GEORGE   SOROS

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George Soros è nato nel 1930 a Budapest da una famiglia dell'alta borghesia ebraica. nel 1947 si è trasferito in Inghilterra per studiare alla London School of economics, dove tra gli altri ha avuto come docente il filosofo Karl Popper, cui ha rivendicato di ispirarsi in tutta la sua vita. Nel 1956 è andato a vivere a New York, dove ha iniziato una carriera nella finanza che doveva portarlo negli anni successivi a straordinarie fortune. Nel 1969 ha fondato la Quantum Fund, una finanziaria di gestione di capitali che è stata a lungo la famiglia di fondi d'investimento più capitalizzata del mondo.
A cambiare i destini del mondo, Geroge Soros, finanziere, filantropo e filosofo, ci è ormai abituato. Nella notte del 16 settembre 1992, con una speculazione forsennata al ribasso provocò il crollo della sterlina e della lira e forzò la loro uscita dal sistema monetario europeo. In quella notte Soros guadagnò ben un miliardo di dollari. In associazione con altri egli contribuì anche al crollo del famoso muro di Berlino (9 Novembre dell'89), infatti egli aveva giocato una grandissima parte nello smantellamento della pseudo ideologia comunista dell'est. Nel 1979 aveva infatti fondato la potentissima e ricchissima Open Society Foundation www.soros.org che dovrebbe richiamarsi nei contenuti alla Open Society Organization : uffici in tutte le capitali dell'est, dalla natia Budapest fino a Mosca e aveva portato avanti un'opera martellante di indottrinamento, di master, di convegni, di interventi, di eventi di piazza, tutti all'insegna del liberismo capitalista e della spiegazione che le teorie collettivistiche non avrebbero retto.
Ora ha deciso che finanzierà i Democratici alla casa bianca nelle elezioni americane del novembre del 2004. Per dimostrare che sta facendo sul serio, Soros ha messo a disposizione i primi 10 milioni di dollari e ha anche indicato quattro possibili candidati. La sfida del finanziere filantropo è infatti doppia: prima far vincere la nomination a uno dei suoi candidati prediletti e poi condurre il prescelto fino alla Casa Bianca. per i Democratici Soros non baderà a spese, anche se battere Bush non sarà un'impresa da poco, infatti il presidente odierno dispone di una macchina da finanziamenti poderosa, in grado si dice di garantirgli fino a 100 milioni di dollari. L'appoggio del finanziere speculatore alle correnti di pensiero più avanzate e progressiste del paese si spiega leggendo i suoi libri. Soros infatti è stato allievo di Popper e si autoproclama continuatore della sua dottrina.
nel libro L'Alchimia della Finanza del 1989 Soros traccia un lungo excursus sulle logiche e i segreti del mercato. Non mancano ovviamente ampie rivelazioni sui punti deboli delle strutture di sicurezza anti-speculazione, proprio quelle che in più di un'occasione l'autore si è divertito a violare e perfino consigli su una banca centrale internazionale e su un nuovo sistema di controllli incrociati. C'è poi una lunga riflessione sulla crisi di Wall Street del 1987 (il 17 ottobre di quell'anno Wall Street perse in un giorno solo il 22,4%) e una conclusione à la philosophe: così come Keynes nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta aveva dimostrato che la piena occupazione era un'eccezione, così - secondo Soros -l' equilibrio sui mercati si deve considerare un'eccezione. Insomma, homo homini lupus, e vinca il migliore.
Nel secondo libro (Soros su Soros, 1995) queste granitiche certezze iniziano a vacillare. Sono spariti i toni autocelebrativi e si fa strada una vena di riflessione politica, di giudizio sulla politica e sui processi storici. Fino a prendere di petto Newt Gingrich, repubblicano ultraconservatore, antesignano dei newcon di Bush e Rumsfeld, che era diventato presidente della Camera: "Capisco il risentimento motivato dal "Contratto con l'America" (una specie di manifesto politico elettorale di Gingrich), soprattutto per la parte che riguarda il welfare (Gingrich sosteneva il metodo dell'assistenza basata sul mercato che esclude i poveri). E' giunto il momento di cambiare. Siamo in un momento in cui il pendolo  oscilla dalla parte opposta al welfare. Ma non si dimentichi che ogni costruzione  umana ha un punto debole, un difetto. Questo è vero per qualsiasi sistema monetario come è vero per il welfare state. Più a lungo dura il sistema, più evidenti diventano le sue deficienze". Ma è nel suo ultimo libro che la revisione di Soros si compie. A partire dal titolo: La crisi del capitalismo globale. Attenzione alle date: il libro è del 1999, all'apice del nuovo grande boom di Wall Street, e quindi verosimilmente delle fortune di Soros, uno che di andamento dei mercati ci vive. Eppure, cosa scrive? Fa un panegirico di pagine e pagine di Alan Greenspan quando il capo della Fed mette in guardia contro l' "irrazionale esuberanza". E' spietatamente critico con il Giappone che ancora paga le spese di un liberismo naufragato ("Al ministero delle Finanze di Tokyo attualmente sono rimasti a corto di trucchi e di alchimie"). Addita il Long Tenn Capital Management, un grosso hedge fund fallito pochi mesi prima (così come peraltro è un hedgefund il suo Quantum), come un esempio di rischi assunti con arbitrarietà, incoscienza e sprezzo delle più elementari regole di saggezza. E conclude risolutamente con l'affermazione che i "valori economici di per sé non possono bastare a s sorreggere una società. esprimono soltanto quel che un singolo soggetto del mercato è disposto a pagare a un altro in cambio di qualcosa. Tali valori presuppongono che ciascun soggetto sia un centro di profitto dedito a massimizzare i propri utili a esclusione di qualsiasi altra considerazione. Anche se questa descrizione corrisponde al comportamento di mercato, devono pur esserci altri valori alla base della società, anzi della vita umana".
Così, il cerchio si chiude, fino all'apoteosi di questi giorni. "L'America sotto Bush è un pericolo per l'umanità", ha tuonato l'altro giorno nella conferenza stampa in cui ha annunciato la sua sponsorship ai democratici. "Quando dice "chi non è con noi è contro noi" ' mi ricorda i nazisti: rimuoverlo dal potere sarà il centro della mia attività nei prossimi mesi. La gara per la presidenza del 2004 è una questione di vita o di morte". Insomma,- non resta che aspettare i prossimi passi, e le prossime esternazioni. Di sicuro, Soros dirà qualcosa di sinistra.
Sempre George Soros è tra i finanziatori del movimento Move On nato al tempo di Clinton, quando la Casa Bianca era nel vortice dello scandalo Lewinsky. Boyd e Blades erano delusi da Clinton e indignati per la strumentalizzazione del caso mandarono una e-mail a 50 amici per suggerire una petizione al congresso: "Censor Clinton and move on" (censurate Clinton e andate avanti ad occuparvi di cose più importanti). L'idea piacque ai destinatari e ognuno girò l'email ai suoi conoscenti. Tre settimane dopo era successo il miracolo. La petizione aveva 250.000 firme, e donazioni spontanee sufficienti a comprare una pagina di pubblicità sul New York Times. Da una lista di indirizzi e-mail era nato un movimento. Un anno dopo la sigla riemerse in un'America prostrata dal terrorismo e nel 2002 Move on era all'avanguardia del rinato pacifismo americano. La sua autonomia dai mass-media "ricchi", la capacità di raggiungerei giovani hanno favorito il successo delle manifestazioni pacifiste. Ignorati dalle tv, dall'ottobre 2002 fino all'attacco in Iraq quasi ogni settimana cortei di due-trecentomila persone sfilavano per le vie di San Francisco, Los Angeles o Washington contro la guerra. Il partito democratico, titubante e diviso, stava a guardare. Ma il tamtam di Internet arrivava in zone della società a cui la politica non parla da anni. A giugno MoveOn ha usato la sua potenza organizzando per la prima volta delle "primarie online" per scegliere l'avversario di Bush. Nessun candidato democratico ha osato snobbare l'appuntamento, tutti hanno dovuto accettare di andare sul sito www.moveon.org   per rispondere alle email dei simpatizzanti. Con 320.000 voti in 48 ore, il 26 e 27 giugno, l'affluenza ha superato quella delle primarie "fisiche" del New Hampshire, il tradizionale avvio della corsa alla nomination. Ed è lì che  Howard Dean ha cominciato a decollare. L'outsider a cui nessuno dava una chance è stato plebiscitato dal voto online. Da quel momento MoveOn lo ha appoggiato e la campagna di dean ha subito una metamorfosi: ai tradizionali comizi si sono affiancati gli incontri spontanei organizzati in tutte le città d'America attraverso il passaparola del sito Meet Up.
Internet si è rivelato una formidabile macchina di raccolta di fondi. MoveOn sta per raggiungere i 10 milioni di dollari a furia di mini-donazioni da venti dollari l'una. Dean distanzia i rivali, è oltre i 25 milioni di dollari. Il popolo anti-Bush ha capito che la destra va battuta anche sul terreno delle risorse economiche. Ogni volta che MoveOn lancia una nuova campagna - di recente la richiesta delle dimissioni di Rumsfeld - in poche ore affluiscono versamenti sufficienti a comprare una pagina deL New York Times (40.000 dollari) o uno spot televisivo (300.000 dollari). Ora l'associazione ha indetto sul suo sito un concorso di creatività, per selezionare tra giovani registi la più efficace pubblicità televisiva di 30 secondi contro la politica di Bush: nella giuria siede tra gli altri Michael Moore. La fantasia al potere è uno degli ingredienti di questo fenomeno: ha avuto successo istantaneo l'iniziativa di una e-mail quotidiana sulle bugie di Bush.
MoveOn ha dei valori ma non ha un'ideologia, non ha un gruppo dirigente nel senso tradizionale, tantomeno un'organizzazione di funzionari (oltre ai fondatori c'è solo un direttore stipendiato a tempo pieno). La sua forza è nell'interattività. Come selezionate i tempi su cui dare battaglia, ho chiesto a Joan Blades? "Fanno tutto gli iscritti, dalle lettere che mandano al nostro sito capiamo subito qual è il tema del momento, su cui sono pronti a mobilitarsi". Un recente documentario girato da volontari di MoveOn - "Tutta la verità sulla guerra in Iraq" - è l'occasione per organizzare degli house-parties, feste casalinghe in cui i simpatizzanti di MoveOn possono conoscersi di persona. Come un monitor del Pentagono, il sito del movimento esibisce una mappa degli Stati Uniti con tanti puntini luminosi per, ogni luogo dove si tiene un party: in queste ore la mappa splende come un albero di Natale.

