Da "Bresciaoggi"
sabato 8 marzo 2003 pag. 40 Dai primi passi a «Laltra Brescia» e «Giorni -
Vie Nuove», alla redazione economica di «Bresciaoggi» e infine a «LEspresso»,
dove adesso è vicedirettore
Un gnaro con la passione per il giornalismo vero
Massimo Mucchetti, nato sotto il segno del Sagittario, ha 49 anni e non li dimostra, con
la faccia da gnaro che si ritrova. Ricordo come fosse ieri la volta che, con Renato
Rovetta, si presentò alla "Grafo" per collaborare a LAltra Brescia ,
mensile dopposizione e di barricata che durerà meno di quanto noi, che
lavevamo voluto e fatto nascere, sperassimo.
Massimo, chi più chi meno, lo conoscevamo tutti: era stato segretario della Federazione
giovanile del Pci dopo una breve militanza («una malattia infantile, che era anche un
momento di ribellione nei confronti dei genitori») nellultrasinistra, ma poi aveva
lasciato la politica attiva, considerando chiusa lesperienza,
Eravamo nellautunno del 73 e da qualche anno sera chiusa
lesperienza de LEco di Brescia - che, dapprima quindicinale e poi settimanale,
era stato portatore di un progetto ambizioso, ancorchè non definito con chiarezza: far
nascere qui, allombra del Cidneo, una redazione alternativa - e linformazione
era monopolio di un unico quotidiano di proprietà delle due maggiori banche locali, una
cattolica e paolotta e laltra laico-confindustriale.
A noi, che venivamo da altre esperienze e da culture diverse, pesava parecchio questa
situazione che escludeva ogni tipo di pluralismo: per questo avevamo deciso di dar vita a
una pubblicazione, LAltra Brescia appunto, chiamando a collaborare, ovviamente
gratis, tutti coloro che avevano voglia di farlo. Tra questi cera appunto Massimo
Mucchetti, che lì, in quello stanzone pieno di libri della "Grafo", dove ci si
trovava per discutere, programmare e fare la redazione, ebbe come si suol dire la prima
investitura.
Che quel ragazzino, figlio del calzolaio di corso Cavour, fosse un tipo vivace e
versatile, di cerebro vispo e di brillante scrittura, si vide subito: lo stanzone di via
Bassi fu in sostanza il Giordano nel quale ricevette il battesimo e il vedemecum per il
mestiere di giornalista. Daltra parte, lui possedeva anche un solido bagaglio
culturale e adeguati strumenti: aveva frequentato con ottimo profitto il classico
all"Arnaldo" - il liceo delle "saponette", i figli della Brescia
borghese e professionale che allora più di adesso contava -, sera laureato alla
Statale di Milano in storia e filosofia, con una tesi sul movimento sindacale allOm
negli anni Cinquanta, era un gnaro di buone e assidue letture, con in corpo la curiosità
che serve e stimola, la voglia di esplorare, andare sotto la crosta, approfondire e
capire.
Massimo si era scoperto la vocazione ma, se volevi fare il giornalista come mestiere e non
per hobby in quei primi anni 70, dovevi cambiare aria: nellunico giornale su
piazza entravi solo con lavallo delle banche che, passato il primo dopoguerra, ne
erano ritornate padrone.
La prassi era di due cattolici assunti per un laico e dopo un accuratissimo esame del
sangue, e guai se ti scoprivano anche una lieve parvenza di rosso, che le saracinesche
calavano giù implacabili, a... escludere il contagio.
Fu così che il Mucchetti - dopo aver fatto il correttore di bozze a Madre , da don Mario
Pasini che per essere un prete era più laico e aperto di molti - divenne un pendolare
della Brescia-Milano e ritorno.
Già collaborava a Giorni - Vie Nuove , diretto da Davide Lajolo,
l"Ulisse" partigiano autore dellautobiografico
"Voltagabbana", e faceva anche qualche pezzo qua e là, finchè trovò un posto
allUfficio stampa della Regione Lombardia.
Nel frattempo, "una bella mattina daprile del 74" - era questa la
scritta che campeggiava sui manifesti che lo annunciavano - era nato il secondo quotidiano
bresciano, che avrebbe consentito a noi, che lavevamo sognato e atteso come il
Messia, di intraprendere - pur con qualche globulo rosso nelle vene - il lavoro di
giornalisti, fino a quel momento off-limits.
Come siano andate le cose a Bresciaoggi è noto: mollato dopo 15 mesi dalla proprietà,
divenne cooperativa e, con mille sacrifici, è andato avanti, mangiando pane agro, fino a
trovare una sua operosa normalità, povera, sottopagata ma nutrita di orgoglio e dignità.
E qui, il primo gennaio dell81, lasciando un posto sicuro e ben remunerato, approdò
il Massimo Mucchetti, per lavorare alle pagine economiche con Odoardo Rizzotti ("il
tarlo"), che gli trasmetterà in fretta la curiosità per i conti delle aziende e,
con finta scontrosità, sarà ben lieto di farsi rubare le regole del mestiere.
