BARESANI CAMILLA

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I Viaggi

Dai tempi ormai remoti dell’invito di Alberto Arbasino a farsi almeno una gita a Chiasso, non molto è cambiato. Viaggiano tutti - e sempre più lontano -, le segretarie, gli studenti, chiunque abbia accesso a uno stipendio, se non suo almeno del coniuge o dei genitori: ma gli scrittori no, restano a casa . C’è, è vero, l’esiguo drappello degli autori di grande successo, che compiono ciclici tour presso i loro editori stranieri, fiere del libro e conferenze; e qualcuno che magari è riuscito a strappare una collaborazione con una rivista di viaggi: ma la gran parte sconta la sua esistenza a casa, con pochi soldi da spendere, in una stanzialità pensosa come stesse sempre scrivendo un libro. Del resto gli scrittori italiani tradotti all’estero, specialmente nei paesi di lingua anglofona, sono una rarità, e dunque - da fuori - l’immagine italiana rimane quella frastagliata di sempre, fatta di un’elitaria cultura classica, vestigia del passato, mentre in ambito contemporaneo si è autorevoli o perlomeno noti in settori più artigianali che artistici, i vini, la gastronomia, il design, la moda, il cattivo gusto televisivo. Se, per esempio, guardiamo l’Italia dalla Russia, abbiamo una conferma di quest’inesportabilità assodata della produzione letteraria e cinematografica contemporanea italiana. In un paese che ha subito un tale radicale rinnovamento potevano esserci gli spazi per promuovere un’immagine della nostra cultura che puntasse sulla contemporaneità. Ma i trend intellettuali della nuova borghesia post-comunista si sono immediatamente adeguati all’ormai consolidata spartizione geografica delle arti, appena mitigata da certe mode fusion o etniche che hanno attraversato tutte le forme di arte e artigianato nell’ultimo decennio. E, quindi, anche lì cinema e letteratura e musica anglosassone, la solita moda italiana dilagante, e per il resto tutti ricordano Adriano Celentano, Sophia Loren e Dante Alighieri. Non rimane che una proposta: se l’Italia narrata o filmata dagli autori italiani all’estero non interessa, toccherà a noi autori muoverci e raccontare quello che sta fuori, nell’ennesima variante del nostro destino da emigranti. Da parte mia ho deciso, nel romanzo che sto per iniziare racconterò Mosca e anche un po’ d’Italia, ma vista con gli occhi di chi è nato e vissuto in Russia.


Passeggiando per Roma

"A Cristina, con stima." No, è una cacofonia. Niente di peggio che una rima involontaria.
"A Cristina, con ammirazione." No, è esagerato. E poi per cosa?
"A Cristina, grazie." No, è da analfabeta.
Con tutte le volte che mi è toccato inventare dediche sulle mie fotografie e sulle copertine dei dischi, guarda se mi devo impantanare proprio qui!
Mi alzo, scocciatissimo per i malfunzionamenti del mio cervello, inciampo nel tappeto e dimentico la frase che avevo appena iniziato a pensare e che, forse, era quella decisiva.
Mettiamo pure di risolvere con un colpo di genio lo scoglio del biglietto, ma poi che fiori le mando?
Le rose, di qualsiasi colore siano, sono da vecchio babbione. Tulipani? Ma sarà stagione? Gli iris neanche parlarne, costano troppo poco e stanno bene solo nei quadri di Van Gogh.
Eppoi i fiori si mandano in camerino a una cantante o un'attrice...
Quelli bianchi da arredatore finocchio, le calle... No, no! Ancora un po' e le mando delle violette: non ci so più fare con le donne, porca miseria... Ma io li invito a pranzo! Funziona sempre, e comunque dovrò pur mangiare, prima o poi... almeno un pasto al giorno vorremo farlo, oppure no? È una buona idea, decido di colpo, pensando che ieri sera non ho toccato cibo, anche se - con tutto il whiskv che mi sono scolato - ho fatto una discreta scorta di zuccheri.
Non perdo tempo, sono già le undici, e mi attacco al te
lefono.
«Andrea, senti, vuoi... anzi, volete venire a pranzo con me?»
«Andrea è uscito, mi dispiace.»
«E tu chi sei?» mi irrito con l'intruso.
«Sono Marco, il fratello di Cristina» risponde, la voce giovane, imbarazzata per il mio tono inquisitorio.
«E lei c'è?» mi spazientisco. «No, è all'università...» «Dammi il cellulare!» ordino, tarmi.
«Di chi?»
«Di tutti e due, no?»
« Non so se posso... » balbetta.
«Ma non farmi perdere tempo!» sbotto, ormai rabbioso.
senza nemmeno presen
Poco dopo chiamo Cristina - tanto è lei a decidere, mi pare d'aver capito - e, di fatto, le ordino di pranzare con
me, portandosi dietro anche "Corpore sano", come da quel momento ho deciso di chiamare il suo fidanzato.
È con lui, sui gradini della biblioteca (ma stanno sempre appiccicati? Che noia!, penso senza dirlo, roso dall'in
vidia). «Guarda se riesci a trovare qualche articolo di Buzzati sul padre di Teresa» le dico, proponendole il
compitino quale merce di scambio per il pranzo che hanno appena accettato. «Mi è venuto in mente che negli anni
Cinquanta scriveva di cronaca nera e andava ai processi.
"Corriere della Sera" o "Corriere d'Informazione", controlla...» Poi, il solito dubbio. «Sai chi è Buzzati, vero?» Silenzio, e non è caduta la linea.
È chiaro che non lo sa. «Quello del Deserto dei Tartari» tento, «di Bàrnabo delle montagne...» Ma che m'importa, in fin dei conti... Sono solo un vecchio rompicoglioni, ecco cosa sono. Chissà io quante cose non so! «Comunque cerca Buzzati, Dino Buzzati, fino all'una. Poi prendete un taxi che pago io. Non preoccupatevi, anche per il ri
torno.»
«Siamo in moto.»
Io cerco di organizzargli la vita da soli... meglio così!
«All'una e mezzo da Giolitti.»
«Dov'è?» Ma non sanno proprio nulla, e come glielo spiego? Da Montecitorio... no, da Campo Marzio... «Ho cambiato idea, troviamoci in un posto più facile: alle tredici e trenta da Ciampini a San Lorenzo in Lucina» dico scandendo le parole con la lentezza dei bollettini meteorologici di una volta.
Non potrò pensare di farmi accompagnare a pranzo tutti i santi giorni, bisognerà che poi non mi faccia vivo per un po'. Devo andarci piano con la richiesta di favori, cercare di scandirli senza farmi prender la mano dalla mia tendenza allo schiavismo.
Ricapitolo l'elenco delle cose che mi servirebbero da quei due: anzitutto scovare Teresa, poi riversare i miei di
schi e i nastri su ed, e - perché no - un po' di compagnia per potermi pavoneggiare raccontando leggendari episodi del passato, o cose meschine che descritte col tono giusto paiono degne di nota. Dovrò stare attento a non stufarli, ecco tutto. Dimenticavo: ci sono pure gli spartiti, le rassegne stampa, la corrispondenza, quante cose da mettere in
e questi si arrangiano ordine! Porca puttana, ho davvero bisogno di 'sti due ragazzi...
Intanto però cerco il numero del ristorante e non lo tro
vo: Rosetta? La Rosetta? Da Rosetta? Vadano al diavolo, tanto anche quando prenoto mi fanno sempre aspettare.