E così Soros con Chomsky e tanti altri intellettuali liberal hanno capito che la politica aggressiva e prepotente di Bush e dell'America conservatrice non giova di certo al mondo nè agli stessi Stati Uniti, e questi pensatori ne sono così fermamente convinti tanto da dichiarare "Se Bush venisse rieletto nel novembre del 2004 sarebbe la più immane sciagura per il mondo e per questo paese." Soros ha infine dunque dichiarato: "Dedicherò tutte le mie risorse al finanziamento e al sostegno della campagna democratica. E' una sfida che vale la vita", e inoltre ha aggiunto, "Bush si è impadronito e ha successivamente tradito la memoria dell'11 settembre, scatenando la più irragionevole e controproducente delle rappresaglie".

Alcuni brani del testo sono presi dagli articoli di Eugenio Occorsio e Federico Rampini apparsi su reppublica il 17 novembre 2003 e il 10 dicembre 2003. il resto è opera di Carl William Brown


LA GLOBALIZZAZIONE, IL CAPITALISMO, I MERCATI, IL NON-PROFIT.

L'obiettivo di questo libro non è solo quello di far luce sul funzionamento del capitalismo globale, ma anche di suggerire metodi per poterlo migliorare: a questo scopo ho adottato una definizione abbastanza ristretta di globalizzazione, identificandola con i liberi movimenti di capitale e con il crescente dominio dei mercati finanziari globali e delle imprese multinazionali sulle economie nazionali. Questo approccio ha il vantaggio di restringere l'ambito di discussione. Sono convinto che la globalizzazione è stata asimmetrica: lo sviluppo delle nostre istituzioni internazionali non ha tenuto il passo con lo sviluppo dei mercati finanziari, e le nostre risoluzioni politiche sono rimaste indietro rispetto alla globalizzazione dell'economia. A partire da queste premesse ho formulato una serie di proposte concrete, che renderebbero il capitalismo globale piu stabile ed equo.

Sono stato stimolato all'impresa da quella che ho visto come un'involontaria alleanza tra i fondamentalisti del mercato di estrema destra e gli attivisti antiglobalizzazione di estrema sinistra. Sono ben strani compagni di letto, eppure sono piu che decisi a ribaltare o distruggere le istituzioni internazionali esistenti. Il mio obiettivo, nello scrivere questo libro, e di aggregare una nuova coalizione con la missione di riformare e rafforzare le istituzioni internazionali, e di crearne di nuove dedicate ai temi che alimentano l'attuale malcontento. Certo, le istituzioni finanziarie e commerciali esistenti (IFTI) hanno dei difetti: tutte le istituzioni ne hanno. Questo è un motivo per migliorarle, non per distruggerle.

