FORUM DEL DAIMON CLUB

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UN OTTIMA ESPERIENZA ARTISTICA

Non è sempre facile trovare negli Istituti Tecnici Industriali degli insegnanti che danno la giusta importanza al valore dell'arte e dei suoi cultori, ma all'Itis di Brescia ho visto un bel lavoro eseguito dalla classe II   L e voglio quindi riportare in questo spazio un breve riassunto del loro operato. Vi è una sola cosa che rimpiango e cioè il fatto di non poter vedere in linea tutto il lavoro e quindi l'impossibilità di mettere un link a questa bella ricerca. Per il resto devo fare i miei complimenti a B. Francesco che del resto non conosco, ma di cui riporto il seguente passo che è anche l'introduzione del sopracitato lavoro: "Per ricordare quest'anno scolastico si è scelto il lavoro sulle opere d'arte. d'impostazione "batesoniana".  Bateson, infatti, l'eclettico scienziato autore di Verso un'ecologia della mente, sostiene che il cervello, essendo una realtà sistemica, va stimolato in più parti, funzioni: solo così si determina una conoscenza, un apprendimento vero. Si intuisce quindi cosa intenda Bateson quando afferma che "due descrizioni sono meglio di una" nel senso che una ad esempio scaturisce dall'emisfero sinistro (analitico, oggettivo) e un'altra da quello destro (soggettivo). Come gli antichi filosofi, anche Bateson pensa inoltre che la conoscenza si articola nel dialogo: ecco che allora conia il termine "Metalogo" per indicare un dialogo su un argomento problematico. La conoscenza, però, non passa solo attraverso la ragione: si apprende anche con i suoni, con le immagini. Ecco quindi il concetto di illusione, gioco (da in-ludo:gioco dentro) come modalità di apprendimento che varchi la soglia del razionale, o meglio del razionante. E' questa, in parte, la modalità con cui ci si accosta all'opera d'arte. Ed è stato questo il compito di quest'anno: ciascuno ha scelto un'opera, tra tante, l'ha osservata per qualche giorno, poi ha elaborato, in cinque sessioni di lavoro, le descrizioni, i metaloghi, le illusioni riferite dalla medesima, per arrivare a definire il concetto di opera d'arte, a conclusione di un processo di osservazione, esplorazione, rivisitazione." Orbene io ho letto in parte questo lavoro e devo dire che i dialoghi immaginari tra gli artisti che hanno composto i vari quadri e gli studenti che hanno svolto questa ricerca sono veramente stimolanti, e sono sicuro che questa esperienza, oltre che certamente positiva da un punto di vista didattico-metodologico e culturale rimarra per sempre nella mente di questi studenti e costituirà col passar degli anni anche un bellissimo ricordo.  Indice


ARRIVA IL SUPERDIPLOMA

L'annuncio è stato dato dal ministro e così il super diploma dovrebbe partire entro l'anno, ma vediamo di cosa si tratta. Già tutti più o meno sanno che dopo il diploma di scuola superiore è già possibile per molte specializzazioni fare dei corsi universitari biennali o triennali che conferiscono un diploma universitario, ora anche a distanza (si consultino a questo proposito i link nelle pagine dedicate all'istruzione del daimon club), ma evidentemente questo è un altro tipo di super diploma. Per chi insomma considera la laurea troppo incerta e difficoltosa e la laurea breve ancora troppo lunga nasce questa super specializzazione che è sostanzialmente un corso di formazione ed istruzione superiore, cioè l'IFTS. I corsi sono a numero chiuso e riguardano alcune delle aree di interesse delle tecnologie applicate, la loro durata varierà dai due ai quattro semestri e saranno organizzati dalle regioni. I docenti di questi corsi dovranno essere reclutati per un 50% dal mondo della produzione e delle professioni del lavoro. Le lezioni non saranno legate ai tradizionali calendari scolastici, ma saranno più flessibili. In pratica alla fine del corso che prevede tra le altre cose molta pratica e anche stage in azienda lo studente, se idoneo, riceverà il suo super diploma che gli consentirà anche di proseguire gli studi, sempre che ci sia la volontà di farlo. Di questo progetto sperimentale non è dato sapere molto di più, bisogna però ricordare che l'Italia ha il più basso numero di diplomati e di laureati in Europa, ed il più alto numero di abbandoni scolastici, sia nel ciclo secondario, sia in quello universitario. Dobbiamo poi aggiungere che sempre l'Italia ha il più alto numero di disoccupati laureati in Europa e che il tempo medio per trovare lavoro tra gli studenti in possesso di un diploma qualsiasi è sempre il più alto in Europa. Alla luce di queste considerazioni, non vorrei che alla fine, magari i super diplomati troveranno anche lavoro, ma nel frattempo quelli che già avevano una laurea rimarranno ancora disoccupati, come magari tutti gli insegnanti precari che lavorano 5 o 6 mesi all'anno, senza nessuna garanzia, nel massimo della flessibilità e guadagnando una miseria. Di certo questo non avverrà per i docenti prelevati dalle aziende che di sicuro avranno un trattamento migliore. Anche perché dovranno formare dei super diplomati e non dei miseri laureati come hanno fatto fino ad ora le nostre università.  Indice