«"Un analcolico", ecco l'ordinazione che non sentirete mai uscire dalla mia bocca!» mi concedo qualche vanteria
da gradasso con Andrea e Cristina.
Il barista di Ciampini - che mi conosce, ed è abituato a sentire chissà quante altre cazzate nell'arco della giornata
- fa un sorriso compiacente. In pratica mi fa da spalla, anche se la mancia gliela lascerei comunque.
«Guardi, di questo Buzzati non ho trovato nulla. Però...»
«Eh no, non dire "di questo"» la interrompo. «Mi permetti di regalarti un suo libro? Li leggi i romanzi?» le
chiedo con un tono che incoraggia a mentire.
«Certo che li leggo!» sorride un po' stupita. «Guardi che non c'è solo il suo Buzzati che scrive!»
«È morto, comunque» replico con tono funebre, deluso dalla mia imbecillità. Ma la voglio piantare con questo tono saccente? Intanto, però, lo sguardo mi si fissa sulle curiose calzature di Cristina, degli stivaletti dalla punta acuminata. Non è la prima volta che li noto, portati da altre donne, ma su di lei fanno un effetto curioso: ha piedi infi
nitamente lunghi o c'è uno spazio vuoto in quelle scarpe? Chissà perché, in qualche modo m'infastidisce, anzi mi de
lude, che persino lei, così spigliata e - perché non dirlo - bella, sì proprio una bella ragazza, subisca una moda cari
caturale.
«Sa che ho trovato un nuovo articolo sul mostro?» dice Andrea, che ha mandato giù d'un fiato un Bellini precon
fezionato in bottiglietta monodose. Vagli a spiegare che ha appena ingurgitato una bevanda disgustosa, deviante, paragonabile - in musica - a quel gruppo di qualche anno fa, gente da mettere in galera... Come si chiamavano? I Rondò Veneziano, forse...
«Mentre Cristina cercava Buzzati, io ho trovato la cronaca di un processo: è quando Cardosi va in Assise per il
primo omicidio.»
«E allora?»
«È il "Messaggero". Parlano delle "smargiassate dell'imputato". Continuava ad attribuirsi omicidi che probabilmente non aveva commesso. È la prima volta - ho no
tato - che in tutto l'articolo, e persino nel titolo, non lo chiamano "mostro" o "mostro di Colonna". È semplice
mente "il Cardosi" o "il bieco criminale".»
«Molto bene, sei perspicace. Meglio "mostro" comunque. Ha più dignità: in fin dei conti un mostro è sempre un mostro, ma un "bieco criminale" è il protagonista di un film di Monicelli.»
«Di quale, l soliti ignoti oppure Amici miei?»
«Bravo! Lasciami pensare... È trasversale, direi. Però nella colonna sonora de 1 soliti ignoti c'era Pietro Umilia
ni al piano con una band straordinaria. Uno swing pieno d'invenzioni, modernissimo per quei tempi - è ovvio...
pensa solo alla scena della rapina...» sospiro per il dolore di non esserci stato io, a quel piano.
«Vai avanti, dai!» taglio corto, anche se adesso mi vien voglia di parlare della musica di Audace colpo dei soliti ignoti, e de 1 magliari, e magari anche di Ascensore per il patibolo con le improvvisazioni del quintetto di Miles Davis.
«Il bello, però» riprende Andrea, «quello che lo rende originale rispetto a un assassino qualsiasi, è che per tutto
il processo il mostro ha risposto in modo sconne°so al giudice istruttore: negava di essere Roberto Cardosi e si
spacciava per un onorevole venuto dal Siam. Pretendeva di essere al centro di un caso diplomatico. Anzi, tentava di parlare dei problemi del suo paese. »
«Il Siam!» esclamo. «Da quanto tempo non sentivo questa parola... Mi viene in mente Salgari: la tigre di Mompracem e l'onorevole mostro del Siam! Altro che bieco criminale! »
«Il Siam è la Thailandia» mi comunica Andrea.
«Lo sapevo!» mento per non perdere vantaggio su di lui.