Ritengo di avere delle qualifiche fuori dal comune per questo progetto. Ho lavorato con successo nel mercato finanziario globale, e questo mi ha consentito una visione dall'interno del suo funzionamento. Inoltre, sono attivamente impegnato nel tentativo di rendere il mondo un posto migliore, e a questo scopo ho istituito una rete di fondazioni dedite al concetto di società aperta. Ritengo che il sistema capitalistico globale nella sua forma attuale sia una deformazione di ciò che dovrebbe essere una società globale aperta. Io sono solo uno dei tanti esperti dei mercati finanziari, ma la mia preoccupazione per il futuro dell'umanità mi differenzia da molti miei colleghi. Ho passato la maggior parte degli ultimi cinque anni a studiare i difetti della globalizzazione, e su questo ho scritto libri e articoli. Il mio ultimo libro, La società aperta, era tuttavia piuttosto carente dal punto di vista delle proposte di soluzioni concrete. Il presente lavoro intende in parte ovviare a quella mancanza.

Mi sento dire spesso che esiste una contraddizione tra il trarre profitto dal mercato finanziario globale e il cercare di riformarlo. Io non la vedo. Il mio interesse primario e migliorare il sistema che mi ha portato al successo, in modo che duri più a lungo; questo interesse precede il mio impegno nei mercati finanziari. In quanto ebreo nato in Ungheria nel 1930, ho vissuto sia l'occupazione nazista che quella sovietica. Ho imparato molto presto quanto sia importante, per la sopravvivenza e il benessere, il tipo di sistema politico che si afferma. Da studente alla London School of Economics sono stato molto influenzato dalla filosofia di Karl Popper, autore di Open Society and Its Enemies. Appena raggiunto il successo come gestore di hedge fund, istituii una fondazione, la Open Society Fund (ora Open Society Institute), per "aprire le società chiuse, contribuire a rendere più vitali le società aperte e incoraggiare una mentalità critica ". Questo accadeva nel 1979. All'inizio, la fondazione si concentrò sull'apertura delle società chiuse; poi, dopo il collasso dell'impero sovietico, si impegnò per favorite la transizione dalle società chiuse a quelle aperte; più di recente, essa si è concentrata sui mali del capitalismo globale Questo libro è la naturale conseguenza di quell'impegno.

Nel tentativo di costruire una coalizione per la riforma e il rafforzamento delle nostre IFTI ho incontrato una difficoltà: è sempre più facile mobilitare il pubblico contro qualcosa che a favore di qualcosa. Un programma costruttivo deve essere sufficientemente generico da incontrare le aspettative della gente e tuttavia abbastanza specifico da consentire la creazione di una coalizione attorno a esso. Un tale programma non può essere sviluppato da un solo individuo. Pertanto, ho fatto circolare il mio libro in bozza in un vasto gruppo di persone e ho chiesto la loro opinione. Ho ricevuto molti commenti e obiezioni valide, e nel prodotto finito ho incluso i consigli che ho ritenuto fondati. Credo che il libro, nella sua versione definitiva, proponga un programma costruttivo the potrebbe essere sostenuto dall'opinione pubblica e messo in pratica dai governi mondiali. Fulcro del libro e la proposta di usare i Diritti speciali di prelievo (DSP) per la fornitura di beni pubblici su scala globale. II piano non curerà tutti i mali della globalizzazione - nulla potrà farlo - ma contribuirebbe a rendere il mondo un posto migliore.

Ero gia molto avanti nell'opera di revisione del testo finale quando i terroristi sferrarono il loro attacco, L'll settembre 2001. Quell'evento creò una situazione totalmente nuova. Sentii che il libro, così com'era, non andava abbastanza lontano. Si limitava a una serie di proposte che consideravo praticabili prima dell'11 settembre, ma non esponeva la visione di una società globale aperta che aveva motivato l'intero lavoro. II momento attuale, invece, è propizio a che quel concetto riceva vasta udienza. La guerra al terrorismo non basta; c'è anche bisogno della visione positiva di un mondo migliore.
L'11 settembre ha sconvolto il popolo degli Stati Uniti, che si e reso conto del fatto che gli altri forse considerano gli USA in modo assai diverso da come gli USA stessi si percepiscono. Gli americani sono preparati a rivedere la loro valutazione del mondo e del ruolo degli USA in esso, oggi più che in tempi normali. Questo fornisce un'opportunità unica per ripensare e rimodellare il mondo in misura più profonda di quanto sia mai stato possibile prima dell'll settembre.

Perciò ho deciso di aggiungere al libro una conclusione che definisca la mia visione di una società aperta globale. Essa è molto diversa nello stile dal resto del libro. Si tratta più di un pezzo polemico che di un rapporto ponderato sulle deficienze del capitalismo; e una visione astratta, più che un insieme di proposte concrete. Ho intenzione di elaborarla a tempo debito. Soprattutto, la conclusione necessita ancora di quel processo di revisione critica a cui il resto del libro e già stato sottoposto; e ne ha bisogno ancora di più in quanto tratta di argomenti che conosco molto meno del sistema finanziario globale.
Ero piuttosto indeciso sull'opportunità di aggiungere la conclusione, poiché il mio obiettivo era di creare un vasto consenso, e la conclusione poteva metterlo in forse. La proposta dei Diritti speciali di prelievo, in particolare, richiederà il sostegno degli Stati Uniti per essere messa in pratica; tuttavia, le mie considerazioni sono altamente critiche nei confronti dell'approccio unilaterale ed egemonico del governo Bush ai problemi intemazionali. Alla fine ho deciso di fidarmi di quel pubblico che vorrei mobilitare. Non è necessario che la gente condivida tutte le mie opinioni per sostenere la proposta dei Diritti speciali di prelievo, e se l'opinione pubblica la sostiene, un governo democratico deve rispettare la volontà del popolo, anche se non gradisce le mie critiche.

Introduzione  Le carenze del capitalismo globale

Globalizzazione è un termine abusato, al quale si possono attribuire vari significati. Per gli scopi di questa trattazione, la intenderò come lo sviluppo dei mercati finanziari globali, la crescita delle imprese transnazionali e il loro crescente dominio sulle economie nazionali. Ritengo che la maggior parte dei problemi che la gente associa alla globalizzazione, compresa la penetrazione dei valori del mercato in aree tradizionalmente estranee a esso, può essere attribuita a questi fenomeni. Si potrebbe anche discutere della globalizzazione dell'informazione e della cultura; la diffusione della televisione, Internet e le altre forme di comunicazione, la grande mobilità delle idee e la loro commercializzazione, ma temo che questo ci porterebbe troppo lontano. Restringendo la discussione, spero di riuscire a mantenerla entro limiti gestibili e di arrivare a formulare alcune proposte concrete di miglioramenti istituzionali.

