SENZA RETE ACROBAZIE
DIRIGENZIALI di ALFREDO BIANCO
Proposte creative di conduzione scolastica
PREFAZIONE
La creazione autentica è proprio
quella per la quale non possiamo fornire nessuna prescrizione tecnica o ricetta.
W.Barrett, The Illusion of Technique
Il desiderio di scrivere questo libro, dopo parecchi saggi dedicati agli aspetti
apparentemente paradossali del mestiere di dirigente, mi è stato indotto dall'abuso
incontrollato ed incontrollabile del termine "rete", che ormai domina ,in modo
acritico e banalmente conformistico ,qualsiasi discorso di carattere socio-organizzativo.
E' come se fosse andato perduto il senso di quell'attenzione ai processi microsociologici,
che hanno costituito ,ad es., la base dell'opera di E.Goffman , alla quale , tuttavia,
attingono a piene mani anche molti esibitori di "reti", in cui , però, non
appare chiara la distinzione, tanto sottolineata da tale Autore, tra
"palcoscenico" e "retroscena", tra qualità apparente e qualità
sostanziale . (1)
Nello stesso modo il "trionfo" di tale modello sistemico-cibernetico, centrato
su intersezioni geometriche, ha lasciato in ombra la necessità di un approccio olografico
- come direbbe Morin- ai problemi umani ,tra i quali inseriamo, senza alcun dubbio, anche
quelli della conduzione organizzativa. "La cultura scientifica e quella tecnicistica
- così Morin - (2) la prima sempre più compartimentata ed esoterica,la seconda sempre
più dedita a problemi di funzionamento e funzionalità - eliminano dal proprio ambito i
grandi problemi umani ,morali, filosofici che non sono in grado di porre e di affrontare,
confinandoli alla vita privata di ognuno
.Perché il ruolo dell'intellettuale
rinasca, bisogna rendere fruibile e trasmettere il sapere che ci viene dalle scienze,
sviluppando una riflessività specificamente filosofica e un'espressività specificamente
letteraria".
Partendo da tale convinzione il mio intento è stato quello di costruire un saggio che,
pur rispettando, da un lato, il rigore scientifico e, dallaltro, l'immediatezza
intuitiva dello stile letterario, tessa insieme, in forma complessa la
descrizione di problematiche scolastiche, avvalendosi di metafore ,paradossi e
contraddizioni, e lasciando da parte, nella forma di una pascaliana scommessa, quelle reti
protettive che, eliminando i rischi dell'acrobata, attenuano inevitabilmente anche
l'attesa trepidante e l'urlo di stupore del pubblico nei momenti più coinvolgenti degli
esercizi ,che, invece, senza rete acquistano in modo inequivocabile il carattere
dell'autenticità e della responsabilità di chi sa affrontare consapevolmente anche
giochi rischiosi di cui, però, è il vero protagonista.
"L'uomo è interamente tale solo quando gioca" - affermava F.Schiller nei suoi
Saggi estetici alla fine del Settecento ; e J.Huizinga gli faceva eco nel suo famoso
"Homo ludens" (1938) quando sosteneva :"Per me non si tratta di domandare
quale posto occupi il gioco fra altri fenomeni culturali, ma in qual misura la cultura
stessa abbia carattere di gioco" . (3)
Certo, in un mondo di sollecitazioni che enfatizzano, con una ripetitività ossessiva, le
nozioni di efficienza e di produttività non è facile riconquistare quella libertà
dell'agire che solo la consapevolezza estetica/etica del gioco può offrire . Un leader
autonomo sa che sul piano umano e pedagogico è l'efficacia di un processo ciò che conta
di più : la capacità ,cioè, di rispecchiare in un prodotto finale l'armonia e la
coerenza tra fini e mezzi ;mentre l'efficienza introducendo, inevitabilmente, i
condizionamenti dei costi e ,soprattutto ,dei tempi, non è compatibile con la libera
espressione di un'umanità non alienata : il gioco, allora, proprio come portatore di
incertezza e di tensione teleologica, di esplorazione del possibile e non di chiusura nel
determinismo della necessità, ha la funzione di "ingannare", di illudere il
tempo che ci consuma, e di renderlo, in qualche modo, reversibile, consentendo la
riparabilità pedagogico - organizzativa di eventuali errori.