Tutto questo parlare - e leggere - del padre di Teresa finisce per spostare la nostra attenzione dalla ragazza alla carriera criminale del genitore. Lo faccio notare a Cristina e Andrea. Meglio di nulla: per un pensionato Enpals è sempre più salubre impicciarsi delle gesta di un serial killer che passare il pomeriggio a rodersi il fegato davanti alla tivù, con tutte quelle mummie riesumate che imperversano negli show canzonettari. Tuttavia, mentre ci incamminiamo, li incoraggio a non perdere di vista l'obiettivo, cioè che fine abbia fatto Teresa.
Ci dirigiamo verso il Pantheon, anzi verso il ristorante: ho deciso che voglio fargli scoprire l'eccellenza del pesce rispetto alle cotolette alla milanese e soprattutto fargli vedere quanto sono stronzi i nostri parlamentari alle prese con i crostacei. Anche questo è il modo di togliersi uno sfizio: il piacere di istruire un giovane, o - a dirla tutta - di fare il trombone e pontificare a più non posso con chi non la sa ancora così lunga da alzare gli occhi al cielo ogni volta che attacchi a parlare.
Zigzagando per le strade, Cristina si ferma a comprare una macchina fotografica usa e getta: vuole assolutamente una foto tutti assieme. Tento di protestare: «Sono come Marlene Dietrich, lascia che si ricordino di me quand'ero giovane. Non immortalarmi piegato sotto il peso delle lenti da vista, con macchie di fegato dappertutto!». Per fortuna, realizzo, ho dedicato una buona mezz'ora alla scelta dell'abito. «Ti proibisco di farlo al ristorante» dico molto serio. Sono preoccupato: ho speso gli ultimi anni cercando di non farmi notare e ora mi vogliono ritrarre per avere pronta la foto del caro estinto non appena ce ne sarà bisogno.
Cedo alle pressioni nella piazzetta del mercato di verdura dietro Campo Marzio. Un venditore d'ortaggi, con la solita espressione schifata dei borgatari, ci fotografa - in tre pose - davanti ai suoi carciofi, e addirittura accenna, per mostrare d'avermi riconosciuto, il refrain di una mia vecchia canzone resa abbastanza famosa da Johnny Dorelli. Come diavolo faccia a sapere che sono l'autore della musica, proprio non riesco a immaginarlo. Mi piacerebbe indagare se si tratti di cultura musicale, o piuttosto di un'informazione passata casualmente in qualche quiz televisivo. Ma il timore che quello ne approfitti per attaccar bottone mi spinge a tenermi la mia curiosità.
Pochi metri più in là passiamo davanti a un bel palazzo che avrei sempre desiderato possedere o almeno - in un'ipotesi più concreta - abitare. Sulla targa è scritto: "Patriarcato di Antiochia presso la Santa Sede". Il portone è aperto. Spingo i ragazzi, incuriositi dal nome esotico, a entrare. Nel cortile, dietro un grande cancello a maglie larghissime, c'è un chiostro. Il prato è ingombro di grossi tronchi di gelso, potati con ferocia e deformati da bugnoni. Azzardo una diagnosi: tumori vegetali? «Ma se stanno benissimo» mi contraddice Andrea, «non vede che hanno già le prime foglioline? È quasi primavera! » constata con entusiasmo.
Vogliono una fotografia. «Ma non c'è abbastanza luce» cerco di sottrarmi. «C'è il flash» mi spiega Cristina. Pazientemente, con tutta la buona volontà che riesco a mobilitare, mi dispongo a ritrarli. I ragazzi si mettono con le spalle ai ghirigori della cancellata, la luce tenue che filtra dal chiostro entra, di lato, nell'androne. Andrea mette un braccio intorno alle spalle di Cristina e accosta la sua faccia insulsa, da ottimista, al bel viso spigoloso di lei. Come ho imparato in centinaia di sessioni fotografiche cui ho dovuto assistere o sottopormi, per dare più slancio alle loro figure mi piego sulle ginocchia. Ma saranno le giunture artritiche che mi dolgono o un'eccessiva fluidità del tasto della macchinetta, nel piegarmi sento un clic. Porca puttana, ho scattato, mi rendo conto, e ne ho la prova quando - arrivato al giusto grado di flessione delle mie articolazioni e mentre i due sorridono ispirati - provo a schiacciare e il tasto non va giù. A quel punto mi viene un senso di tremenda rottura di palle e forse anche un po' d'astio per Corpore sano, che nel portare il braccio sulle spalle di Cristina si è soffermato a darle una palpatina al sedere. Non poteva aspettare che non ci fossi? Senza stare a perdere altro tempo esclamo: «Fatto! Adesso andiamo, però» e restituisco la macchina fotografica, incamminandomi verso via della Maddalena.
Cos'avrò fotografato? La zona pubica? 1 loro malleoli con le stringhe delle scarpe? Che importa, tanto - mi assolvo - come tutte le coppie non hanno futuro. La fotografia finirà, con le altre che riprendono questa fase della loro vita, dentro il primo bidone della spazzatura, quando - fra qualche anno - un nuovo partner chiederà di dare un'occhiata ai vecchi album.
Per distrarli da eventuali intuizioni sullo sfasamento temporale. del clic, mi metto a parlare del ristorante dove mangeremo: «Da Rosetta ci vanno i parlamentari, tra di loro, coi loro portaborse o insieme a quelli con cui vogliono farsi notare. Si mangia pesce e ho deciso di portarvi lì per farvi passare ad abitudini culinarie meno barbare. Del resto il gusto va educato, anzi l'esistenza di una persona si potrebbe riassumere nella continua evoluzione qualitativa delle sue esigenze. Al quarto ascolto delle Quattro stagioni capisci che Mozart è l'unico compositore classico che potrai sentire infinite, volte senza fare a pezzi lo stereo. Dopo i libri di Musil, Ionesco e Proust ti rendi conto che Simenon è infinitamente più vario e moderno, proprio come Balzac, ed è meglio consumarsi gli occhi sui loro romanzi. Tutti gli ignoranti vanno in brodo di giuggiole per gli impressionisti e magari non capiscono Picasso. E per tornare al cibo, il primo panino con la porchetta vi sembrerà anche gustoso, ma quando scoprite il sapore degli scampi crudi...».
Questi esempi non sembrano dei più calzanti, e me ne accorgo perché i ragazzi assumono l'espressione accomodante e falsa di chi vuol farti credere di essere d'accordo e invece non vede l'ora che tu stia un po' zitto. Peraltro mi rendo conto di non essere affatto convinto di quel che vado blaterando.
Nella piazzetta davanti al Pantheon si scalda al sole la solita marmaglia di nullafacenti in fuga dalle sterminate periferie romane e di turisti veri e propri, chi sui gradini dell'obelisco, chi seduto ai tavolini dei tanti locali di nessuna qualità. I:unico bar frequentabile rimane la torrefazione Tazza d'Oro, sull'angolo con via degli Orfani, dove regolarmente mi peso sul bilancione per i sacchi del caffè.