La globalizzazione, nel senso in cui l'abbiamo definita, è un fenomeno relativamente recente che differenzia la situazione attuale da quella di cinquanta o anche venticinque anni fa.
Alla fine della seconda guerra mondiale la maggior parte delle nazioni controllava rigorosamente le transazioni finanziarie internazionali. Le istituzioni di Bretton Woods, Fondo monetario internazionale (FMI) e Banca Mondiale, furono concepite per facilitare il commercio e gli investimenti internazionali in un ambiente caratterizzato da ristretti flussi di capitale privato. Gradualmente, i controlli sui movimenti di capitale furono eliminati, e i mercati finanziari offshore si espansero rapidamente sotto la spinta della crisi petrolifera del 1973. I movimenti internazionali di capitale accelerarono nei primi anni '80, sotto i governi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, e i mercati finanziari divennero davvero globali nei primi anni '90, dopo il collasso dell'impero sovietico.

Questo non è il primo periodo storico in cui i mercati finanziari internazionali rivestono un ruolo dominante; condizioni simili vigevano anche nel periodo precedente la prima guerra mondiale. I movimenti internazionali di capitale furono interrotti dalla Grande Guerra e poi dalla grande depressione degli anni '30. Chiaramente, il processo non è irreversibile.

La caratteristica saliente della globalizzazione è che permette il libero movimento del capitale finanziario; al contrario, la circolazione delle persone resta pesantemente disciplinata. Dal momento che il capitale è un ingrediente fondamentale della produzione, le singole nazioni devono competere per attirarlo, e questo inibisce la loro capacità di tassarlo e regolamentarlo. Sotto l'influsso della globalizzazione, il carattere delle nostre politiche economiche e sociali ha subito una radicale trasformazione. La possibilità del capitale di andare ovunque mina la capacità dei governi di esercitare un controllo sull'economia. La globalizzazione dei mercati finanziari ha reso obsoleto lo stato sociale nato dopo la seconda guerra mondiale, poiché le persone che necessitano di una rete di sicurezza sociale non possono lasciare il paese, mentre il capitale che lo stato sociale tassava può?

Questo risultato non è casuale. L'obiettivo dell'amministrazione Reagan negli Stati Uniti e del governo Thatcher nel Regno Unito era proprio quello di ridurre la capacità dello stato di interferire nell'economia, e la globalizzazione ha assecondato questo scopo.

La trasformazione in corso dagli anni '80 non è stata ancora ben compresa. Non è neppure riconosciuta da tutti. Il capitale ha sempre desiderato ardentemente di evitare tasse e regolamentazioni, quindi è facile interpretare l'attuale tendenza alla loro riduzione come manifestazione di leggi economiche universalmente valide. Infatti questa è la visione dominante in tutto il mondo anglosassone. Io la definisco fondamentalismo del mercato. Quest'ultimo sostiene che la migliore allocazione delle risorse è quella realizzata dai meccanismi di mercato lasciati a se stessi, e che qualsiasi interferenza riduce l'efficienza dell'economia. Secondo questi criteri, la globalizzazione è stata un totale successo.

In effetti la globalizzazione è uno sviluppo per molti versi auspicabile. L'impresa privata riesce a creare ricchezza molto meglio di quanto non faccia lo stato. Inoltre, gli stati tendono ad abusare del proprio potere; la globalizzazione offre un certo
grado di libertà individuale che nessun singolo stato può assicurare. La libera concorrenza su scala globale ha scatenato l'inventiva e il talento imprenditoriale, e ha accelerato le innovazioni tecnologiche.

Ma la globalizzazione ha anche un lato negativo. In primo luogo, molte persone (in particolare nei paesi meno sviluppati) sono state danneggiate dalla globalizzazione senza avere una rete di sicurezza sociale che le proteggesse; molte altre sono state emarginate dai mercati globali. In secondo luogo, la globalizzazione ha provocato una ripartizione iniqua delle risorse tra beni privati e beni pubblici. I mercati vanno bene per creare ricchezza, ma non sono concepiti per provvedere ad altri bisogni sociali. Il perseguimento del profitto, indifferente a ogni altra considerazione, può nuocere all'ambiente ed entrare in conflitto con altri valori sociali. Terzo, i mercati finanziari globali hanno una naturale tendenza alla crisi. Chi vive nei paesi sviluppati può non rendersi completamente
conto della devastazione prodotta dalle crisi finanziarie poiché, per motivi che saranno spiegati in seguito, esse tendono a colpire assai più duramente le economie in via di sviluppo. Tutti e tre questi fattori si sommano, e ne risulta un "terreno di gioco" estremamente ineguale.

I fondamentalisti del mercato riconoscono i benefici del mercato finanziario globale ma ignorano i suoi difetti. Sostengono che i mercati finanziari tendono all'equilibrio e realizzano l'allocazione ottimale delle risorse. Anche se il mercato non è perfetto, ritengono che sia meglio lasciare ad esso l'allocazione delle risorse, piuttosto che interferire attraverso regolamenti nazionali e internazionali.
È pericoloso, tuttavia, riporre eccessiva fiducia nel meccanismo del mercato. I mercati sono concepiti per facilitare il libero scambio delle merci e dei servizi tra chi lo desidera, ma non sono in grado, da soli, di provvedere a necessità collettive quali la legalità, la sicurezza o il mantenimento del meccanismo stesso del mercato. Né tantomeno sono in grado di assicurare la giustizia sociale. Questi sono "beni pubblici" che possono scaturire solo da un procedimento politico (political process).

In generale, i procedimenti politici sono meno efficienti del meccanismo di mercato, ma non possiamo farne a meno. Il mercato è amorale: permette di agire secondo il proprio interesse e impone qualche regola sul modo in cui tale interesse viene espresso, ma non esprime un giudizio morale sull'interesse medesimo. E questa è una delle ragioni per cui è tanto efficiente. È difficile stabilire cosa sia giusto e cosa no; trascurando questo aspetto, il mercato permette di perseguire il proprio interesse senza freni o inibizioni.

Ma la società non può funzionare senza qualche distinzione tra giusto e sbagliato. Prendere decisioni collettive su cosa vada permesso e cosa vietato è compito della politica - ma questa risente delle difficoltà nel giungere a decisioni collettive in un mondo che manca di un forte codice morale. Anche la creazione e il mantenimento di un meccanismo di mercato richiede un'azione politica. Questo punto è ben chiaro ai fondamentalisti del mercato. Ciò che capiscono meno è che la globalizzazione dei mercati senza un parallelo rafforzamento delle strutture politiche e sociali internazionali ha portato a uno sviluppo sociale molto asimmetrico.