GLI ULTIMI IN EUROPA

Come si può facilmente evincere dai dati forniti nei diversi articoli riguardanti la scuola presenti sia in questa sezione, sia nelle pagine delle news del club, l'Italia in questo settore, ma non solo, è come al solito l'ultima della classe in Europa.  Secondo un'indagine della Uil infatti la nostra nazione è proprio la cenerentola d'Europa, il paese cioè che in assoluto spende meno per la scuola: il 3,84 per cento del prodotto interno lordo, contro il 7,3 % della Finlandia che è invece al primo posto e il 4,1 % del Regno Unito che è al penultimo. Certo i buoni propositi dei governanti ci sono, ma come al solito sono falsi e chi li prende per buoni ancora una volta non è che un illuso. La scuola non produce ricchezza per le industrie e per il business della stupidità, quindi molto meglio il calcio, la televisione, i giornali, dei libri scadenti e le varie lotterie, il tutto condito con un bel po' di fede e di corruzione, tanto per ben preparare la nazione al giubileo del 2000. Che di allegro, perlomeno per la scuola non avrà proprio niente, anzi!! A tutto ciò dobbiamo poi aggiungere che nell'ultimo trentennio la popolazione scolastica si è praticamente dimezzata, scendendo dai cinque milioni di iscritti negli anni del boom ai due milioni e seicentomila attuali, con in previsione un ulteriore calo. Certo ci sono pur sempre gli immigrati, ma non tutti sembrano avere la voglia o le possibilità di andare a scuola, anche perché tanti di questi ci sono già andati nei loro paesi e con l'unico risultato di dover emigrare e venire nella ricca europa a fare i mendicanti, i delinquenti o a prostituirsi.
Avvicinandoci dunque al 2000 possiamo ben dire che la nostra nazione sta diventando sempre più ignorante e indifferente nei confronti di tutti quegli investimenti che invece dovrebbero garantirci un futuro migliore. E questo lo si vede benissimo dalle attuali condizioni del nostro sistema educativo, in tutti i suoi livelli. E' inutile dire che così facendo diventeremo sempre più dipendenti dalle altre nazioni che invece investono nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie. La fuga dei cervelli all'estero ne offre una lampante conferma. In pratica gli unici cervelli che rimangono qui da noi sono quelli che si dedicano allo studio della stupidità, anche perché si capisce sin troppo bene che l'italia per questo tipo di ricerche offre il terreno più fertile ed idoneo.
Per tutta riposta comunque il governo dell'Ulivo, forse troppo intento ad oliare i meccanismi del potere, affinché possano durare più a lungo, non se ne cura minimamente e come al solito oltre che a dire un mucchio di fesserie e a prendere tempo non fa assolutamente nulla. Questo anche perché il vicepresidente del consiglio è troppo occupato a rilanciare il cinema, vero settore dello sviluppo e della diffusione della cultura, vero serbatoio della memoria di tutte le civiltà, passate e future, come sostiene modestamente Spielberg. Certo è pur vero che loro così facendo ci guadagnano un bel po' di soldi, a scapito ovviamente di tutti gli operatori della scuola, che ormai guadagnano di meno di un lavavetri albanese ai semafori. Eh già, e allora visto che stanno così le cose, vedete che hanno ragione il governo e le industrie, a che cazzo serve studiare tanto, molto meglio rimbecillirsi con la televisione ed il pallone, al limite un posto da tifoso o da personaggio del pubblico si può sempre rimediare. E poi, siamo sinceri,  per fare la carità o diventare un delinquente non serve studiare molto, o no! 
In ogni caso nel vasto ed eterogeneo panorama scolastico italiano non è tutto poi così negativo, prendiamo l'edilizia scolastica per esempio. A parte le zone terremotate e disastrate del sud in cui i containers la fanno da padrone, non dobbiamo dimenticare tutte le altre grandi realtà prefabbricate del resto d'Italia dove l'ambiente è decisamente più confortevole. Prendiamo ad esempio la Scuola Media Silvio Pellico di Abbiategrasso dove i forti temporali dei giorni scorsi hanno ridotto il prefabbricato ad un colabrodo. La controsoffittatura è caduta, c'è un grande squarcio nel tetto e la scuola è allagata. I tecnici dell'amministrazione comunque non hanno mai dichiarato inagibile la struttura, e poi se le cose dovessero peggiorare ci sono pur sempre i container, o no! Per l'inverno si intende, d'estate poi anche gli antichi filosofi greci insegnavano all'aperto. E' più naturalistico ed ecologico. Dalla vita del resto non si può pretendere tutto e poi le università sono indubbiamente e decisamente migliori.   