Credo siano stati anni professionalmente felici, quelli, per la capacità di Massimo di
fare giornalismo serio e informato, in un contesto uso da sempre a tenere per sè notizie,
cambiamenti, movimenti e linee. Ricordo alcuni casi, che costituirono a mio parere punti
di svolta per il giornale: la prima cronaca sulle contrapposizioni e i dissidi
allinterno dei metalmeccanici della Flm, che guai a parlarne, specie sulle pagine di
un giornale di "sinistra" (ci fu chi venne a chiedere a muso duro la testa del
"reprobo": Sergio Milani, il direttore, oppose un secco e gelido no, che servì
a chiarire una volta per tutti i rapporti). Ricordo inoltre unintervista a Cesare
Trebeschi, che denunciava la caduta del gusto del rischio nelle imprese bresciane: si
aprì un dibattito al quale parteciparono numerosi industriali di casa nostra. Su
quellinchiesta i giovani dellAib organizzarono un convegno, con Deaglio, Marco
Vitale e Giampaolo Pansa. Fu lui a dire a Massimo che gli sarebbe piaciuto chiamarlo a
Repubblica . Al quotidiano, di cui Pansa era condirettore con il "principe"
Eugenio Scalfari, Mucchetti non è mai andato: in compenso, si sono ritrovati a
LEspresso nell86 dove - dopo aver lavorato un anno a Mondo Economico - lui
entrò da redattore e dove adesso è vicedirettore.
Quello che viene presentato in questi giorni è il primo libro di Massimo perchè - dice -
è faticoso scrivere libri mentre si fa il lavoro quotidiano. Già, dove lo trovi
altrimenti il tempo per vivere con la famiglia (lui è sposato con Rossana Scarsato,
architetto e responsabile dellUrbanistica in Loggia, e ha una figlia, Marta, che
studia all"Arnaldo"), per stare con gli amici (molti, tra cui "i
fratelli di latte di Bresciaoggi"), andare in bici (è un "ciclista o giù di
lì", per dirla con Jannacci), correre a piedi, girare il mondo, sedere a tavola da
civili gaudenti, parlare e discutere, confrontarsi e fare polemica, pacchiare e trincare
con i sodali di sempre?
Massimo lavora a Milano, non ha spostato i Lari e i Penati in metropoli, continua a stare
a Brescia e a fare il pendolare, dividendosi tra labitazione in città e la bella
casa della famiglia allargata a San Felice. Non esaurisce la vena creativa con lo
scrivere: dipinge anche, seppure con molto pudore. Se glielo chiedi, cita un vecchio
insegnamento del siòr Gino Lucchini: "non guardare agli utili - gli consigliò
quandera agli esordi -, ma agli oneri finanziari delle imprese". Ha saputo fare
questo e altro.
Sono contento che abbia scritto il suo primo libro, unopera matura, che ha già
avuto recensioni lusinghiere. Gli auguro - sommessamento - di farne altri, ovviamente se
ha voglia. Noi amici e "fratelli di latte" ne siamo debitamente orgogliosi.
Aspettiamo solo di berci sopra.
Da "Licenziare i padroni?" ed.
Feltrinelli (13 euro, 240 pagine) di Massimo Mucchetti. Pubblichiamo alcuni estratti dai
capitoli "Il nuovo Centauro" (profilo di Silvio Berlusconi) e "Il mestiere
dello stato", oltre che un' "Intervista" all'autore tratta dal sito della
Feltrinelli.
CAPITOLO V
FININVEST, IL NUOVO CENTAURO
Nei primi mesi del 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, alla City di Londra dicevano
che al cancelliere Helmut Khol era riuscito il più grande take over della storia: la
riunificazione delle due Germanie. Tredici anni dopo, il maestro Khol, un politico puro di
pura razza democristiana, leader storico del Partito popolare europeo, è stato superato
dallallievo Silvio Berlusconi, un imprenditore, un padrone vero, di pura razza
padana, capace di diversificare i propri investimenti aggredendo quello che lui stesso
chiama il mercato della politica. Il ricorso limmagine del take over, della scalata
di Borsa, veniva giustificato dai banchieri daffari perché la Repubblica federale
tedesca si era annessa la Repubblica democratica senza sparare un colpo di fucile, ma
pagando profumatamente i fratelli separati dellEst proprio come fanno i raider di
Wall Street o della City. Concedere il cambio alla pari, come se il marco ex comunista
valesse davvero quanto la moneta più forte dEuropa, equivaleva a un colossale
trasferimento di ricchezza al di là dellElba. Un premio che aveva la sua
giustificazione nellacquisizione di un mercato di 17 milioni di consumatori e di
lavoratori istruiti.