Malgrado le sue pecche, io sono un convinto fautore della globalizzazione. La sostengo non solo per via della ricchezza supplementare che produce, ma ancora di più per la libertà che può offrire. Quella che io chiamo società aperta globale saprebbe garantire un grado di libertà molto maggiore di qualsiasi singolo stato. A mio giudizio la situazione attuale, in cui il capitale è libero di muoversi ma i temi sociali vengono tenuti in poco conto, non è altro che una forma distorta di società aperta globale. Scopo di questo libro è individuare le distorsioni e proporre alcune azioni specifiche per correggerle.
Sono necessarie riforme istituzionali:
1. per contenere l'instabilità dei mercati finanziari;
2. per correggere quel preconcetto (bias) insito nelle attuali istituzioni finanziarie e commerciali internazionali (IFTI), che favorisce i paesi sviluppati che le controllano;
3. per fare da complemento all'Organizzazione mondiale del commercio (OMC), che facilita la produzione di ricchezza, con la creazione di istituzioni internazionali di pari potere votate ad altri obiettivi sociali, quali la riduzione della povertà e la fornitura di beni pubblici su scala globale; e infine
4. per migliorare la qualità della vita pubblica nei paesi afflitti da governi corrotti, repressivi o incompetenti.

Occorre anche occuparsi della penetrazione dei valori del mercato in quelle aree che non spetta al mercato governare; ma questo non è possibile con le sole riforme istituzionali, occorre dare un nuovo orientamento ai nostri valori. Per esempio, professioni quali la medicina, la giurisprudenza e il giornalismo sono diventate business. Prendo atto del problema, ma in questo libro mi concentrerò sulle riforme istituzionali.

Non vi è largo accordo sulla necessità delle riforme che peroro. I fondamentalisti del mercato probabilmente si opporranno ai primi tre punti, e gli attivisti antiglobalizzazione sono stranamente ciechi sul quarto. I cattivi governi sono una delle principali cause di povertà e miseria nel mondo (la cattiva posizione geografica è l'altra grande causa, ma per quello è parecchio più difficile fare qualcosa). Eppure gli attivisti antiglobalizzazione non hanno dato un peso adeguato ai danni prodotti dai cattivi governi.
La globalizzazione non è un gioco a somma zero. I benefici superano i costi, nel senso che l'aumentata ricchezza prodotta dalla globalizzazione potrebbe essere utilizzata per rimediare alle sue iniquità e agli altri suoi difetti, e ne resterebbe ancora d'avanzo. L'affermazione è difficile da dimostrare, perché costi e benefici non possono essere ridotti a un comune denominatore: il PIL non è una misura adeguata del benessere umano. Ciò nondimeno, tutte le prove indicano che i vincitori potrebbero indennizzare gli sconfitti e uscirne comunque con un guadagno. Il problema è che i vincitori non indennizzano affatto gli sconfitti. Non c'è un equivalente del processo politico che avviene all'interno degli stati. Mentre i mercati sono diventati globali, la politica resta saldamente radicata nella sovranità dello stato.

Alla correzione dei guasti della globalizzazione viene devoluta una quantità troppo esigua di risorse. II risultato è che la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi. L'uno per cento più ricco della popolazione riceve quanto il 57 per cento più povero. Più di un miliardo di persone vive con meno di un dollaro al giorno; quasi un miliardo non ha accesso all'acqua potabile; 826 milioni sono malnutriti; 10 milioni muoiono ogni anno per mancanza di cure sanitarie di base. Questa situazione non è stata necessariamente frutto della globalizzazione, ma di certo la globalizzazione ha fatto ben poco per porvi rimedio.

Le iniquità della globalizzazione hanno suscitato risentimento e proteste molto estese. Gli attivisti antiglobalizzazione cercano di sovvertire o di distruggere le istituzioni che appoggiano il commercio internazionale e i mercati finanziari globali. Tali istituzioni, tuttavia, sono minacciate anche dal versante opposto. I fondamentalisti del mercato si oppongono a qualsiasi genere di interferenza con il meccanismo di mercato; a dire il
vero, la loro ostilità nei confronti degli organismi internazionali è perfino più grande della loro avversione per i regolamenti statali. La coalizione inconsapevole tra estrema sinistra ed estrema destra è riuscita a indebolire le poche istituzioni internazionali di cui disponiamo. Il movimento antiglobalizzazione attacca le IFTI e in particolare l'OMC, mentre il Congresso degli Stati Uniti ostacola in primo luogo le Nazioni Unite e solo secondariamente le IFTI.

È un peccato. Quello che ci serve sono istituzioni internazionali più forti, non più deboli. Dobbiamo formare una coalizione diversa, il cui obiettivo sia la riforma e il rafforzamento delle convenzioni internazionali, non la loro distruzione. Lo scopo di questo libro è proporre un'agenda attorno alla quale si possa aggregare una coalizione del genere.

Le istituzioni che sorreggono il commercio internazionale e i mercati finanziari globali sono relativamente forti. Occorre riformarle in qualche misura, poiché ora vengono amministrate nell'interesse dei paesi ricchi che le controllano, e spesso a detrimento dei paesi poveri che sono al margine del sistema. Ma sono più efficienti e meglio finanziate delle istituzioni dedite ad altre finalità, quali la salvaguardia della pace, lo sviluppo sociale e politico, il miglioramento della salute pubblica e delle condizioni di lavoro, e la difesa dei diritti umani.

L'ONU, che è la più importante istituzione internazionale al di fuori delle IFTI, proclama le sue nobili intenzioni ma non possiede né i mezzi né il potere per tradurle in pratica. I suoi obiettivi sono esposti nel Preambolo dell'Atto Costitutivo, espresso nei termini di "Noi, il Popolo". Ma l'Atto stesso è basato sulla sovranità degli stati membri, e gli interessi di uno stato sovrano non coincidono necessariamente con quelli delle persone che ci vivono. Molti stati non sono democratici, e molti abitanti non sono nemmeno cittadini. Risultato: le Nazioni Unite non hanno la possibilità di compiere la missione enunciata nel Preambolo. L'ONU è un'istituzione preziosa, e può essere resa ancora più utile; se la giudichiamo da quel Preambolo, tuttavia, è destinata a deludere. Quando ci affidiamo all'ONU non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di un'associazione di stati. Come osservava Richelieu nel XVII secolo e come Henry Kissinger ha rimarcato di recente, gli stati
hanno interessi ma non principi. Di conseguenza, gli stati membri tendono a mettere i loro interessi nazionali davanti all'interesse comune, intralciando gravemente il funzionamento dell'ONU.