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LA RICERCA QUALITATIVA.

L'importante in ogni ricerca, sia essa di tipo qualitativo, che quantitativo è sapere cosa cercare, il come ne é una conseguenza, perché é la cosa cercata che impone una o l'altra delle metodologie.
La ricerca qualitativa si presta ad essere applicata a situazioni micro-relazionali, reali, quindi osservabili e affrontabili soltanto da vicino. In queste situazioni il ricercatore deve immergersi, non deve rimanere uno spettatore impassibile, ben conscio però che la sua soggettività andrà ad influire sulla rilevazione dei dati che sta compiendo. E questo fatto non deve essere sentito come una fonte inquinante, (forse perchè dal particolare non si può trarre nessuna generalizzazione?) ma come una risorsa, perchè è in grado di rivelare la presenza di elementi che sfuggono invece ad ogni determinazione di tipo oggettivistico. Blanchet ci ricorda, a questo proposito, che "la soggettività del prodotto informativo è una proprietà intinseca ad ogni tipo di intervista e, per questo, l'informazione "estratta" dalla biografia di B, suppone un'ulteriore attività di manipolazione (attraverso l'analisi del contenuto) da parte di A, corrispondente all'inevitabile interpretazione del messaggio raccolto"
Il ricercatore che si avvale di un'analisi qualitativa, opera per raccogliere impressioni, rappresentazioni individuali o collettive di specifici fatti e esperienze umane, la loro analisi e disaggregazione allo scopo di far luce sui fatti immediatamente visibili, o di portare alla luce i fatti non immediatamente percepibili, che stanno sotto il mondo delle nostre immediate percezioni quotidiane, non opera dunque sui grandi numeri, né si avvale di strumenti matematici. Egli in questo senso, non è interessato al numero dei casi, ma alla enucleazione del maggior numero di aspetti e informazioni ricavabili dal caso umano singolo o contestuale.
Il lavoro micro-pedagogico del ricercatore si svolge quindi per ingrandimenti e per focalizzazioni lente o repentine, volte a cogliere la parte come un tutto in sé. Il particolare riconduce alla totalità-complessità e il frammento diventa l'oggetto della ricerca perchè il particolare non rimanda che a se stesso.
Per poter ottenere quelle informazioni che rivelino l'essenziale delle situazioni analizzate, il ricercatore dovrà badare non solo ai fatti che agiscono nel sistema e alle norme interne (senza però doversi preoccupare se le regole individuate valgono anche in altri contesti), ma soprattutto ai suoi attori e ai loro interventi più significativi, cercando di stabilire contatti diretti con essi. Inoltre per accedere alla qualità dei fenomeni, dovrà analizzarli da più punti di vista (dall'esterno e dall'interno).
La ricerca di tipo qualitativo, avviata più da un'idea guida, che da un'ipotesi o gamma di enunciati da verificare, resta comunque sempre aperta a variazioni e ad aggiustamenti, che possono intervenire strada facendo. In tal senso, il ricercatore qualitativo, deve essere per primo disponibile a tollerare l'ansia delle modificazioni inevitabili che un simile percorso reca con sé, a servirsi di organizzatori mentali sicuri ma, allo stesso tempo, propenso a rielaborare il proprio pensiero. In ogni caso, il ricercatore qualitativo è consapevole del fatto che impara nel corso della ricerca. E questa, si configura quindi sempre come un "viaggio esistenziale" oltre che professionale.
Quindi un'ulteriore caratteristica della ricerca qualitativa è costituita dalla sua inevitabile valenza trasformativa. Non solo perchè si fa ricerca qualitativa per scoprire che cosa è possibile cambiare, ma perchè l'inclusione del ricercatore cambia di fatto la situazione ingerendo nuovi equilibri o squilibri.
Inoltre il ricercatore qualitativo, per il fatto che opera nella complessità e nell'incertezza non è esonerato dall'operare con ragionamenti coerenti rispetto agli intenti, alle mosse operative, alla finalizzazione del lavoro; al contempo deve dar conto, a se stesso e agli altri, delle risorse metodologiche cui ricorre.

RUOLO DELL'OSSERVATORE E DEGLI STRUMENTI DA LUI ADOTTATI.