Entrando al ristorante - come previsto - mi pregano di aspettare dieci minuti, cioè secondo i miei calcoli una buona mezz'ora. Faccio in tempo a scorgere la faccia di un famoso ginecologo ufficialmente in pensione - cioè per il fisco -, in realtà attivo più che mai, uno che ha fatto abortire tutta la buona borghesia romana.
Ci mettiamo fuori, appoggiati al muro col sole in faccia, mentre io comincio a sentirmi la gola secca, bisognosa di un liquido refrigerante come il vino bianco, dopo che il whisky di ieri sera mi ha reso la laringe vischiosa, e sembra che ogni parola pronunciata mi si incolli nella gola ed esca solo dopo un faticoso corpo a corpo.
Così, per ingannare il tempo e distrarre la mia bocca dal desiderio d'allagarsi a forza di prosecco, mi dedico a intrattenere i ragazzi: «Un giorno di tanti anni fa, credo agli inizi degli anni Sessanta, poco dopo aver conosciuto Teresa» (quanto mi piace fare il vecchio dispensatore di storie vissute e considerazioni ciniche!), «mi trovavo negli stabilimenti della Fonoroma per dirigere la colonna sonora di un film, non ricordo quale. In visita agli studi c'era anche John Huston. Me lo presentarono, e poiché in quel momento ero un compositore piuttosto in auge cercarono di mettermi in buona luce: anche allora, quando il cinema italiano era assai più importante di adesso, il sogno di tutti era quello di finire a lavorare oltreoceano. Il giorno dopo pranzammo insieme da Nino, in via Borgogna, e la foto di noi due che pasteggiamo a whisky, avvolti nella nuvola di fumo del suo sigaro, finì su "Lo Specchio", un rotocalco che ora non c'è più. Nel mio inglese dopolavoristico cercai di tradurgli il menu, azzardando qualche consiglio sulla scelta dei piatti. Eravamo in pieno boom economico, e - come oggi l'Italia subisce altre mode culinarie, il carpaccio, la rucola e il becchime dei polli nell'insalata, in pratica il mais - allora c'era il boom di prosciutto e melone e della costata alla fiorentina. Tentai di consigliarla al regista: lo vidi sbiancare. Poi iniziò a spiegarmi che non mangiava assolutamente più la carne. In americano scandito come stesse parlando con un sordo, mi raccontò quest'episodio... ».
Prendo fiato e mi giro verso i ragazzi. Corpore sano mi guarda fisso, mentre Cristina, che si è tolta il maglione, ha gli occhi chiusi: la starò annoiando?
«Guardi che sappiamo benissimo chi è, anzi chi era John Huston» dice Andrea, che prevede una mia domanda.
«Sì, vada pure avanti. Facciamo così: quando non sappiamo qualcosa lo chiediamo» conclude in tono sbrigativo Cristina.
Di sbieco guardo le sue braccia che sono nude, molto lunghe e di pelle assai chiara: uno lo tiene intorno al viso per ripararsi gli occhi. Cosa diavolo stavo dicendo? Ho un vuoto di memoria...
«Dov'ero?» chiedo soccorso «A Huston che racconta.»
«Ah sì! Allora, quando stava girando La regina d'Africa, in Congo... o in Uganda, non ricordo, la carne che veniva
servita durante le riprese era legnosa e di sapore pessimo, immangiabile. Se ne lamentò con la produzione. Dal giorno dopo cominciarono a portargli carne tenera e delica tissima. Una volta gli venne l'idea balzana di chiedere come mai ci fosse una tale differenza di qualità: risposero che da quando s'era lamentato gli procuravano carne di bambino. Fu così che John Huston divenne un inflessibile vegetariano. »
«Non ci credo!» «Neanch'io!»
«Proprio per questo ve lo racconto. Quel giorno pensai: racconta queste cazzate a me che sono italiano - il paese
di Mussolini, cioè dei creduloni - oppure il fatto d'esser così famoso gli ha fatto perdere il senso della misura? In fin dei conti di cazzate ne raccontiamo tutti, il problema sta nel tararle... Magari, invece, è proprio un fatto vero.
Boh, chissenefrega, ero pur sempre seduto di fronte a John Huston e stavo mangiando con lui, affumicato dal
suo sigaro! »
«È vero, cannibale o contaballe che fosse, è proprio una storia interessante» conferma Andrea.
«E poi ve ne racconto un'altra: sapete che in quel film c'erano Katharine Hepburn, una zitellona missionaria, e
Humphrey Bogart, e i due s'innamorano su un battello scalcinato - la Regina d'Africa, appunto - mentre i tedeschi
avanzano sul lago Vittoria. Ah, dimenticavo: è la Prima guerra mondiale e non sto a raccontarvi perché i tedeschi erano là, sennò facciamo notte. Per quel film Bogart prese l'unico Oscar della sua carriera, anche se io non l'ho mai trovato un grande attore: una specie di recitazione sonnolenta, sempre la stessa espressione, sembra uno con la paresi facciale, ma questo non c'entra con quello che volevo dire... cosa volevo dire? Ah sì: dunque, durante le riprese tutti
si beccarono la malaria. Solo Huston e Bogart, che si tene vano su a forza di bevute massicce di whisky, riuscirono a non ammalarsi. Almeno questa era l'opinione di Huston...»
Alla mia età non posso mettermi scamiciato come Andrea e Cristina, mentre aspetto di entrare in un ristorante! Però al sole mi sta venendo un caldo insopportabile e la gola, già collosa di suo, gratta come carta vetrata a ogni parola che mi esce. Questi ristoratori sono proprio smodati! Vogliono guadagnare troppo, puntano ai doppi turni: se non fosse per i ragazzi li avrei già mandati al diavolo! Spedisco Andrea a informarsi e intanto, già che ci sono, chiedo a Cristina come se la cava con la musica.
«Sul pianoforte riesco a suonare solo la scala di do maggiore e l'ho chiarissima anche in testa, con i suoi intervalli. Ma per il resto sono una frana... » mi dice guardando per terra. «Però, se un giorno volesse ascoltarmi, c'è uno standard che canto benissimo, dicono...»
«Quale?» chiedo con una certa ansia, timoroso che mi tiri fuori qualcosa dell'odiato repertorio, tutto svolazzi, di
un Elton John.
«Blue Moon... mi viene molto bene...»
Entusiasta della rivelazione (Blue Moon, porca miseria! Anche se Body and Soul sarebbe meglio...) mi sbilancio é
la convoco a casa mia - con notizie di Teresa, le racco mando - per un'audizione che non servirà a nulla dal punto di vista della carriera, sono solo un rudere che nessuno ascolta più, ma che magari le darà qualche conforto
in termini di amor proprio. E spero di poter essere sincero, perché, per quanto l'abbia fatto mille volte, non ho più
voglia di incoraggiare una cantante che non sa cantare.
Ormai non ho più quell'energia interiore, quella forza che mi muoveva a mentire, affaticarmi, tramare, uscire alle due di notte, tutto con l'unico obiettivo di metter le mani su un'altra donna, una nuova. Non ero mai sazio, e per
fortuna ora lo sono: che liberazione! E che sconfitta...