L'organo più potente dell'ONU è il Consiglio di Sicurezza, poiché esso può avere il sopravvento sulla sovranità degli stati membri. Solo i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza hanno diritto di veto; quando sono d'accordo, possono imporre la loro volontà al resto del mondo, anche se questo non si verifica molto spesso. In effetti, l'ONU riunisce due istituzioni in una: il Consiglio di Sicurezza, che ha la precedenza sulla sovranità degli stati, e il resto, che vi è subordinato. Il bisogno del consenso unanime rende il resto inefficace e inefficiente: l'Assemblea Generale è un salotto, e le diverse agenzie sono impastoiate dalla necessità di assecondare le richieste degli stati membri. Esse servono anche da bacino di raccolta per diplomatici in esubero e politici in ritiro.

Dopo il collasso del comunismo c'è stato un fugace momento in cui il Consiglio di Sicurezza avrebbe potuto operare nel modo originariamente previsto, ma le potenze occidentali non
hanno colto l'occasione. Durante la crisi bosniaca non sono riuscite a mettersi d'accordo, e durante quella del Ruanda non sono riuscite ad agire di concerto. Negli ultimi anni gli Stati Uniti non hanno pagato le proprie quote e hanno scavalcato o sminuito l'ONU in vari modi. Anche dopo l'11 settembre, gli USA hanno cercato di agire il più possibile al di fuori delle Nazioni Unite.

La disparità tra le IFTI e le istituzioni politiche internazionali ha reso lo sviluppo della società globale estremamente disomogeneo. Il commercio internazionale e il mercato finanziario globale riescono a generare ricchezza, ma non possono curarsi degli altri bisogni sociali, come la salvaguardia della pace, l'attenuazione della povertà, la tutela dell'ambiente, delle condizioni di lavoro e dei diritti umani - quelli che in genere si
chiamano "beni pubblici". Lo sviluppo economico, vale a dire la produzione di beni privati, ha acquisito la precedenza sullo sviluppo sociale, vale a dire sulla fornitura dei beni pubblici. Questa distorsione può essere corretta solo migliorando i dispositivi per la fornitura dei beni comuni. In questo contesto è importante ricordare che il commercio internazionale, il buon funzionamento dei mercati e in generale la creazione di ricchezza sono anch'essi beni comuni. Purtroppo il movimento no-global è fuori strada quando cerca di distruggere le istituzioni che garantiscono questi beni comuni. "Affondare" o limitare l'OMC sarebbe controproducente: vorrebbe dire uccidere la gallina dalle uova d'oro. Invece di manifestare contro l'OMC, i no-global dovrebbero lottare a favore di istituzioni altrettanto efficienti che provvedano a quegli obiettivi sociali che essi hanno a cuore.

L'OMC ha deciso di avviare un nuovo ciclo di negoziati, il Development Round. Questo dovrebbe essere affiancato da un analogo negoziato rivolto alla fornitura di altri beni comuni. Le necessità sono note. Il Millennium Summit delle Nazioni Unite, tenutosi nel settembre 2000, ha formulato una serie di propositi ambiziosi ma realizzabili per la riduzione della povertà, il controllo delle malattie, il rafforzamento sanitario e la scolarizzazione primaria entro l'anno 2015. L'ONU terrà una conferenza internazionale sulla Finanza per lo Sviluppo a Monterrey, in Messico, nel marzo 2002. L'appuntamento dovrebbe concentrarsi proprio sulla diffusione dei beni pubblici su scala globale. Senza di essa, lo sviluppo è destinato a restare asimmetrico.

Il compito dell'OMC è facilitare gli scambi internazionali di beni e servizi. Ha svolto questo compito stabilendo regole vincolanti e un meccanismo efficiente per farle rispettare. Ci sono due ottime ragioni per cui non è possibile applicare lo stesso approccio ai beni pubblici. Una è che molti paesi semplicemente non hanno le risorse sufficienti a raggiungere gli standard internazionali. L'altra è che sarebbe difficile applicare un
meccanismo esecutivo simile a quello che funziona così bene nel commercio, che consiste nel concedere o ritirare l'accesso al mercato. Semmai, devono esserci incentivi finanziari per incoraggiare l'adesione volontaria alle regole internazionali e alle prassi ottimali (best practices). Il blocco degli incentivi potrebbe anche diventare una forma di sanzione, e sarebbe molto utile in un mondo dove la sovranità degli stati ostacola il processo di imposizione delle regole ai singoli paesi.

Una delle affermazioni principali di questo libro è che il sistema basato su norme, usato dall'OMC per lo scambio di beni privati, dovrebbe essere integrato da un sistema basato su incentivi per la distribuzione di beni pubblici.

La globalizzazione non può essere ritenuta responsabile di ogni male. Le principali cause dell'afflizione e dell'indigenza sono di gran lunga i conflitti armati, i regimi corrotti e oppressivi, e gli stati deboli; e non si può certo incolpare la globalizzazione, se esistono cattivi governi. Semmai la globalizzazione ha costretto i singoli paesi a migliorare la propria efficienza o almeno a ridurre il ruolo del governo nell'economia.

Tuttavia la globalizzazione ha reso il mondo più interdipendente e ha accresciuto l'entità dei danni che i problemi interni alle singole nazioni possono causare. Perciò non è sufficiente elaborare piani migliori per la diffusione dei beni pubblici su scala globale; dobbiamo anche trovare il modo di migliorare le condizioni politiche e sociali all'interno dei singoli paesi. Questo è il secondo punto su cui questo libro si concentrerà.

Gli attacchi terroristici dell'11 settembre ci hanno fatto toccare con mano, in modo tragico, quanto il mondo sia diventato interdipendente e quanto sia importante per la nostra sicurezza la situazione interna ad altri paesi. Bin Laden non avrebbe potuto scagliare il suo attacco contro gli Stati Uniti senza godere di un asilo sicuro in Afghanistan. Ma questo era vero anche prima dell'11 settembre. A partire dalla fine della guerra fredda, la maggior parte delle crisi sfociate in spargimenti di sangue sono state provocate da conflitti interni piuttosto che da conflitti tra stati. Durante la guerra fredda i conflitti interni sono stati sfruttati ma anche contenuti dalle due superpotenze. Quando sono venute a mancare le restrizioni imposte da USA e URSS, è stato necessario che i conflitti degenerassero in bagni di sangue perché si arrivasse a un intervento esterno.

Questo è accaduto perché gli interventi si sono perlopiù limitati ad azioni punitive. Gli incentivi positivi sono stati scarsi. Dopo la fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti inaugurarono il Piano Marshall, con benefici duraturi per l'Europa. Non ci sono state iniziative simili dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Gli aiuti all'estero ammontano appena allo 0,1 per cento del PIL degli Stati Uniti, a fronte del 3 per cento all'inizio del Piano Marshall. L'andamento nel tempo degli aiuti all'estero espressi in percentuale rispetto al PIL non è certo incoraggiante.