Il ricercatore-osservatore, in genere produce dei resoconti scritti di quanto ha osservato. L'osservazione é sempre presente nelle procedure di ricerca, in particolare nell'indirizzo qualitativo. Importante è conoscere sempre i criteri utilizzati nell'elaborazione del materiale.
Esistono poi anche gli scambi verbali casuali o finalizzati, o speciali, (in tal caso parliamo di interviste e colloqui, fondamentali nella ricerca qualitativa), attraverso i quali il ricercatore raccoglie elementi utili.
Nelle modallità discorsive, il ricercatore, deve mantenere uno stile di conduzione definito, ma non direttivo, basato su domande che implichino il più possibile l'impiego del monologo da parte del soggetto. Mentre nella ricerca quantitativa è più d'uso l'intervista che il colloquio, nella ricerca qualitativa, il colloquio è un procedimento di ricerca che utilizza un processo di comunicazione verbale tra due o più persone per raccogliere informazioni in rapporto ad uno scopo pre-determinato.
Tre specifiche procedure, inerenti il colloquio sono:
1.La procedura non-orientata. 2.La procedura mediante suggerimenti vincolanti. 3.La procedura mediante reattivi.
La prima procedura, si basa sull'impiego di pochissime domande riguardanti impressioni, sensazioni, stati d'animo, emozioni... Tutto ciò che il soggetto narra, anche quello che non attiene al colloquio è interessante per il ricercatore, per ricostruire la narrazione attorno ad alcun argomenti o rappresentazioni reputati significativi.
La seconda procedura, si presenta più attenta al rispetto da parte del soggetto della traccia del colloquio, che in genere è guidato da un testo strutturato, al quale il ricercatore deve attenersi e vincolare gli interlocutori. In questa modalità, inoltre è opportuno utilizzare degli accorgimenti e interventi verbali, per raccogliere il massimo delle informazioni nel breve tempo dell'incontro.
La terza modalità si serve di "reattivi": in tal caso, il soggetto o i soggetti, devono interagire rispetto a immagini, disegni, fotografie, letture brevi, per mettere a nudo la loro personalità. (Claudia Giacomazzi, tra le altre cose, dirige sul web la Rivista di Trieste) Indice


BUSH, LA GUERRA E L'ECONOMIA AMERICANA

Ormai è certo che si farà la guerra. Contro l'Iraq, contro l'Iran, contro la Siria o la Libia, contro la Somalia o il Sudan, o contro tutti i paesi musulmani messi assieme, non si sa. Quello che è certo è che gli strateghi del Pentagono e quelli della Casa Bianca messi assieme hanno deciso che l'unico modo per risollevare le sorti dell'economia statunitense è una guerra generalizzata che rilanci l'apparato produttivo americano e allo stesso tempo dia conforto alle dissanguate tasche degli amici e degli amici degli amici.
Parlo dei petrolieri, che da una guerra generale nei confronti del mondo arabo ricaverebbero un'impennata del prezzo del petrolio facendo un po' di cassa, e poi il controllo dei pozzi dei paesi musulmani dell'ex impero sovietico con relative pipe-lines fino al mar Nero o all'oceano indiano.
Si tratta, quindi, di una guerra dura e lunga che consenta di ristrutturare l'apparato produttivo americano e che tenga sulla corda gli europei prima che si mettano in testa di impadronirsi loro del petrolio ex sovietico per magari fondarci un'Europa forte e unita.
Le premesse, nella testa dei geni della strategia statunitense ci sono tutte. La situazione è simile a quella del 1929, con una crisi comatosa della domanda e relativa sovrapproduzione, con il crollo delle borse, con la disoccupazione e le monete che saltano una dopo l'altra. Allora la questione fu risolta dalla seconda guerra mondiale, grazie alla fattiva collaborazione di nazisti e fascisti che, in nome di una strategia ancora più vecchia e perdente, quella della conquista territoriale, giustificarono la reazione del mondo anglosassone e la distruzione del predominio europeo.
Però se le similitudini in apparenza ci sono, questa volta la guerra non risolverà proprio nulla anzi, aggraverà la situazione di crisi mondiale e ci condurrà al disastro.
Vediamo di indagarne le ragioni.
L'economia degli anni trenta era basata essenzialmente ancora sull'agricoltura, che occupava oltre il 60% della popolazione attiva, mentre oggi gli addetti all'agricoltura negli USA non superano il 2% del totale degli occupati.
La produzione industriale prevalente era quella pesante, con l'acciaio in prima fila e la produzione di beni di consumo non era certo paragonabile a quello di oggi. Anzi, fu proprio il fordismo e la spinta che dette al consumo di massa che fece percorrere al sistema produttivo americano i primi passi per uscire dalla crisi.