Il re della televisione commerciale, che ha per simbolo il Biscione di Milano,
si è dato un obiettivo ancora più grande: lItalia. Anzi, per usare il linguaggio
caro al singolare scalatore, lAzienda Italia, la sesta potenza industriale del
mondo, una conglomerata gigantesca con un fatturato (il prodotto interno lordo) di 1.216
miliardi di euro, 56 milioni di cittadini, tre volte e mezza lex Germania
dellEst. Questa volta, il compratore non è uno Stato sovrano, ma un cittadino, che
ha costruito dal nulla, e pagato di tasca propria, limpresa adatta alla bisogna: il
partito politico Forza Italia (1). Attorno allimpresa-guida lo scalatore ha unito
altri partiti di centro-destra in una coalizione detta la Casa delle Libertà. E questa
coalizione, il 13 maggio 2002, ha ottenuto il consenso della maggioranza dei
cittadini-azionisti dellAzienda Italia in quella specie di assemblea per il rinnovo
delle cariche sociali che sono le elezioni politiche.
Leccezionale preda, naturalmente, non può essere a disposizione del raider come una
qualsiasi Montedison. E nemmeno come lo sono i lander dellEst per la nuova comunità
tedesca. Benché la Casa delle Libertà sia presidiata da professionisti, manager e
imprenditori che promettono di governare lItalia proprio come unazienda, lo
scalatore Berlusconi trova un limite istituzionale alla sua intraprendenza
nellopposizione politica e nella Costituzione della Repubblica. La sua è
lacquisizione di un potere esecutivo, non di diritti patrimoniali sulle attività
dellAzienda Italia. Le leggi dello Stato la corporate governance
dellAzienda Italia, direbbero i giuristi del pensiero unico neocapitalista
delimitano il diritto allesercizio del governo nellarco di una legislatura,
salvo una nuova vittoria elettorale e la conseguente riconferma. Dunque,
lacquisizione di Berlusconi è assai più grande, ma anche assai meno radicale nelle
sue conseguenze e di durata assai più incerta di quella di Khol.
Ci sono politici come il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, e
politologi come Giuseppe Sartori che paventano linizio di un regime qualora non
venga sciolto il conflitto dinteressi tra il Berlusconi capo del governo e il
Berlusconi proprietario delle tv che influenzano in modo rilevante lopinione
pubblica (2). Avessero ragione loro il take over berlusconiano assumerebbe maggior
stabilità. E ci sarebbe meno da sorriderne. Ma questo è un altro problema. Qui basti
osservare che linvestimento delluomo daffari nel business della politica
ha già ottenuto un premio che lo ripaga ampiamente. Tanto ampiamente da fare del
beneficato un nuovo animale nello zoo del capitalismo internazionale, mezzo padrone del
vapore e mezzo politico.
Nel corso di unaudizione parlamentare, rispondendo al deputato comunista Napoleone
Colajanni che lo interrogava sullambiguità degli assetti azionari di Mediobanca,
Enrico Cuccia disse: <<Sono per così dire un centauro: metà uomo e
metà cavallo. Scelga lei qual è il pubblico e qual è il privato>> (3). Questa
immagine mitologica, che con una vena di orgogliosa autoironia il vecchio banchiere aveva
scelto per sé stesso, ci sembra possa andar bene anche per Silvio Berlusconi. E lui
il nuovo Centauro. E tocca a noi capire quando nelle sue parole e nelle sue azioni
prevalga linteresse personale e quando linteresse dei pubblici uffici che è
andato a ricoprire.
Diceva Balzac
Silvio Berlusconi decide questa sua mutazione genetica per risolvere in modo definitivo
tre problemi: fermare, o comunque sterilizzare, le indagini della magistratura sulle
origini e sulla costruzione della sua fortuna; proteggere le sue aziende; avere una
regolamentazione del suo principale settore dattività, la televisione, che non
intacchi la sua posizione dominante con incisive disposizioni antitrust. Non sono problemi
inediti nella storia del capitalismo italiano. A dire il vero, sono proprio i soliti
problemi dei padroni del vapore di ieri e di oggi. Ma inedita è la loro soluzione.
Tra il 1908 e il 1912, per esempio, Giovanni Agnelli I subì un processo per aggiotaggio e
truffa a seguito di unindagine sollecitata dal quotidiano La Stampa, non
ancora in suo potere, e condotta dalla Questura di Torino dopo la strana liquidazione
della Fiat e la sua ricostituzione sotto il controllo dello stesso Agnelli, ma senza più
la presenza degli altri soci fondatori. Lo storico Valerio Castronovo ricorda che
laccusato fu assolto dopo linsolito intervento del ministro della Giustizia,
Vittorio Emanuele Orlando, per sollecitare la rapida conclusione dellinchiesta: lo
stesso Orlando che presiederà il collegio difensivo della Fiat nellormai scontato
processo dappello (4). Dal 1994 Silvio Berlusconi è sottoposto a indagini e
processi da parte della magistratura milanese e palermitana, che hanno fatto emergere, al
di là dei giudizi non ancora pervenuti a una sentenza definitiva, una struttura
societaria occulta parallela al gruppo Fininvest per la gestione di fondi
neri, la cui costituzione esige la falsificazione dei bilanci ufficiali (5).