Un'azione preventiva basata su incentivi positivi è di gran lunga preferibile a un intervento dopo che la crisi è già in atto. E' meno costosa in termini monetari e di sofferenze umane. L'esperienza insegna che la prevenzione di una crisi non comincia mai troppo presto. Un intervento precoce magari non finirà sulle prime pagine: "non si riferisce mai una crisi evitata". Ma quando la tensione ha già portato a uno spargimento di sangue, diventa sempre più difficile prevenire altri scontri. Anche un paese come gli Stati Uniti, in cui vige il primato della legge (rule of law), è soggetto a pressioni favorevoli alla vendetta. Agli esordi, tuttavia, è difficile prevedere quali vertenze sfoceranno in conflitti letali. Questo è un forte argomento per promuovere ciò che io chiamo società aperta, in cui le rimostranze si possono esprimere pubblicamente, ed esistono istituzioni preposte a risolvere i problemi da cui sorgono. Anche in questo modello di società possono emergere conflitti, ma è meno probabile che degenerino in spargimenti di sangue. Il miglioramento della qualità dei governi e la creazione di società aperte in tutto il mondo è di interesse vitale per la sicurezza degli Stati Uniti e delle altre democrazie. Ciò
non potrà sostituire la potenza militare, ma diminuirà le probabilità che vi si debba ricorrere.

La democrazia e la società aperta non possono essere imposte dal di fuori, poiché i principi della sovranità si oppongono alle interferenze esterne. L'unico modo di promuoverle è rafforzare la società civile e offrire incentivi ai governi perché attuino riforme economiche e politiche.

I due assunti su cui si basa questo libro hanno un denominatore comune: tanto la diffusione dei beni pubblici quanto il miglioramento delle condizioni interne richiedono un trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli poveri. Questo contraddice i principi dei fondamentalisti del mercato, i quali affermano che solo il mercato, lasciato a se stesso, garantirà l'allocazione ottimale delle risorse.

I trasferimenti di risorse offerti dalle IFTI esistenti sono inadeguati. La maggior parte del denaro del Fondo monetario internazionale viene usato per rimediare a una crisi dopo che
già esplosa. L'occupazione principale della Banca Mondiale è il prestito; la sua capacità di concedere sovvenzioni si limita perlopiù ai profitti generati dall'attività di prestito. L'OMC non si cura affatto del trasferimento delle risorse. Le IFTI potrebbero assumere un ruolo molto più attivo di quello attuale (ne discuterò nei capitoli 1, 3 e 4) ma c'è bisogno di una nuova forma di trasferimento internazionale di risorse che operi su linee diverse da quelle delle IFTI esistenti. È la componente che manca all'attuale quadro istituzionale. È anche il fulcro di questo libro, e verrà ampiamente sviluppato nel capitolo 2.

Sarà molto difficile indurre i paesi ricchi a impegnarsi in questo trasferimento di risorse su base istituzionale. Sono più di trent'anni che la Commissione Pearson, con l'avallo delle Nazioni Unite, ha fissato per i paesi donatori l'obiettivo dello 0,7 per cento del PIL in assistenza ufficiale allo sviluppo (ODA)." Solo cinque paesi raggiungono o superano quella
quota; nel 2000, il contributo degli Stati Uniti è stato solo dello 0,1 per cento, e la somma totale degli aiuti allo sviluppo ha raggiunto appena lo 0,24 per cento del PIL dei paesi sviluppati. Principali colpevoli di questa insufficienza sono gli Stati Uniti.

Non è un caso che i trasferimenti internazionali di risorse restino tanto al di sotto dell'obiettivo dello 0,7 per cento, o che gli USA siano sul gradino più basso tra i paesi sviluppati. C'è una radicata convinzione, in particolare in questo paese, che gli aiuti allo sviluppo siano inefficaci e talvolta perfino contro producenti. La cosa peggiore è che questa convinzione non è priva di fondamento.

Mi sento qualificato a trattare l'argomento, perché mi sono impegnato personalmente a erogare aiuti di proporzioni significative (circa 245 milioni di dollari all'anno negli ultimi cinque anni) per la promozione di società aperte. Sono profondamente consapevole dell'inadeguatezza degli aiuti all'estero così come sono amministrati oggi. Sulla base della mia esperienza sono convinto che, con una diversa gestione, la loro efficacia e il loro impatto potrebbero essere enormemente migliorati. Non sono l'unico a esserne consapevole: negli ultimi anni sono stati compiuti seri sforzi da parte delle agenzie per la cooperazione - compresa la Banca Mondiale, l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), donatori bilaterali ed esperti esterni - per valutare e accrescere l'efficacia degli aiuti, e sta gradualmente emergendo un nuovo paradigma, imperniato sull'idea di infondere nei destinatari un maggior senso della proprietà e della partecipazione ai programmi che dovrebbero beneficiarli, rafforzandone al contempo l'efficacia pratica.

A mio giudizio, il modo in cui vengono tradizionalmente assegnati gli aiuti all'estero presenta cinque difetti principali:
- Primo: gli aiuti servono gli interessi dei donatori, piuttosto che quelli dei destinatari. L'erogazione degli aiuti è spesso determinata da interessi di sicurezza nazionale basati su considerazioni geopolitiche, senza riguardo per il livello di povertà o per la natura del governo destinatario. Gli aiuti all'Africa durante la guerra fredda ne sono un esempio lampante. Dopo la caduta del muro di Berlino, la Germania occidentale, ansiosa di garantire la riunificazione, elargì o prestò grandi somme all'Unione Sovietica, badando ben poco a come venivano spese. Più tardi l'Ucraina è divenuta una sussidiata geopolitica dell'occidente. Dal momento che la principale causa di povertà è un cattivo governo, sarebbe molto meglio se i donatori prestassero più attenzione alla situazione politica interna ai paesi che finanziano.

- Il secondo punto, collegato al primo, è che solo di rado la proprietà dei programmi di sviluppo è attribuita ai destinatari; i progetti sono perlopiù elaborati e attuati da esterni. Quando gli esperti se ne vanno, non resta quasi nulla. I progetti importati non mettono radici, al contrario di quelli nati sul posto. I paesi preferiscono convogliare gli aiuti attraverso i propri rappresentanti, che spesso agiscono come una vera e propria "clientela" locale a favore degli aiuti. Perfino le istituzioni internazionali preferiscono inviare esperti stranieri che formare competenze interne. Gli esperti, naturalmente, sono responsabili verso chi li paga. Nessuno, a eccezione delle mie fondazioni e, più di recente, dell'UNDP (United Nations Development Programme, agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo), è disposto a pagare esperti che rendano conto delle proprie azioni ai destinatari degli aiuti. Il risultato è che i destinatari non sono in grado di fruire degli aiuti.