La pubblicità era un ornamento curioso, non certo un'industria, il turismo una pratica per ricchissimi annoiati o curiosi, la televisione non esisteva, e la radio era controllata completamente dagli apparati ideologici dello Stato, e non era certamente annoverabile tra le attività produttive.
La sovrapproduzione degli anni trenta fu causata da una crisi finanziaria senza precedenti, dovuta all'incetta di oro e metalli preziosi che gli anglo americani avevano effettuato nel periodo successivo alla prima guerra mondiale. Le sanzioni pesantissime a carico della Germania, contro le quali invano si batté J. M. Keynes che le definì folli, e le distruzioni cagionate dalla guerra sul territorio europeo, impedirono la ripresa ai paesi europei vincitori della guerra, principalmente Francia e Italia, mentre la Russia fu presa nel vortice della Rivoluzione d'ottobre, e in Spagna la crisi endemica portò alla guerra civile di lì a pochi anni.
La risposta europea al dominio finanziario anglo americano, fu la militarizzazione con l'intento di conquistare con le armi nuovi mercati.
Insomma, mentre alla crisi del dopoguerra i paesi europei diedero una risposta ideologica, gli anglo-americani si garantirono il potere finanziario per mezzo del controllo dei metalli preziosi, che erano in quel tempo alla base delle emissioni di moneta cartacea.
Dicevamo che la sovrapproduzione riguardava, allora, non già i beni di consumo come oggi li intendiamo, ma i beni strumentali e l'industria pesante. Allo stesso tempo, la disoccupazione nelle città era altissima e nelle campagne la mancanza di liquidità causò una grave depressione dei prezzi dei prodotti agricoli portando alla miseria vasti strati di popolazione già in condizioni precarie.
La guerra, quindi, risolveva contemporaneamente molti problemi. Intanto, toglieva dalle città la massa di sbandati che ingrossavano le fila dei disoccupati dalle industrie e dall'agricoltura mandandoli a morire al fronte.
In secondo luogo, se comprimeva all'osso i consumi popolari, che peraltro erano già pericolosamente prossimi alla sussistenza per la maggioranza della popolazione, creava una domanda enorme di beni di consumo di produzione industriale, ovvero di armi. Allo stesso tempo irreggimentava la popolazione e depotenziava, con le parole d'ordine del patriottismo e della difesa della patria, i pericoli di esplosioni violente del dissenso da parte delle classi subalterne.
Insomma si trattava della classica buca keynesiana, però a differenza della buca in terra, la guerra aumenta la produttività dei popoli facendo leva sullo spirito patriottico e sulle parole d'ordine della difesa della patria.
Che cos'è la buca di Keynes? Per dimostrare l'utilità delle opere pubbliche e del relativo indebitamento, Keynes fece un esempio paradossale che troppo spesso viene preso alla lettera da quelli che non hanno compreso lo spirito delle sue opere. Mettiamo che non ci siano opere da realizzare, ma che lo Stato ugualmente ingaggi due squadre di operai, la prima che scava una buca in un terreno e la seconda che la va a riempire. Ebbene, anche questa attività così inutile innesca il moltiplicatore keynesiano, poiché gli operai di entrambe le squadre guadagneranno del denaro per il loro inutile lavoro (ma loro non devono saperlo che è inutile), lo spenderanno per vivere e faranno di nuovo circolare del denaro che farà partire di nuovo la produzione industriale, nuova occupazione, altra spesa e così via di seguito.
Questo esempio chiarisce il concetto di circolo virtuoso nel processo economico, mentre il contrario è dato da una situazione in cui la domanda è debole e questo costringe le imprese a ridurre l'occupazione, che a sua volta genera un ulteriore calo della domanda e così via di seguito, giù giù fino in fondo.
Qual è il fondo? La situazione in cui i consumi non sono più comprimibili pena la morte per fame di un numero rilevante di individui. E allora dal fondo si esce o con una guerra, che toglie comunque di mezzo un po' di bocche da sfamare, oppure attraverso il debito pubblico che, in una situazione di consumi all'osso, stimola la domanda di quel tanto da indurre nel sistema produttivo abbastanza forza da far ripartire il circolo virtuoso.
E' necessaria una data forza finanziaria per far ripartire il sistema, una qualunque iniezione di denaro non è di per sé sola sufficiente a far partire il meccanismo. Però, più il livello del fondo è in basso, minore forza sarà necessaria per innescare un circolo virtuoso. E' per questa ragione che i paesi poveri, quando nasce un processo di sviluppo industriale, hanno tassi di crescita spettacolari che poi mano a mano si riducono fino a non superare il 3%.
