percorrere e che segnano per sempre la nostra
esistenza, imprimendo in essa quel senso e quell'unicità che la fanno nostra
e solo nostra. Dovevo telefonare agli ospedali, ecco quello che dovevo fare,
basta pensare, mi dissi.
Salii nel mio studio e mi diedi da fare.
Quando finalmente mi risedetti
nell'ufficio del primario provai una sensazione di enorme sollievo. Lì
almeno si respirava.
Anche il dottor Ottini pareva contento di essere di nuovo alla sua
scrivania.
"Vede" mi disse subito "il caso Blumen è la triste storia di un uomo
sfortunato" aggiunse.
"La conosco solo perché è stata la prima cosa che l'usciere mi ha raccontato
non appena sono arrivato qui" disse. "Forse è una leggenda o forse è
realmente accaduta così come me l'hanno raccontata, non so..." continuò "o
forse ne circola una analoga in ogni manicomio, chissà...." concluse. Mi
raccontò così la vicenda di questo strano piccolo uomo, rinchiuso in
manicomio per volere dei genitori che, resisi conto che questo loro figlio
non sarebbe mai cresciuto, pensarono in un certo qual modo di liberarsene.
Crudele ma, dal loro punto di vista, necessario. Non potevano permettersi di
mantenere un'altra bocca da sfamare che, peraltro, non poteva essere di
sostegno in alcun modo. "Troppo basso per svolgere qualsiasi lavoro nei
campi, troppo scomodo e, nonostante le dimensioni, troppo ingombrante",
concluse così il primario.
Raccontò ancora di come in realtà lui fosse stato assolutamente normale e di
come, con il tempo passato in manicomio, fosse divenuto sempre più strano.
"Si racconta" disse il dottor Ottini, "che parlasse solo in rima.
"Ma perché, lo chiamavano Blumen?" chiesi.
"Beh" proseguì il primario "per quello che so era proprio lui che voleva
essere chiamato Blumen" terminò.
Un uomo normale rinchiuso in manicomio solo perché troppo basso di statura,
pazzesco, pensai.
Il dottor Ottini a quel punto, mi chiese "Come faceva a sapere del caso
Blumen?"
Spiegai in modo abbastanza vago al primario perché sapessi quella parola ed
allora lui mi domandò "Quale relazione pensa possa esserci tra questa parola
e la persona che sta cer¬cando?"
"Questa è una bella domanda, dottore" risposi "eppure una relazione deve pur
esserci" continuai.
Ancora adesso mi chiedo cosa scattò esattamente nella mia mente.
Non saprei dirlo con certezza, non so se furono le parole del primario a
farmi ulteriormente riflettere, ma sta di fatto che quasi improvvisamente
chiesi "E se guardassimo in archivio e cercassimo un paziente ricoverato
come Blumen?" "Possiamo provare" disse il primario alzandosi. Tornammo a
scartabellare fogli impolverati. Finché d'un tratto il dottor Ottini disse
raggiante "Guardi qua, c'è un paziente ricoverato con questo nome", continuò
"noi però lo chiamiamo da sempre, solo Antonio". Leggeva ora attentamente
quel foglio.
"È affetto da una sindrome maniacale-depressiva" mi disse ancora.
Io in quel preciso momento percepii l'assurdità di tutta quella vicenda.
Un medico subentrava ad un altro e tutto rimaneva immobile e proseguiva in
modo identico, senza scosse, quasi come se il vecchio primario non fosse
nemmeno morto. Probabilmente si seguiva la routine quotidiana, senza porsi
troppe domande e senza farsi troppi problemi.
Bastava questo a rendere il dottor Ottiní meno inquietante? Oppure era la
realtà manicomiale che vedeva esseri umani parcheggiati in un angolo di
mondo lontano e quasi in un'al¬tra dimensione, fuori dalle regole, fuori dai
controlli?
Non sapevo, non avevo termini di paragone, per me quel luogo era
assolutamente sconosciuto e misterioso. "Dobbiamo farlo chiamare" disse il
primario come scosso "e lei lo deve vedere" concluse.
Tornammo nel suo studio ed il dottor Ottini chiamò due infermíeri e chiese
loro di portare Antonio.
Io decisi di aspettare nel corridoio, ero troppo curioso. Mentre attendevo
pensai tra me che avrei voluto vedere Antonio da solo e, comunque fosse
andata, non avrei voluto far sapere al primario nulla in particolare. Non si
sa mai, riflettei.
Attesi ancora finché non sentii gridare e non vidi sul fondo del corridoio
avanzare una figura curva che urlava.
Mi venne in mente il mio sogno e provai una strana sensazione.
Avevo ora Antonio di fronte a me, indossava una camicia di forza, era
scortato dai due infermieri e continuava a ripetere il suo nome.
Entrai nello studio del primario e gli chiesi di poterlo vedere da solo. Non
ci furono problemi e poco dopo eravamo nello studio, assolutamente soli.
Continuava a ripetere di essere Antonio e dondolava; ricordo, mi si strinse
il cuore. Decisi allora di prendere la fotografia e di osservare Antonio
attentamente. Anche se la persona che avevo di fronte portava la camicia di
forza e aveva un'aria pallida e smagrita, non ebbi dubbi, era lui.
"Giulio" gli dissi d'un tratto "Giulio Balzani, non ci posso credere... ti
ho trovato" e lo abbracciai anche se continuava a dondolare.
Aveva paura, era terrorizzato, chissà chi pensava che fossi, dovevo
tranquillizzarlo.
Pensai che forse vedere la fotografia lo avrebbe calmato e così gliela
mostrai dicendogli anche "Sei tu e questo è il tuo cane".
Non sembrò convinto, infatti continuò a dondolare e ripetere di chiamarsi
Antonio.
Improvvisamente cominciò a ripetere pezzi della poesia che Emma mi aveva
detto al bar.
Gli presi la testa tra le mani e gli chiesi di guardarmi, non so perché lo
feci ma quasi senza riflettere dissi anch'io un verso di quella breve
poesia.
Giulio si fermò e si mise a piangere; io gli dissi che era tutto finito, di
non avere paura, che sua madre lo stava aspettando.
"Mamma" disse e cominciò a ripetere "Giulio, Giulio, Giulio" anche se mi
pareva come inebetito. Infatti ripeté di essere Antonio. Oddio, pensai.
"Sei Antonio, ma anche Giulio" dissi per tranquillizzarlo.
Mi disse di non volere l'elettroshock e io, pur non sapendo di cosa si
trattasse, affermai "Mai più" e aggiunsi anche "ti porterò via di qui".
Nonostante avesse fatto un passo indietro io lo abbracciai di nuovo e lo
tenni stretto.
Perché Giulio si trovava in manicomio? Mi chiesi.
Cosa aveva spinto Tullio Balzani ad organizzare un piano del genere
all'insaputa della moglie? Mi domandai ancora. Avrei dovuto chiarire molte
cose con Emma, prima fra tutte proprio questa. Giulio, nel frattempo,
sembrava essersi calmato, il mio abbraccio gli aveva fatto bene, ne ero
certo.
Brani tratti dal romanzo TUTTO IN
UN'ESTATE di Daniela Negri
Massetti Rodella Editori
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