Scriveva Honoré de Balzac in Papà Goriot: <<Il segreto delle grandi
fortune senza causa apparente è un delitto dimenticato, perché fu fatto a
puntino>>. I padroni del vapore non amano mai le inchieste sul loro primo miliardo.
Meno che mai se a farle è la magistratura. Rendono difficile dimenticare far dimenticare.
Investire in politica
Con un investimento di 250 miliardi di lire, che rappresentano il debito consolidato di
Forza Italia garantito da sue personali fideiussioni, il nuovo Centauro si è assicurato
il potere di assegnare ai propri avvocati un seggio in Parlamento, di far eleggere il
principale fra loro alla presidenza della commissione Giustizia, di avere come ministro
della Giustizia un ingegnere di Lecco iscritto alla Lega, un partito in declino che chiede
soldi in banca con la sua firma. Nel senso della firma di lui, del nuovo Centauro (6).
E la potenza di fuoco necessaria a risolvere il problema, rallentando i processi
fino alla prescrizione dei reati quando non direttamente depenalizzando le violazioni del
codice come gli è riuscito, di fatto, con il falso in bilancio. Quanto vale un simile
scudo quando lopinione pubblica internazionale si solleva contro i bad boys della
finanza e negli Stati Uniti si rischiano 25 anni di galera per le truffe sui bilanci?
Senza spendere una lira in aggiunta, il più ambizioso degli scalatori si è anche
regalato il diritto di nominare il consiglio di amministrazione della Rai e il potere di
riformare la legge Mammì sulle concentrazioni nelleditoria e nella televisione. La
Rai è lunico concorrente delle reti Mediaset, non potendosi considerare tale La 7,
data la fatale debolezza del cosiddetto terzo polo televisivo. La nuova regolamentazione
del mercato dellinformazione definisce il quadro normativo nel quale Mediaset
opererà nei prossimi anni. Avere lultima parola nelle due materie rappresenta un
vantaggio competitivo inestimabile. Quanto pagherebbe il presidente dellInter,
Massimo Moratti, per essere lui a nominare il presidente e lallenatore del Milan? E
quanto sarebbe disposto a sborsare Marco Tronchetti Provera per far ridefinire a un amico
fedele le regole della concorrenza nelle telecomunicazioni in modo tale da salvaguardare
quel che resta del monopolio di Telecom Italia? La circostanza che il consiglio della Rai
sia nominato dai presidenti della Camera e del Senato non cambia la sostanza del
previlegio acquisito da Mediaset con lascesa al potere del suo padrone.
Pierferdinando Casini e Marcello Pera sanno bene a chi devono le loro poltrone. E ancor
più lo sa il ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, autore della riforma della
riforma Mammì.
Nelle normali economie capitalistiche, il diritto di designare il capo dellazienda
concorrente si acquisisce comprando la concorrente medesima. E quasi sempre questo
giochetto costa un sacco di soldi. Nelle normali economie capitalistiche, inoltre, un
capitano dindustria riesce a dettare le regole di funzionamento del suo settore, se
ne conquista il monopolio sbaragliando gli avversari e addomesticando poi le autorità
Antitrust. Silvio Berlusconi è lunico grande capitalista ad aver acquisito questi
diritti pagando così poco: 250 miliardi, nemmeno sborsati, ma solo garantiti.
Daltra parte, nessun altro suo simile ha avuto il coraggio o la faccia tosta
di adattare la famosa sentenza di Carl von Klausewitz (<<La guerra è la
prosecuzione della politica con altri mezzi>>) alla più prosaica idea che
lazione politica diretta possa rappresentare la prosecuzione dellattività
economica personale con altri mezzi. (...)
CAPITOLO VI
IL MESTIERE DELLO STATO
Giovanni Agnelli II, il banchiere Vincenzo Maranghi, Marco Tronchetti Provera e Silvio
Berlusconi, i quattro archetipi del padronato, non offrono un solo modello vincente alla
grande impresa italiana allalba del XXI secolo. I primi due, perché hanno distrutto
ricchezza in misura assai rilevante nei gruppi industriali dei quali hanno avuto la
responsabilità, per legge o de facto importa poco. Hanno distrutto ricchezza e, quel che
è peggio, non hanno lasciato una speranza di futuro. Gli altri due perché, pur vantando
prestazioni migliori, propongono un regime proprietario troppo debole, nel caso del nuovo
signor Telecom, o troppo forte, nel caso del nuovo Centauro, padrone della Fininvest e di
palazzo Chigi.