«Ma lei è di destra o di sinistra?» chiede Andrea.
Senza spostare lo sguardo, imbambolato sulla scollatura di una signora - rifatta o no poco importa, il seno è sempre un bel posto dove riposare gli occhi - cerco di concentrarmi per dare una risposta che convinca anche me.
«Quasi tutti quelli dello spettacoìo sono di sinistra, anche se evadono le tasse, s'approfittano del lavoro in nero dei domestici filippini e sfruttano a più non posso i sognatori squattrinati che gli capitano a tiro. Anzi, in generale non hanno alcun senso di solidarietà per i più deboli e sfortunati: per esempio fingono di fare spettacoli di beneficenza col solo scopo di farsi pubblicità a spese delle disgrazie altrui. Provate a immaginare quanti incontri con ammalati incurabili vengono organizzati dai press agent negli ospedali, con tanto di combine con i fotoreporter. Oppure i famosi concerti contro la fame nel mondo, che visti in mondovisione fanno acquistare agli adolescenti l'ultimo disco della pop star e comunque ricordano alla gente che esisti, che sei uno chiamato alle adunate, eccetera eccetera.»
I ragazzi mi guardano stupiti: sono moralista e pedante? «Comunque sono di sinistra, se è questo che volevate sapere, ma soprattutto sono qualunquista, cioè sono contro qualunque forma di stupidità, cosa distribuita in egual misura in tutti gli schieramenti, ma a destra di più.
«E comunque conoscete la storiella di De Gaulle?» Dall'espressione che fanno, direi di no: «Un giorno un suo zelante consigliere gli propone: "Generale, che ne dice, facciamo fuori tutti gli imbecilli?". "No" risponde, "questo è un programma troppo vasto per me!"».
Riesco a farli sorridere e adesso dovrei chiedere da che parte stanno loro, ma non ho nessuna voglia di imbarcarmi in una conversazione sulla politica con dei ventenni, che inevitabilmente, per inesperienza e coglionaggine dovuta all'età - sogni a occhi aperti e disordini ormonali -, tendono a credere a qualsiasi idea semplicistica ben confezionata.
«In ogni modo» mi sembra opportuno precisarlo, «essere di sinistra non vuol dire' simpatizzare col comunismo, questo spero vi sia chiaro. Io ho smesso definitivamente di crederci quando spedirono la povera cagnetta Laika, sola, su un'astronave in giro per lo spazio, a cento chilometri dalla terra. Un esperimento assurdo, una trovata alla Mengele...» sospiro intristito, «era il '57, ricordo persino la data!
«Quando pensate di avere qualche novità su Teresa?» chiedo per riportare la conversazione su un piano concreto.