Emerge, insomma, il sospetto che la "retificazione"(mi si scusi il neologismo)
della realtà - dall'ambito della ricerca a quello organizzativo, dalla prassi associativa
mirata alla pianificazione del tempo libero al volontariato di missione, dal
mondo mediatico e telematico a quello quotidiano della formazione di amicizie e gruppi di
interesse, ecc.- sia diventato uno spazio "transizionale" nel senso
winnicottiano (4)(una sorta di coperta di Linus !). Oppure, come è stato sostenuto dalla
socioanalisi a proposito della "istituzionalizzazione" (5), abbia assunto le
caratteristiche di una sorta di "nuovo" meccanismo di difesa, diverso dall'
affiliazione (nessuno avrebbe usato il termine "rete della Carboneria" !), più
alienante che adattivo, in quanto timoroso e carente sia rispetto ai rapporti diadici
fondanti (D.Stern giustamente sostiene che non ci si può guardare negli occhi che a due a
due (6) ),sia rispetto alla gestione della responsabilità individuale fondata
sull'introspezione e sulla consapevolezza della irripetibilità della persona-valore.
"Chi si concentra su una persona è costretto a rispondere con partecipazione , con
sollecitudine o addirittura con raccappriccio. Ma simili reazioni non giovano al buon
funzionamento di una società cibernetica; così manteniamo le distanze
..Perciò
qualunque approfondimento ci infastidisce perché pretende da noi una maggiore
concentrazione sull'"altro" (7). Del resto molto acutamente sia J.Bruner che
Bandura (8) osservavano che esistono due aspetti della persona umana che, probabilmente,
possiamo considerare universali (9): il primo è la capacità dazione
(agency). Lidentità personale deriva dal senso di poter iniziare e portare avanti
delle attività per proprio conto......la seconda caratteristica universale della
identità personale [è] la valutazione. Non solo viviamo noi stessi come agenti ma
valutiamo la nostra efficacia nel portare a termine ciò che desideravamo...Questo misto
di efficacia come agenti di autovalutazione lo chiamo autostima.Le
capacità che Bandura,inoltre, attribuisce alla human agency si estendono
anche alla simbolizzazione ,allanticipazione,alla metacognizione,che può scaturire
solo dalla capacità di autodistanziarsi,concetto questo molto caro anche a V.E.Frankl,
inventore della Logoterapia . (10)
E lautostima ,così come scaturisce dai vissuti personali, aggiungiamo noi,è uno
degli ingredienti indispensabili a qualsiasi forma di leadership.
Lo stesso Bruner non può sorvolare, però, su tre fondamentali antinomie che emergono
inevitabil- mente allinterno della cultura delleducazione (11): la
prima pone il dilemma di scegliere tra lo sviluppo originale delle potenzialità personali
o il perseguimento delle finalità proprie di una cultura o di un assetto sociale
particolare. E evidente che lo sviluppo personale,portato al massimo della sua
creatività, come la storia dimostra, potrebbe anche andare contro lintegrazione ed
essere agente di cambiamento o di capovolgimento della cultura dalla quale
,etimologicamente,ex-siste(emerge).
Il secondo dilemma riflette due visioni sulla natura della mente umana : una di tipo
intrapsichico (le potenzialità innate, geniali vanno coltivate al massimo
nellindividuo);laltra di tipo interpersonale :la mente non è
isolatama si avvale , per la sua crescita, degli artefatti culturali (compresi
i linguaggi) che prolungano, come il bastone del cieco(la metafora è di
G.Bateson) la possibilità di interagire con lambiente. E non è possibile stabilire
dove effettivamente cominci la mano del cieco, visto che il bastone è parte
indispensabile della sua corporeità : le protesi tecnologiche odierne, ovviamente, sono
molto più complesse ed hanno un potere enorme di amplificazione mentale. Lo scambio
interpersonale, inoltre, costituisce la base di un lavoro cooperativo che moltiplica
,attraverso il continuo confronto ,le prospettive di
letturadellambiente, anche se non è facile coordinarlo.
La terza contraddizione riguarda la valutazione di modi di pensare, di costruire
significato (sensemaking) e di fare esperienza del mondo: come devono essere giudicati, in
base a quali standard e da chi ? (12). Nel momento in cui un leader educativo si
rende conto di queste tre alternative (ma se ne potrebbero aggiungere, come vedremo in
seguito, molte altre !) comprende la sua natura metaforica di trapezista che
volteggia da un appoggio ad un altro, oscillando nello spazio decisionale della sua
Weltanschauung (intuizione del mondo) senza la sicurezza di una rete.