Il presidente donore della Fiat ha sempre privilegiato la finanza e la conservazione
del potere nellallocazione dei denari e nella scelta degli uomini, fedele in questo
alla logica di Enrico Cuccia che usava dire: <<Gli ingegneri di produzione come
Ghidella si trovano sempre, le persone come Romiti sono molto rare>>[i]. Ma il
pensiero che può essere scusato in un banchiere è assai meno accettabile in chi ha la
responsabilità del primo gruppo industriale italiano. I risultati sono lì a dimostrarlo.
La Fiat chiude il suo primo secolo di storia, diretta secondo un toyotismo provinciale
declinato in termini di mero e perdente risparmio di spesa, mentre le esperienze tedesca e
francese insegnano che lindustria dellauto può reggere i costi di produzione
più alti dEuropa se lazionariato sa investire sulla qualità del management e
del prodotto.
Laltro archetipo padronale, il banchiere erede di Cuccia[ii], non ha saputo né
vendere le diverse società della Montedison per tempo, quando la Borsa avrebbe pagato
prezzi elevati, né tenere unito quello che era pur sempre il secondo gruppo industriale
privato italiano. Dopo otto anni sotto la regia di Mediobanca, la Montedison passa di
mano, viene smembrata e si riduce allinfimo rango del percettore di aiuti pubblici,
quelli che un provvedimento del governo, il famigerato Cip 6, assegna alle centrali
elettriche privilegiate dal principe.
Tronchetti Provera, personalmente, non ha distrutto ricchezza, benché la Pirelli come
tale, misurata sullo stesso arco temporale adottato per gli altri grandi gruppi e
comprendendo dunque anche lultima stagione sotto legida della famiglia
fondatrice, abbia bruciato risorse per 3.800 miliardi di lire. Ma, come abbiamo visto, il
nuovo padrone di Telecom Italia sta in piedi grazie a una piramide societaria senza eguali
al mondo. Un sistema di controllo machiavellico che apre un conflitto oggettivo tra le
esigenze di sviluppo dellex monopolio dei telefoni e la necessità del
padrone-manager di conservare salda la sua presa sullazienda. Telecom Italia o Tim
potrebbero approfittare della situazione difficile della concorrenza per conquistare
qualche rilevante compagnia estera e diventare così delle vere e proprie multinazionali.
Tim ha già avuto Vodafone nel mirino e ha dovuto rinunciarvi per ordine del Tesoro.
Volesse tornare alla carica - non più con il colosso inglese, che ormai possiede Omnitel,
ma con altri - avrebbe bisogno di un massiccio aumento di capitale oppure, per non tirare
fuori soldi, dovrebbe assorbire la preda attraverso una fusione. Nel primo caso,
metterebbe alla frusta una proprietà assai indebitata, e rischierebbe di essere bloccata.
Nel secondo caso, la fusione avrebbe leffetto di diluire le partecipazioni di
comando della Pirelli e dei suoi compagni di viaggio, e questo sarebbe inaccettabile
avendo costoro pagato profumatamente a Gnutti e soci la maggioranza relativa di Olivetti,
che assicura, al momento, il potere su Telecom. E ragionevole immaginare che
Tronchetti anteponga linteresse della Pirelli per la conservazione dello statu quo a
quello del gruppo Telecom Italia per uninternazionalizzazione in grande stile. Nel
mondo, le più importanti società di telecomunicazioni sono public company oppure
dipendono dagli Stati. Telecom Italia è lunica che ha, sia pure allitaliana,
una proprietà privata con un titolare in carne e ossa: talmente preciso che nella prima
versione dei suoi accordi parasociali con i Benetton, Marco Tronchetti Provera legava il
futuro dellalleanza alla sua personale permanenza ai vertici della Bicocca[iii].
Il quarto archetipo padronale, Silvio Berlusconi, ha i conti in regola. E non è poco. Ma
la sua storia risulta inimitabile, perché nessuno riuscirà più a proteggere i propri
affari con un triplice giro di mura come lui ha saputo fare grazie al rapporto con il
potere politico, prima intermediato dagli amici, Bettino Craxi in testa, e poi giocato in
prima persona. Tre muraglie che vanno ricordate. La prima è costituita dalla lingua,
barriera naturale, quasi insuperabile: la tv in inglese non ha un futuro di massa
imminente in Italia. Poi cè la seconda muraglia, e cioè il regime di comodo
duopolio con un concorrente, la Rai, a raggio dazione limitato grazie a quella tassa
impropria che si chiama canone e che, per par condicio, impone a chi ne beneficia di
rinunciare a dispiegare tutta la propria forza nella raccolta della pubblicità. La terza
cerchia di mura è quella messa in campo dal governo della Casa delle Libertà che non
solo regola il settore della televisione e delleditoria a palese beneficio del
Biscione, ma anche regala al suo capo il potere di farsi togliere le castagne dal fuoco,
comè avvenuto con lacquisto delle fallimentari guide telefoniche della
Fininvest a opera del gruppo Telecom Italia targato Tronchetti.