E per cercare di invogliarli mi sbilancio: «La prossima volta a casa mia. Così Cristina mi canterà Blue Moon e voglio vedere se riusciamo a tirar fuori qualche fotografia o rassegna stampa degli anni Sessanta. Magari troviamo anche la foto con John Huston! » dico entusiasta di quest'idea, come se, improvvisamente, mi sembrasse facile trovare quel che cerco fra tutte le cataste di carte accumulate per la casa.

Più tardi, solo e appesantito dal cibo, dal vino e dai monologhi, mi dirigo a passo lento verso casa. Mentre attraverso piazza Farnese comincio a chiedermi perché mai i due ragazzi parlino così poco. Li intimidisco? Sono un vecchio trombone? Oppure hanno capito che qualsiasi cosa dicano, a parte le informazioni su Teresa, in realtà non mi interessa? Mannò, mannò, mi interessa - cerco di convincermi per non far la figura di essere così integralmente egoista.
Sarà vero? Se guardo indietro, al passato, posso solo concludere che a me, dell'interiorità altrui, non me ne è mai fregato un tubo!
Testardo negli errori, schiavo della voglia di piacere alle donne, irresponsabile nel promettere, assiduo frequentatore di persone equivoche, formidabile dissipatore delle mie sostanze, pigro, volubile, intransigente sul disordine altrui e indulgente sul mio: evviva, una vita davvero inutile, ma almeno ho primeggiato nei difetti...
Come diceva non so chi: "Si può essere giovani una volta sola. Ma immaturi per sempre!".

Tratto dal libro Sbadatamente ho fatto l'amore di Camilla Baresani, Mondadori Editore, Milano 2002


Libri e Luoghi

Dove legge, di solito, la gente? In viaggio, in bagno, in biblioteca, a scuola - qualcosa di illecito sotto il banco, in ufficio, al parco col primo sole primaverile... Dovunque quindi, purché alla larga da chi cerca di disturbarci.
Tra le situazioni che riescono a incarognire persino i caratteri più miti c'è quella in cui qualcuno vuole far conversazione o parla a voce troppo alta in treno, mentre si ha un libro in mano. Quando viaggio cerco sempre un posto lontano da famiglie con bambini, comitive, individui solitari con lo sguardo perso nel vuoto (puoi star certo che cercheranno di attaccar bottone), ragazzi con gli aurícolari da cui fuoriescono fastidiose vibrazioni, facce dall'abbronzatura artificiale cui squillerà il cellulare ogni volta che c'è linea. Uno slalom spesso sfortunato: tuttavia il treno continua a rimanere uno dei posti migliori per leggere. C'è quel tanto di costrizione per cui non puoi scendere e andare a farti una passeggiata, e per sentirti in pace con te stesso non devi prima scaricare la lavapiatti né fare un versamento all'ufficio postale.