L'altra ragione per cui si verifica questo fenomeno, è data dal fatto che all'inizio del processo di sviluppo il debito dello Stato è relativamente irrisorio rispetto al PIL e quindi ci sono ampi margini di indebitamento che consentono di innescare processi multipli di moltiplicazione.
Con la crescita del debito, deve necessariamente crescere anche la pressione fiscale e questa finisce per deprimere l'economia, fino a che un evento catastrofico non faccia ripartire il sistema produttivo e la relativa appendice fiscale da zero. Tra gli eventi catastrofici, oltre alla guerra, intendo anche un'inflazione estrema, come quella che sconvolse la Germania negli anni venti o quelle che periodicamente affliggono il sud America, ma lo stesso discorso vale per un terremoto o un'alluvione a carattere regionale, sempre che ovviamente, l'ente pubblico abbia abbastanza spazio nel propri conti per assumere il consistente debito che è necessario al moltiplicatore.
Riassumendo, affinché la guerra possa fungere da volano per l'economia, sono necessarie alcune condizioni, vale a dire:
1) Che la guerra sia di massa, con milioni di uomini al fronte e milioni di donne in fabbrica e nei campi a produrre. Insomma l'intera popolazione deve essere impegnata nello sforzo di guerra affinché essa abbia un'incidenza congrua sul PIL.
2) Che la guerra sia sufficientemente lunga ed estesa in modo da impegnare mano a mano l'intero paese nello sforzo per sostenerla.
3) Che il paese abbia la capacità tecnologica per sostenere una ricostruzione profonda del sistema produttivo e la popolazione sia convinta della giustezza della guerra e quindi sia disposta ai sacrifici che le vengono richiesti.
4) Che il sistema economico abbia raggiunto il fondo o lo raggiunga per effetto della guerra, in modo da consentire all'apparato produttivo di riconvertirsi pressoché interamente alle necessità della guerra.
5) Che lo Stato abbia la possibilità di indebitarsi e quindi, se è gravato da precedenti debiti, che questi vengano in qualche modo cancellati.
Per il processo di ripresa economica, non ha molta importanza che la guerra sia vinta o perduta. La guerra del Vietnam, che rispose solo in parte alle condizioni anzidette, fu però sufficiente a generare una certa ripresa economica negli Stati Uniti. Ovviamente è diverso il discorso se la sconfitta in guerra è totale, ma in quel caso, come accadde ai paesi europei dopo la seconda guerra mondiale, basta una sufficiente iniezione di moneta per innescare un circolo virtuoso che porti il paese a superare le condizioni precedenti la guerra in pochi anni. La stessa cosa accadde nel Giappone dopo il conflitto e l'occupazione militare americana.
Ci sono le condizioni, oggi, affinché una guerra faccia riprendere l'economia?
Apparentemente, come dicevamo, la situazione attuale presenta delle similitudini con quella dopo il 1929. La crisi verticale della borsa durante il 2001, e segnatamente del Nasdaq, ricorda quella dell'autunno del 1929, che fu poi seguito da tre anni di depressione e di continue discese dell'indice fino a che il DJ di allora arrivò a quotare nell'autunno del 1932 un decimo del massimo raggiunto nel 1929.
Non siamo a questo livello di caduta, ma i 1300 punti di oggi sono circa un quarto del livello raggiunto dal Nasdaq nel marzo 2000, e la discesa non sembra essere finita qui, né al Nasdaq né, tanto meno al DJ.
Oggi come allora, la crisi è di sovrapproduzione e la debolezza della domanda impedisce al sistema produttivo di ripartire. La disoccupazione non è di massa come allora, nel senso che in una qualche misura gli ammortizzatori sociali funzionano ancora, però le continue riduzioni di personale da parte delle grandi Corporation statunitensi (da ultima l'IBM con 15.000 licenziamenti), non favoriscono certo una ripresa della domanda di beni di consumo e, in questo clima, nessuno si azzarda a tirare fuori i soldi per fare investimenti.
D'altra parte, il problema, ora come allora, è che i soldi non ci sono. Si tratterebbe di indebitarsi contando su una ripresa del mercato, ma la cosa è troppo rischiosa, e peraltro, le imprese e le famiglie sono troppo indebitate per poter sopportare ulteriori quote di indebitamento.
E' un po' come nella storia del lago e dei fiori di loto.
I fiori di loto crescono raddoppiando ogni anno. Mettiamo che un grande lago sia occupato in una sua piccola parte da fiori di loto. Essi raddoppieranno ogni anno, ma noi vedremo il lago riempirsi a poco a poco, e per raggiungere la metà del lago i fiori di loto impiegano un certo numero di anni. Un osservatore esterno potrebbe pensare che occorreranno altrettanti anni prima che il lago si riempia del tutto, mentre a quel punto manca un solo anno a che i fiori lo coprano interamente.