Nemmeno la Fiat è mai stata capace di blindare a tal punto i propri affari. Ma proprio
per questa ragione, Berlusconi, il nuovo Centauro, rimane un caso isolato. E davvero
improbabile che si diano di nuovo le condizioni che consentano a un altro padrone del
vapore di erigere una simile, triplice cerchia di protezione.
Benché abbia un capo del governo che si ritiene capace di tutto, anche di risanare la
Fiat se solo non avesse tanti impegni[iv], la verità è che nellultimo decennio del
secolo XX nel decennio della Grande Occasione - lItalia ha perso la sua grande
industria manifatturiera. Ed è arrivata a una svolta epocale dagli esiti così incerti
che leconomista Mario Deaglio paragona le crisi della Fiat, della Ferruzzi, della
Montedison e prima ancora di Olivetti alla decadenza delle Signorie nel Cinquecento[v].
E una sconfitta che ha molti padri. Al tempo del pensiero unico neocapitalista è
facile gettare la croce addosso ai sindacati e alla classe politica. Ma cedendo a questa
tentazione non si fa molta strada. Dopo il 1989 il capitalismo non ha più alternative di
sistema. E il sindacato italiano garantisce da tempo pace sociale e salari inferiori a
quelli di tanti paesi europei concorrenti[vi]. Le punte di massimalismo non mancano e
tuttavia restano ben al di sotto dellestremismo mostrato da altre associazioni di
categoria come quelle degli allevatori, del trasporto aereo o dei camionisti. Continuare a
pensare che la crisi dipenda dalla diffusione delle culture cattolica e comunista,
riesumare polemiche di sapore neovallettiano contro i "distruttori", si sta
rivelando sempre di più una manifestazione di pigrizia mentale che non aiuta a costruire
un futuro migliore.
Nel mondo ormai si confrontano i diversi modelli di capitalismo, i differenti regimi
proprietari, leconomia che si contamina con le religioni, e non è detto che lo
shintoismo, il buddhismo e perfino lIslam non possano riservare sorprese a chi crede
nella definitiva superiorità della versione neoprotestante del capitalismo. Perfino la
Cina comunista è un capitalismo. Parliamo dunque di capitalisti, e lasciamo stare per una
volta gli uomini politici italiani, così deboli da delegare la loro funzione a banchieri
centrali in quiescenza come Ciampi e Dini o a nuovi Centauri come Berlusconi. In questo
libro ci abbiamo provato, osservando in particolare il ruolo giocato dalla proprietà.
Resta da capire perché la proprietà dei grandi gruppi si sia organizzata secondo i
quattro modelli che abbiamo illustrato, quali ulteriori effetti ne possano derivare e se
esista una via duscita positiva. E la materia del capitolo conclusivo. Che
trascurerà i politici ma non la politica. (...)
Intervista su Licenziare i padroni? a
cura della redazione di www.feltrinelli.it
Com'è nato questo libro?
Carlo Feltrinelli mi ha chiesto per la prima volta di scrivere un libro sul capitalismo
italiano sei o sette anni fa durante una colazione dai suoi amici della Vitale &
Borghesi, una piccola banca daffari milanese che oggi è diventata la filiale
italiana della maison Lazard. Pensava che la testimonianza di un giornalista attento ai
bilanci più che ai pettegolezzi, milanese più che romano, potesse essere interessante.
Ma allora non accettai.
Rievoco lorigina remota, in un certo senso privata, di questo lavoro non per
suggerire chissà quali interminabili pensamenti, ma solo per ricordare perché, pur
avendo in mente lidea, allora non ne feci nulla: a mio avviso, a metà degli anni
novanta, scrivere un libro come questo sarebbe stata una manifestazione di estremismo.
Perché i padroni non erano già da licenziare?
In molti casi lo erano anche allora. Ma a metà degli anni novanta mi sembrava possibile
non probabile, ma possibile che il capitalismo italiano cogliesse la Grande Occasione che
si andava dispiegando. Mai come nel decennio appena trascorso sono affluiti capitali di
rischio al sistema delle imprese. Dal 1993 al 2001 tra aumenti di capitale e collocamenti
sono stati versati 274 mila miliardi di lire. Nel 2000, la Borsa di Milano valeva il 70
per cento del prodotto interno lordo italiano. Cerano tutte le premesse per uscire
al capitalismo senza capitali che Angelo Costa illustrava alla Costituente nel 1946. Le
privatizzazioni avrebbero potuto aprire la strada a nuovi soggetti delleconomia. per
avviare la concorrenza, rompere le conventicole, archiviare il vecchio sistema delle
scatole cinesi che assicura ai soliti noti il massimo del potere con il minimo
dellinvestimento. Nello stesso arco temporale, si andava esaurendo la Prima
Repubblica. E le inchieste giudiziarie ponevano le premesse di un possibile rinnovamento
dei codici. E invece......