Ci chiediamo, allora, cui prodest la proliferazione di reti e di reti di reti,in una
annodatura infinita e ,perciò stesso ingovernabile (pensiamo al mondo virtuale di
internet) : secondo G. Mantovani "la mediazioni degli artefatti [simboli di una rete
culturale dalla quale saremmo condizionati o addirittura determinati:N.d.A.] ci dice come
facciamo a scrivere un testo, a superare un esame, a preparare una cena per gli amici, ma
non ci dice perché valga la pena di fare queste cose" . (13)
Le reti, quindi, se da un lato si presentano come amplificatori e moltiplicatori di
produzione culturale, dall'altro costituiscono dei riduttori della spontaneità, della
creatività originale e della responsabilità decisionale dei singoli, fino al punto che
si può rischiare di non parlare nella rete ma ,paradossalmente ,di essere parlati dalla
rete , (14) depersonalizzandosi tra rapporti semplicemente virtuali o convenzionali.
Questo libro vuol dimostrare che ,comunque si cerchino forme di certezza e di prevenzione,
nonchè di coinvolgimento di altri nella diluizione delle proprie responsabilità , chi
esercita la leadership, non in modo meccanico e pragmatico o addirittura conformistico, ma
mirando alla affermazione di valori ed all'attribuzione di significati , lavora, forse
spesso a sua insaputa, senza alcuna rete protettiva, e diviene realmente creativo proprio
nel momento in cui inizia a tracciare un nuovo sentiero forse più incerto ed
imprevedibile, ma sicuramente più interessante e divergente rispetto alle annodature
predefinite delle reti e, quindi, produttore di cultura dell'innovazione.
Non possiamo che essere onorati ,infine, da analoghi dubbi espressi da Giovanni Paolo II
circa l'enorme pericolosità delle reti mediatiche nella lettera apostolica del
21/02/05,quando affermava, esaminando i rapporti tra media e cultura, che è
necessario un sistema di gestione che sia in grado di salvaguardare la centralità e la
dignità della persona, esaltando, quindi, sia la necessità che essa sia libera da
condizionamenti, talvolta occulti o ,comunque, indiretti, sia la responsabilità etica
delle nostre scelte che non può che essere personale (o siamo liberi e responsabili ,o
siamo determinati ed irresponsabili : a meno che non volteggiamo , oscillando
acrobaticamente ,nello spazio imprevedibile delle antinomie, privilegiando un pensiero
complesso che controlli la logica- così Morin- e non una logica che controlli il pensiero
comprimendolo con il famoso tertium non datur).
Ancora una volta, allora, invece di utilizzare il moderno uso anglosassone della nozione
del cosiddettoinsight, come premessa indispensabile alle acrobazie della
leadership tra decisioni alle quali non possiamo pilatescamente sfuggire ,ricordiamo ed
apprezziamo il famoso monito di S.Agostino : "Noli foras ire. In te ipsum redi :in
interiore homine habitat veritas" . (15)
E ancora - per citare un autore contemporaneo, sicuramente apprezzato dagli educatori
Carl Rogers dichiarava :Constato di essere più efficace quando posso
ascoltarmi con accettazione e posso essere me stesso...Solo quando mi accetto come sono,
posso cambiare. (16)
Per una mia precisa intenzione i capitoli che seguono non sono scritti in forma di saggio
scientifico rigoroso, ma di spazio di gioco sia narrativo sia dimostrativo ,nel quale ciò
che prevarrà non saranno solo le citazioni (necessarie, in ogni caso, a far comprendere
al lettore lo spessore del supporto teorico dei ragionamenti) ,bensì la mia personale e
pluriennale esperienza di dirigente scolastico e di counselor ad orientamento
intersoggettivo-costruttivista.
Gussago, Luglio 2005. Alfredo Bianco
NOTE
1)Goffman E.,La vita quotidiana come rappresentazione, 1969,Bologna,Il Mulino,p.133 e
segg.
2)Morin E.,I miei demoni,Meltemi ,Roma,1999,p.202
3)Huizinga J.,Homo ludens,2002,Torino,Einaudi ,p.XXXII
4)Winnicott D.W.,Oggetti transizionali e fenomeni transizionali in Gioco e
realtà,1974,Roma,Armando
5)Bertolotti,Forti,Varchetta,L'approccio socioanalitico allo sviluppo delle
organizzazioni,1983,Milano,Angeli,p.55
6)Stern in Emde R.,Emozioni positive in psicoanalisi,in Riva Crugnola(a cura di),La
comunicazione affettiva,1999,Milano ,Cortina,p.99 e segg.