Nei rapporti tra economia reale e finanziaria, la situazione è descrivibile in maniera analoga. Sono occorsi circa trent'anni, affinché le operazioni di pura speculazione finanziaria aumentassero di volume in misura tale da superare le operazioni legate a contratti reali, e pochissimi anni perché le attività di speculazione arrivassero a coprire pressoché la totalità delle operazioni finanziarie. Adesso il lago è pieno e non c'è più spazio per un'ulteriore espansione della popolazione dei fiori di loto.
In altri termini, la crisi precipita con estrema rapidità, lo spazio del lago, ovvero dell'indebitamento complessivo, si è riempito del tutto, e non c'è modo di uscirne se non distruggendo i fiori, ovvero il debito.
Una guerra, oggi, non sarebbe una guerra di massa poiché sarebbe condotta da pochi (in riferimento alla popolazione) e specializzatissimi "rambo" professionisti della guerra, con tutto il loro arsenale di micidiali arnesi tecnologici.
Quindi non risolverebbe alcun problema di disoccupazione (che peraltro è ancora relativamente contenuta negli USA dove oscilla intorno al cinque per cento), né accelererebbe in maniera significativa la produzione di armi, almeno non come fece durante la seconda guerra mondiale, quando l'intero apparato produttivo era orientato alla produzione bellica.
Per quanto possano essere costosi i missili che gli americani tirano addosso ai loro presunti nemici, poiché non c'è nessuno in grado di costruirne di tali da ingaggiare seriamente un conflitto su quel piano, il loro numero non inciderà più di tanto nella formazione del PIL americano.
Durante la seconda guerra mondiale gli americani costruirono centinaia di migliaia di aerei, carri armati, navi, cannoni, mezzi da sbarco e impiegarono nella guerra milioni di uomini pressoché in tutto il mondo. Oggi, un'estensione di questo genere del conflitto contro Bin Laden e soci è del tutto impensabile. Durante la guerra del 1991 contro l'Iraq, i paesi occidentali impiegarono non più di 500.000 militari nelle varie competenze e, in un anno di guerra circa, ebbero complessivamente perdite per qualche centinaio di unità, per lo più dovute a errori di mira degli stessi militari occidentali. Il primo anno della seconda guerra mondiale, portò qualche milione di morti sui vari fronti ed all'impiego di armi in proporzione decine di volte superiore a quello dispiegato nel 1991.
Se pure Bush dovesse attaccare di nuovo l'Iraq, non ci sarebbe alcuna mobilitazione generale, né alcuna significativa incidenza sull'industria. Certo, i suoi amici, armaioli e petrolieri, qualche effimero vantaggio l'otterrebbero, poiché gli uni costruirebbero più missili e gli altri vedrebbero aumentare il prezzo del petrolio da una situazione di tensione nei paesi arabi. Appunto vantaggi effimeri, o meglio interessi privati in atti di ufficio, poiché per la nazione americana le ricadute dell'incremento di produzione di armi sull'economia non ci sarebbero e l'aumento del prezzo del petrolio sarebbe un onere e non un vantaggio.
Non solo, ma il clima di incertezza e di paura che diffonderebbe nel mondo una guerra continua, rafforzerebbe la sfiducia nel sistema che già è endemica in tutto l'occidente e quindi accelererebbe l'avvitarsi della crisi. A prescindere, infatti, dalle difficoltà tecniche ad indebitarsi ulteriormente, nessun imprenditore sano di mente farebbe debiti per investire in un clima di guerra e di totale incertezza, così com'è necessario che il futuro venga dipinto proprio per giustificare la guerra. E, se pure l'incremento di spesa dello Stato fosse finanziato con una politica di deficit spending, l'effetto moltiplicatore, sul quale ho molti dubbi, sarebbe assolutamente marginale, e alla fine l'effetto sicuro sarebbe una ulteriore crescita del debito pubblico che arricchirebbe soltanto i pochi amici di Bush.
A meno che la situazione non precipiti in tutto il mondo, e la guerra al terrorismo si risolva in un piano di controllo militare del mondo intero, dal sud America all'Asia, dal Medio Oriente all'Oceania, dall'Europa orientale fino all'Africa intera.
In quel caso, assisteremmo alla militarizzazione degli Stati Uniti, alla trasformazione della sua popolazione in poliziotti universali, con milioni di persone sotto le armi per combattere la guerra totale al resto del mondo, in nome del dollaro e degli interessi delle Banche e delle lobbies finanziarie.
Però, nemmeno questo alla fine risolverebbe i problemi l'economia, nemmeno dopo la fine della guerra, se mai una guerra del genere giungesse da qualche parte. Il problema del debito resterebbe comunque in piedi, e la bolla finanziaria non cesserebbe di esercitare i suoi effetti nemmeno in una situazione del genere.