- Terzo: il trasferimento degli aiuti avviene solitamente tra governi. I governi destinatari funzionano spesso come una dogana che smista i fondi per i propri scopi. In alcuni casi gli aiuti sono la principale fonte di sostegno per governi altrimenti impopolari.

- Quarto: i donatori insistono nel voler conservare il controllo nazionale sugli aiuti che concedono, causando così una mancanza di coordinamento. Quando i donatori sono in concorrenza per inviare aiuti, è più facile per il governo destinatario deviare le risorse per i suoi scopi. Questo è stato il caso della Bosnia, in cui gli aiuti internazionali sono andati in gran parte sprecati per sovvenzionare i vari feudi locali.

- Ultimo punto: non si ammette che la cooperazione internazionale è un'impresa ad alto rischio. È molto più difficile fare del bene che gestire un'impresa a scopo di lucro. Questo perché non esiste una sola misura del bene sociale, mentre i profitti sono un parametro molto chiaro. Gli aiuti, però, sono amministrati da burocrati che hanno molto da
perdere e poco da guadagnare nel correre qualche rischio. Non stupisce che i risultati siano così fiacchi, specie se li si giudica con gli stessi standard applicati alle altre attività
burocratiche, non tenendo conto delle difficoltà loro peculiari. È tanto più apprezzabile, quindi, il fatto che gli aiuti abbiano effettivamente prodotto alcuni effetti positivi nei paesi in transizione, per esempio facilitando il funzionamento delle banche centrali, dei mercati finanziari o del sistema giudiziario. Tutto ciò dimostra che malgrado tutti i
suoi difetti, gli aiuti allo sviluppo possono avere grande valore.

La mia rete di fondazioni opera con criteri diversi. La sua missione è promuovere lo sviluppo di società aperte. Qualunque altro merito o colpa possa avere, essa è schiettamente finalizzata a servire gli interessi dei destinatari. Viene gestita quanto più possibile da cittadini delle nazioni in cui opera. Un consiglio locale decide le priorità; i suoi membri collaborano con il governo quando è possibile, e indipendentemente da esso quando non è possibile; a volte si trovano su posizioni opposte. Quando le fondazioni riescono a cooperare con le autorità, l'efficacia dell'azione aumenta; quando non possono,
il loro lavoro è tanto più necessario e apprezzato, poiché rappresentano una fonte alternativa di finanziamento per la società civile. In generale, quanto peggiore è il governo, tanto migliore è la fondazione, perché gode del favore e del sostegno della società civile.

La società aperta viene spesso confusa con la società civile. La società civile è solo una delle componenti di una società aperta; un governo democratico, sensibile alle necessità e ai desideri dell'elettorato, e un settore privato dotato di ampia autonomia sono ugualmente importanti. Laddove una fondazione può collaborare con il governo, cerca di migliorarne la funzionalità e di renderlo più ricettivo nei confronti della società. I governi che accolgono questo tipo di assistenza tendono a essere sopraffatti dai donatori. Ma i donatori hanno la propria agenda, e il governo non possiede le capacità per prescindere da essi. Il miglior tipo di assistenza che le fondazioni hanno dato a questi governi è consistita nel potenziare quelle capacità, mettendoli in condizioni di assumere esperti di loro scelta (e preferibilmente connazionali).

Oltre alle fondazioni nazionali, la mia rete si compone anche di programmi (a livello dell'intera rete, ossia transnazionale) su tematiche specifiche quali l'istruzione, i media, la sanità, l'informazione, la cultura, il sistema giudiziario, lo sviluppo della piccola e media impresa e così via. Questi programmi operano tramite le fondazioni nazionali, che possono però decidere se partecipare o meno; se lo fanno, si assumono la responsabilità dell'attuazione del programma nel loro paese. L'interazione tra fondazioni nazionali e programmi crea una matrice che coniuga bisogni locali e competenze professionali. La matrice non è chiusa. Le fondazioni nazionali possono operare a loro discrezione al di fuori dei confini dei programmi della rete, e tendono a farlo nelle attività a sostegno della società civile e della cultura. I programmi della rete possono anche collaborare con istituzioni locali diverse dalle fondazioni, il che accade spesso nel caso delle iniziative a sostegno dei diritti umani e dell'informazione indipendente.

Sarebbe ovviamente fuori luogo applicare a un'impresa pubblica le stesse regole di una privata. Ciò nondimeno, l'approccio della mia rete di fondazioni potrebbe e dovrebbe essere preso a modello (con le necessarie modifiche) per gli aiuti internazionali di provenienza governativa. Nel capitolo 2 delineerò la mia proposta in merito; essa è basata su una emissione speciale di DSP (Diritti speciali di prelievo) stanziati dai paesi ricchi e specificamente destinati a un'assistenza internazionale conforme a determinate regole.

È improbabile che i governi adottino di propria iniziativa la proposta DSP; troppi interessi burocratici e politici giocano a sfavore. Ma i governi democratici rispondono ai loro elettorati, ed è per questo che occorre mobilitare la società civile. I tempi sono maturi. La variopinta coalizione di attivisti e gruppi religiosi nota come Jubilee 2000, ha combattuto con successo per la cancellazione del debito estero dei paesi più poveri. I governi del G7 e del G20 stanno cercando un modo per mitigare i problemi creati dalla globalizzazione. La Conferenza Internazionale dell'ONU sui Finanziamenti per lo
Sviluppo, nel marzo 2002, rappresenta un'altra sede di discussione adatta. Gli attacchi terroristici dell' 11 settembre hanno reso l'opinione pubblica degli Stati Uniti più consapevole della presenza del resto del mondo, più ricettiva verso idee nuove e più compassionevole. Se la gente lo richiede, il governo dovrà agire.

Sfortunatamente è più difficile mobilitare la gente in favore di qualcosa che contro qualcosa. Ma la proposta DSP, abbozzata nel secondo capitolo, è abbastanza concreta e ragionevole per suscitare un vasto consenso. Lo stesso non si può dire per le proposte contenute negli altri capitoli, riguardanti la riforma delle istituzioni finanziarie e commerciali esistenti. Questi sono temi più ostici, di cui devono occuparsi gli esperti; tuttavia la pressione popolare potrebbe concorrere a imporre alle autorità di darsi da fare.

Titolo originale: On Globalization Traduzione di Valentina Daniele e Laura Sgorbati Revisione tecnica di Massenzio Taborelli
© 2002 by George Soros
Published in the United States by Public Affairs, a member of the Perseus Book Group
© 2002 Ponte alle Grazie srl - Milano ISBN 88-7928-594-7


 

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