E invece?
E invece la Grande Occasione è stata persa. Gli uomini nuovi, i Tronchetti, gli Gnutti, i
Benetton hanno fatto uso degli stessi sistemi dei vecchi, degli Agnelli, dei Ferruzzi, di
Mediobanca. Chi, come Colaninno, ha creduto allemergere di una razza padana di
piccoli investitori capaci di reggere un progetto industriale di ampio respiro sulle
telecomunicazioni si è dovuto accorgere a sue spese - a sue spese si fa per dire, perché
qualcosa ha guadagnato - che lobiettivo era solo la speculazione.
Ma lItalia, in realtà, è andata avanti.
LItalia delle piccole e medie imprese è cresciuta. Ha creato nuova ricchezza.
LItalia dei grandi gruppi no. Dal 1986 al 2001 la Fiat ha bruciato 27 mila miliardi
di vecchie lire, la Olivetti 14 mila, Montedison 9 mila, la Pirelli quasi 4 mila,
Finmeccanica 6 mila, lItalcementi oltre mille.....
Chi lo dice? Chi ha fatto questi conti?
Questi conti li ha fatti il sottoscritto e li ha verificati con alcuni addetti ai lavori.
Ma si tratta di calcoli che potrebbe fare chiunque, basati come sono su dati ufficiali e
non su soffiate particolari.
E perché non sono stati fatti prima?
Forse perché negli ultimi anni i giornalisti, e anche gli studiosi, hanno ritenuto che
riconsiderare il passato, anche solo il passato prossimo, fosse una perdita di tempo. La
Borsa guarda al futuro. E se la Borsa diviene lidolo contemporaneo, se il suo modo
di ragionare diventa il pensiero unico, si finisce con lassumerne le logiche anche
dove non si dovrebbe. In realtà, i grandi della finanza hanno memoria delefante, ma
gli yuppies non sono grandi. Sanno tutto dello yield e del p-e, ma non sanno che cè
più verità nellusuraio e sua moglie di Quentin Metsys che in un rapporto della
Goldman Sachs.
Dunque certi silenzi derivano solo da mancanza di cultura.
Credo che questa sia la ragione principale. Ma forse cè anche dellaltro.
Perché chi ha creato ricchezza cè. E può essere imbarazzante. Lo stato, per
esempio, si è rivelato un imprenditore vincente.
Ma le aziende di Stato non erano il peggio?
Queste sono le balle messe in giro dai grandi gruppi privati che le volevano, e le
vogliono, prendere per un tozzo di pane. Nello stesso periodo 1986-2001 nel quale i grandi
privati distruggono tanta ricchezza, lEni genera 66 mila miliardi di nuova
ricchezza, lEnel 12 mila, Telecom Italia, nellultima fase della gestione
pubblica 41 mila. Si dice: bella forza, godono di posizioni monopolistiche o quasi.
E vero. Ma è anche vero che fino al 1994, queste società perdevano o guadagnavano
pochissimo. E oggi i privati in fuga dalla grande industria le cercano a tutti i costi, e
in tutti i modi ne vogliono preservare le posizioni dominanti sul mercato con i relativi
privilegi. Nel libro racconto, sulla base di documenti inediti dellIri che erano
conservati non nellarchivio di stato, ma nel cassetto della scrivania di Enrico
Cuccia, il più grande banchiere italiano del Novecento, come la Sip - così si chiamava
allora Telecom Italia - fosse stata offerta invano ai vari Agnelli, Pirelli, Motta, Cini e
compagnia. Il senatore Giovanni Agnelli, il nonno dellavvocato Agnelli appena
scomparso, lasciò perdere osservando che il telefono era "roba da ricchi". Lo
stato si è fatto imprenditore perché i privati, che avrebbero potuto gestire la grande
impresa, si sono sottratti allimpegno. Le ragioni sono tante. Le responsabilità non
toccano tutte ai capitalisti, ma i fatti restano quelli.
Ma non cè nessun grande capitalista privato con le carte in regola?
Tra i molto grandi non ce ne sono molti. Ne cito due. Leonardo Del Vecchio e Silvio
Berlusconi. Il primo mi pare, al momento, un esempio del tutto positivo: ha gestito con
grande capacità la Luxottica reinvestendo nella sua vera attività tutte le risorse.
Quando ha speculato - e lha fatto con i grandi magazzini GS - lha fatto con i
soldi suoi e non con quelli dellazienda. Tutto il contrario, insomma, di Fiat e
Pirelli, di Ferruzzi e Montedison, che hanno diversificato con i risultati che ciascuno
può constatare.
E Berlusconi?
Silvio Berlusconi ha creato, con la Fininvest, 11 mila miliardi di nuova ricchezza.