Ogni genere di lettura ha un rituale e i suoi luoghi deputati; prendere in mano un giornale in spiaggia, è di solito un'operazione assai fastidiosa. Il vento che fa svolazzare le pagine, la sabbia che s'intrufola quando lo appoggi a terra per ripristinare la piegatura: al mare è in ogni caso più confortevole dedicarsi ai libri. Le storie da scorrere con matita, invece, sono ideali nel silenzio della propria abitazione; mentre letture appassionanti (alla Simenon),
con copertina morbida, sono adatte ai viaggia tori. A letto è preferibile non portarsi un romanzo che necessiti un po' di sforzo per entrare nell'atmosfera e nel suono della storia, per non rischiare di cadere subito addormentati.
Meglio narrazioni già rodate, già entrate nel vivo della vicenda.
E tutti quei volumi splendidamente rilegati, che raccolgono in uno spazio compresso l'opera omnia del nostro autore preferito (con poderose note al testo e biografia dettagliata, apparato critico, ecc.)? Sono la cosa più scomoda da leggere mai concepita: risultano ideali solo per essere consultati. Ricordo ancora il fastidio che provai alle prese con un'elegante edizione in due volumi dei più noti romanzi della Commedia umana di Balzac. Le note al testo erano tutte ammucchiate nel secondo volume, mentre i migliori romanzi erano raccolti nel primo. Presa dalla narrazione avrei voluto portarmi il libro dappertutto, ma questo voleva dire movimentarne ogni volta due, anche in casa, anche a letto.
L'individuazione dei luoghi più adatti a certi tipi di letture è problema annoso, non certo di questi giorni. Ne parlò persino Niccolò Machiavelli in una lettera a Francesco Vettori.

"Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte; e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori, ricòrdonmi de' mia: godomi un pezzo in questo pensiero. (...)
Venuta la sera, mi ritorno in casa, ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali et curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini; dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e che io nacqui per lui. Dove io non mi vergogno parlar con loro, e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo, alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro."

Riprendendo il parallelo tra i piaceri delle attività amorose e quelli della lettura, entrambi improntati a un certo senso estetico, alla ricerca del benessere e del godimento, ho notato un'altra analogia. A molti di noi sarà capitato di far l'amore in macchina, o dietro a un portone, in cima a una rampa di scale, o magari in un fienile; non diversamente possiamo leggere seduti in metrò, su un piede nel corridoio di un treno, mentre facciamo la coda nell'ambulatorio del medico della mutua, tra vecchiette scatarranti, bambini che frignano, e gente che si racconta le malattie. Un libro o una rivista ci aiutano a sopportare la calca, le fatiche, il grigiore, ci astraggono dal contesto e ci tolgono dalla banalità della routine per offrirci le storie di vite altrui, ben più avvincenti. E far l'amore in luoghi anche scomodi e prosaici ti solleva dalla noia di un viaggio, della quotidianità e del lavoro. Posso immaginare l'eccitazione di due colleghi d'ufficio alle prese con un ginnico amplesso nelle toilette riservate alla direzione.
Tuttavia è curioso che lettori e amanti spesso coltivino un sogno analogo: quello di un luogo ideale che sia l'impeccabile teatro dove coltivare la loro passione. Baciarsi o leggere voluttuosamente su un morbido lettino da sole, di fronte al mare, all'ombra di una mangrovia senza traccia di estranei tra i piedi; baciarsi o leggere sul Plateau Rosa, accanto al camino scoppiettante, in un rifugio isolato con vista sui ghiacciai; baciarsi o leggere nell'appartamento newyorkese tutto vetri e comfort tecnologico, buona musica, buone vivande, e molto più sotto la città che brulica. È come con il caviale, insomma: ottimo, per carità, anche se divorato a quattro palmenti sul divano davanti alla tivù, spalmato su una fetta di pane pugliese; ma al suo charme appartiene anche l'apparecchiatura scenografica, la bottiglia di champagne nel cestello del ghiaccio, i blinis tiepidi sotto un tovagliolo di lino bianco, la panna acida...
Con i libri poi, non esiste solo un problema di luoghi, ma persino uno di tempi. Se un marito è in fase di problemi coniugali, farà meglio a non dedicarsi alla lettura di La Sonata a Kreutzer di Tolstoj. Parimenti, in partenza per un viaggio in Thailandia con legittimo partner, faremo meglio a non dedicare tempo a Piattaforma di Michel Houellebecq, per evitare, una volta sul posto, di fiutare prostituzione e pedofilia a ogni angolo.
II brano che segue è la descrizione di una nonna spietata, che si mantiene in vita al solo scopo di odiare i parenti e rimpinzarsi. La vecchiaccia è colta durante una riunione famigliare, in occasione del suo ottantanovesimo compleanno. Il racconto è tratto dalla raccolta Legami familiari della scrittrice brasiliana Clarice Lispector, finissima osservatrice di donne e nuclei famigliari. Sarebbe meglio evitare di leggere Buon compleanno il giorno prima di Natale o in occasione di una festa in famiglia, se vogliamo evitare di farci tormentare da spiacevoli e inopportuni desideri di fuga, o, peggio, da fantasie sterminatrici.

Ma eccoci alla storia: figli, nuore, fratelli, nipoti, si riuniscono in un appartamento di Copacabana, addobbato a festa con palloncini, ghirlande, torte, e bibite. Fin dalle prime righe risulta chiaro che tra fratelli e cognate serpeggiano rancori e ripicche, e il motivo principale è la vecchia e chi debba sobbarcarsi l'onere di custodirla. Al momento tocca a Zilda, la padrona di casa nonché unica femmina dei sette figli avuti dalla festeggiata.