Il punto è che la produzione è divenuta essenzialmente immateriale ed una guerra finirebbe per distruggerla. I soldati al fronte non consumano né film, né partite di calcio, né software non fanno i turisti e non navigano in internet e, per quanto la loro attività sia compresa sotto la voce servizi, la loro capacità di consumo sarebbe infinitamente inferiore a quella che avrebbero pure se restassero disoccupati a casa. In altri termini, la guerra sostituirebbe nella attuale voce servizi del PIL americano, un unico prodotto, quello militare, all'enorme varietà offerta di immateriale che oggi compone quella voce.
Se pensiamo che l'immateriale copre adesso oltre il 70% del PIL americano, ci rendiamo conto che affinché la sostituzione sia, non solo efficace, ma in grado di rilanciare l'economia, il tenore di vita della stessa popolazione americana dovrebbe essere drasticamente ridimensionato fino a ritornare pressappoco alla situazione ante seconda guerra mondiale.
Nessun presidente, ma nemmeno un dittatore sanguinario potrebbe sostenere a lungo una situazione del genere. Un processo di militarizzazione totale della società statunitense è oggi, inimmaginabile. Esso comporterebbe la chiusura della maggior parte dei media americani, delle attività di spettacolo, la militarizzazione delle multinazionali e della ricerca scientifica, la irreggimentazione della borsa e delle attività finanziarie, la chiusura delle attività legate al turismo ed al tempo libero, il controllo totale di internet e la destinazione della produzione di software essenzialmente per le attività militari, il che comporterebbe la fine dell'open source e di ogni libertà di iniziativa. Ciò comporterebbe il fallimento di due terzi delle società quotate alla borsa di New York, ed un drastico ridimensionamento delle superstiti. Insomma, il mondo di Orwell al confronto sarebbe una specie di paradiso terrestre.
Allo stesso tempo i consumi alimentari dovrebbero ridimensionarsi in maniera radicale, e così i consumi di qualunque altra specie di prodotti, soprattutto di quelli di importazione. Il dollaro attuale finirebbe per valere come la carta straccia ed un nuovo regime monetario dovrebbe essere creato per il nuovo modello economico dell'economia di guerra. E se questi possono essere gli effetti della militarizzazione negli USA, nel resto del mondo la situazione sarebbe affatto peggiore, soprattutto in una Europa che vedrebbe anch'essa ridurre drammaticamente le proprie principali industrie (turismo e media) e non potrebbe partecipare all'opera di militarizzazione totale a meno che non decidesse di fare la guerra agli USA. In quel caso, potremmo pensare davvero di chiudere il mondo ed andarcene in un altro pianeta.
Che cosa lascerà, allora, la guerra di George? A parte i morti, la paura, gli attentati, e tanta rabbia dappertutto, sul piano economico essa porterà un po' di denari ai suoi amici e tanta miseria nel resto del mondo, a partire dal sud America che si sta avvitando sempre più in una crisi irreversibile.
La crisi delle borse peggiorerà e forse per davvero, come scrissero Soros e Ravi Batra nell'ormai lontano 1998, il DJ scenderà a 4.500 e il Nasdaq a 800 punti, vale a dire la metà di oggi o giù di lì.
Noi italiani, con l'euro sempre più forte, saremo tra i primi a pagarne le conseguenze. Già adesso il settanta per cento delle famiglie ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Se dovessero calare le esportazioni per via della forza dell'euro, e contrarsi ancora la nostra principale industria, il turismo, ci si potrebbe trovare in una situazione simile a quella argentina, costretti nella camicia di forza dell'euro ed impossibilitati a creare moneta in altro modo.
Il vecchio sistema di creazione di moneta era la svalutazione, ma adesso non si può più, poiché essa è saldamente nelle mani della BCE, vale a dire degli interessi tedeschi, in primo luogo, e francesi in seconda battuta.
L'autunno si preannuncia caldo, anzi caldissimo, e se non troviamo rapidamente una via d'uscita, l'inverno sarà bollente. I borbottii che si levano da molti paesi europei sui vincoli di Maastricht, fanno pensare che la situazione sia al limite della governabilità.
In questo quadro, si tratta di trovare al più presto una maniera per uscire dalla logica del debito e del governo della finanza. Quella dei Titan è una proposta (vedi in http://www.informationguerrilla.org/una_proposta_di_finanza_alternativa.htm) Forse ci sono altre possibilità, non c'è limite alla fantasia quando la necessità aguzza l'ingegno. Ma è necessario fare presto, non c'è rimasto molto tempo.   Domenico de Simone   Indice

 
 
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