Davvero?
I numeri sono i numeri. Ma Berlusconi è un esempio assai meno positivo di Del Vecchio. Il
patron di Luxottica sta sul mercato internazionale, compete ai massimi livelli. Non fa
ricerca, perché il settore non ne esige. Del resto nemmeno Fininvest ne fa. E questo ci
dovrebbe far riflettere tutti: un sistema che non fa ricerca non può avere un gran
futuro. Ma limprenditore Berlusconi, dicevo, vince perché ha saputo costruire una
posizione dominante per le sue televisioni. La Rai, beneficiando del canone, ha a
disposizione per la pubblicità un tempo che equivale a poco più di un quarto di quello a
disposizione di Mediaset. Per le tv del Biscione, dunque, non cè di fatto
concorrenza. Non a caso, la Rai non viene mai privatizzata. In altri settori, per esempio
in quello della grande distribuzione o delle guide telefoniche, la Fininvest ha fallito.
Beh, allora nel complesso Berlusconi è stato bravo.
Come imprenditore non cè dubbio. Certo, più bravo di Gianni Agnelli o di Raul
Gardini, per citare due personaggi ormai consegnati alla storia. Ma questo genere di
classifiche mi lasciano freddo.
Perché?
Perché tutti questi signori, queste aziende non sono come squadre di calcio, per le quali
fare il tifo; né rappresentano ideali da sostenere, magari con qualche sacrificio. Questi
signori perseguono soltanto il loro personale interesse, anche se spesso dicono il
contrario. In fondo è la loro moralità professionale. Ma noi che cosa centriamo?
Noi facciamo i giornalisti. E la nostra moralità è cercare di capire e raccontare il
mondo, e commentare avendo come bussola il bene comune. In questo linformazione è
affine alla politica
Un bel pistolotto, ma per dire che cosa?
Per dire che la creazione di ricchezza va bene certamente quando avviene seguendo le buone
regole come nel caso Luxottica. Può andare bene o male quando è protagonista un
monopolio di stato: i cittadini, "azionisti" del monopolio, possono decidere,
attraverso la mediazione della politica, se la ricchezza creata dallEnel o
dallEni debba andare, semplifico, in maggiori salari per i dipendenti dellEnel
e nellEni, in più cospicui dividendi per i soci o in minori tariffe per gli utenti.
Non va bene invece, se la ricchezza viene generata da un monopolio privato. E le ragioni
sono evidenti. Berlusconi, come gli altri, tende al monopolio. La politica, che dovrebbe
avere per scopo il bene comune e non linteresse personale, dovrebbe tagliare le
unghie ai monopolisti. Dunque anche a Berlusconi. Ma la politica da 10 anni è Berlusconi.
E Berlusconi non può tagliare le unghie a Silvio. Nel libro, per questo personaggio mezzo
politico e mezzo imprenditore ho adottato la definizione che Cuccia dava di sé stesso:
"Sono un Centauro", diceva il vecchio banchiere alludendo alla duplice natura
dellazionariato della sua Mediobanca, "mezzo pubblico e mezzo privato":
Berlusconi è il Nuovo Centauro. Che ha scalato con minima spesa la politica e si è
blindato come nessuno.
E un approccio molto pessimista. Non cè speranza?
Non ragionerei in termini di pronostici, di pessimismo o di ottimismo. Vedrei se invece
lanalisi è corretta. E se è vero che alla radice della crisi della grande
industria italiana cè leclisse di un padronato che trova più conveniente
rifugiarsi nei monopoli, più meno ex, dei telefoni o della tv, dellenergia
elettrica del gas, delle autostrade, allora il problema è come ricostruire un padronato
degno di questo nome, perché unisce il potere alla responsabilità patrimoniale e al
rischio assunto in prima persona. E questione di regole, di leggi e di politica
industriale. Di togliere dalla costituzione materiale delleconomia quella specie di
articolo 18 che rende inamovibili i grandi padroni che si chiamino azionisti di
maggioranza o di riferimento, che siano banche daffari o manager travestiti e
onnipotenti non importa. E questo costituisce la materia del capitolo finale del libro
che, non a caso, si intitola "Il mestiere dello stato".
Tra le numerose recensioni al libro
riportiamo questo passaggio di Giorgio Bocca da "la Repubblica" : "Massimo
Mucchetti è un provinciale arrivato da Brescia con la ingenuità e la lucidità dei
provinciali: scopre le cime abissali della nostra economia con uno stupore che non gli
impedisce di descrivere il labirinto, di penetrare nelle sue combinazioni più riposte.
Non è un moralista, non suggerisce soluzioni, non imposta processi, fa quel che i padroni
del vapore hanno sempre cercato di non fare, spiegare ai concittadini come sono andate realmente le cose anche se il labirinto è tale
che alla fine non si capisce come e perché lo abbiano così costruito".
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