"Per guadagnare tempo, aveva addobbato la tavola subito dopo pranzo, aveva accostato le sedie alla parete, aveva mandato i ragazzini a giocare dal vicino perché non mettessero in disordine la tavola.
E, sempre nell'intento di accelerare le operazioni, subito dopo pranzo aveva vestito la festeggiata. Le aveva fin d'allora messo intorno al collo il sottogola col cammeo, le aveva spruzzato un po' di acqua di Colonia per nascondere quel tanfo di chiuso della stoffa - l'aveva fatta sedere a tavola. E dalle due del pomeriggio la festeggiata stava seduta a capo della lunga tavola deserta, rigida nella sala silenziosa.
Di quando in quando prestava attenzione ai tovaglioli colorati; incuriosita guardava ora questo ora quel palloncino che fremeva al passaggio delle automobili. E di quando in quando seguiva con muta apprensione, ipnotizzata e impotente, il volo di una mosca intorno alla torta. (...)
I muscoli del volto della festeggiata non la interpretavano ormai più, perciò nessuno poteva sapere se era contenta. Se ne stava li, a capotavola, dove l'avevano sistemata. Si trattava di una vecchia alta, magra, imponente e scura. Sembrava vuota."

Gli invitati cominciano a brindare agli ottantanove anni della nonna e cercano di catturarne l'attenzione. E la scrittrice scandisce le scene di allegria convenzionale della festa con dei cupi: "La vecchia non si manifestava." Nel
frattempo Zilda si danna per servire dolci e bevande ai presenti, e nessuna delle cognate l'aiuta. I ragazzini fanno chiasso e snervano le madri, la tovaglia si inzacchera subito, finché si arriva al momento del taglio della torta.

"Tagli la torta nonna!" disse la madre dei quattro figli, "tocca a lei!" sembrava incerta, rivolgendosi agli altri con fare intimo e intrigante. Ma visto che tutti approvarono soddisfatti e curiosi, lei si girò con improvviso impeto: "Tagli la torta, nonna!" La vecchia prese prontamente il coltello. E senza esitare, quasi che esitando un attimo avrebbe potuto crollare in avanti, inferse il primo taglio con pugno di assassina. "Che forza!" mormorò la nuora di Ipanema, e non si capiva se fosse scandalizzata o piacevolmente sorpresa. Era un tantino raccapricciata.
Inferto il primo colpo, come se la prima palata di terra fosse stata gettata, tutti si avvicinarono col piatto in mano, in un pigia-pigia di simulato entusiasmo, ciascuno attento alla propria porzione. (...)
"Oggi è il giorno della mamma!" disse José.
A capotavola - la tovaglia lercia di coca cola, la torta distrutta - lei era la madre. La festeggiata strizzò gli occhi.
Loro si muovevano concitati, ridendo: la sua famiglia. E lei era la madre di tutti. E anche se di punto in bianco non si alzò in piedi come un morto che lentamente si solleva imponendo silenzio e terrore ai vivi, tuttavia la festeggiata si fece ancora più rigida sulla sedia più alta. Lei era la madre di tutti e il nastrino al collo la soffocava, lei era la madre di tutti e, impotente sulla sua sedia, li disprezzava. E li guardava strizzando gli occhi. Tutti quei suoi figli e nipoti e bísnipotí che non valevano il suo dito mignolo, pensò all'improvviso come se sputasse (...). Il ceppo era stato buono. Eppure aveva dato quei frutti acidi e infelící, incapaci perfino di una sana allegria. Come aveva potuto mettere al mondo quegli esseri ridanciani e senza decoro? Il rancore muggiva nel suo petto vuoto. Comunisti, ecco cos'erano; comunisti. Li guardò con la sua collera. Parevano topi che squittiscono, la sua famiglia. Indispettita girò il capo e con forza insospettata sputò per terra.
"Mamma!" gridò mortificata la padrona di casa. "Che novità è questa, mamma!' gridò, morta dalla vergogna; e non voleva neppure guardare gli altri, sapeva che quei disgraziati si scambiavano certe occhiate di vittoria, quasi spettasse a lei educare la vecchia Tutti si guardarono tra loro cortesi, sorridendo senza espressione, distaccati, come se un cagnolino avesse fatto pipì in sala. Poi stoicamente ripresero le voci e le risate. (...) la sera era ormai completamente scesa. La luce della sala pareva ora più gialla e più ricca, le persone sembravano invecchiate. I bambini erano scatenatí.
"Non penserà che la torta abbia sostituito la cena," si chiedeva la vecchia tra sé e sé."

Poi, una volta letti, i libri vanno riposti. Alcuni li terremo sul tavolo accanto alla poltrona, perché ci hanno comunicato una soddisfazione così intensa da meritare d'essere riassaggiati; altri finiranno nella libreria, in ordine alfabetico e magari anche di genere; e alcuni li regaleremo o li butteremo (tenerli tutti non ha senso, è come raccogliere indiscriminatamente i giornali, tutta roba che fa polvere e ingiallisce. Esistono infinite biblioteche, banche dati, motori di ricerca più utili per le consultazioni).
L'importante è non restare mai senza avere qualcosa in mano da leggere, persino negli spostamenti brevi o nelle piccole pause. Pare che il settantaquattro per cento degli italiani ingurgiti caramelle e snack, perché "non sa come riempire il vuoto mentale durante le lunghe ore di lavoro". A me sembra preferibile sbocconcellare i giornali come fossero uno snack: ci si distrae anche con l'asciutta banalità dei fatti di cronaca, con le foto di politici, vittime e assassini, con le notizie che scivolano via senza danno.

Tratto dal libro Il Piacere tra le Righe di Camilla Baresani Bompiani, Milano 2003.

Leggi un interessante pezzo sulla "scrittura" della Baresani all'interno del Forum del Daimon Club sulla teoria della letteratura!


 

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