7)Fromm E.,Da Avere ad Essere,1991,Milano,Mondadori,p.72
8)Bandura A.,Self Efficacy,1996,New York,Freeman
9)Bruner J.,La cultura delleducazione,2004,Milano,Feltrinelli,p.49 e segg.
10)Frankl,V.E.,Senso e valori per lesistenza,1994,Roma ,Città nuova,p.54
11)Bruner J.,cit.,pp.79-83
12)Ibi,p.81
13)Mantovani G.,L'elefante invisibile,1998,Firenze,Giunti,p.123
14)Eco ,La struttura assente,1968,Milano,Bompiani,introduzione.
15)De vera religione,Cap.xxxix: Non fidarti delle apparenze esterne.Rientra
introspettivamente in te stesso:la verità abita la profondità del tuo spirito.
16)Rogers C.,La terapia centrata sul cliente,Ed.1994,Firenze,Martinelli
A mia moglie e ai miei figli, che hanno
tessuto insieme a me l'unica, autentica rete della mia vita.
INDICE
Capitolo 1.
Dimensioni strutturali e funzionali delle reti.
Capitolo 2.
La rete come amplificatore o riduttore di possibilità :la human agency
Capitolo 3.
La retificazione della realtà come spazio transizionale o meccanismo di difesa
Capitolo 4.
Il prezzo della creatività nella realtà di rete
Capitolo 5.
Leadership e metainterazione :ribalta e retroscena
Capitolo 6.
Conoscenza orizzontale e verticale : modelli alternativi alle reti
Capitolo 7.
Leadership convergente o divergente :leader ludens
Capitolo 8.
Conflitto, interazione, dialogo : comunicazione digitale ,analogica ,ironica
Capitolo 9.
Acrobazie dirigenziali : proposte creative di interpretazione delle norme sull'Autonomia
scolastica.
Capitolo 10.
Il recupero del rapporto diadico : la dirigenza come counseling
Se sei
interessato a questa lettura scarica l'intero libro dalla Daimon Library.
Capitolo I
Dimensioni strutturali e funzionali delle reti.
"L'uomo ha perduto la sua
individualità ed è diventato un numero nella statistica di una organizzazione"
C.G.Jung
Molto recentemente mi è stato chiesto di
entrare a far parte di quattro diversi tipi di reti, nel rispetto, ovviamente
, di quanto previsto dallart.7 del Regolamento per lAutonomia scolastica
(D.P.R.275/99). Analizzando attentamente, tuttavia, le reali finalità di tali richieste
mi sono reso conto della strumentalità della nozione di rete per interessi fittizi o
particolaristici e, comunque, senza ricaduta reale sulla rete medesima.
Nel primo caso mi si chiedeva di aderire ad una rete territoriale di scuole; si motivava
la richiesta in modo totalizzante: se non avessi aderito con il mio Istituto
avrei prodotto una presunta disfunzione del reale potere della rete. O tutto o
niente: logica dicotomica ,che non conviene mai accettare, perché in qualsiasi realtà
tra due opposti esiste un continuum che permette una tessitura complessa (così Morin) tra
le contraddizioni. Ho scoperto, poi, che uno degli scopi impliciti dellAssociazione
tra le Scuole era quello di permettere ad alcuni dirigenti di ottenere cariche sociali di
vario tipo, che ne esaltavano la visibilità : un vero e proprio Organigramma costituito
da un Presidente, da un vice, da un addetto ai comunicati-stampa, da un addetto ai
rapporti con il C.S.A. di zona e così via di seguito. Ho calcolato che gli incarichi
inventati corrispondevano a più della metà dei componenti della rete che si riunivano
forse non tanto nellinteresse dei loro Istituti, consultati solo per pochi minuti
onde ottenere la deliberazione di adesione, ma per offrire ai dirigenti occasioni di
discussione di problemi giuridici, se non politico-sindacali: è superfluo dire che,
poiché le responsabilità legali sono personali, tale rete apparentemente protettiva
lasciava i singoli nella più completa solitudine rispetto ad errori amministrativi,
civili o penali o, addirittura, finiva per alimentare un contenzioso con gli Organi di
controllo gestionale e organizzativo. La rete, pertanto, rivelava una scarsa
utilità, pur richiedendo un contributo annuo a ciascun Istituto.
In un altro caso mi è stato proposto di curare una rete finalizzata al
Diritto-Dovere allIstruzione e alla Formazione (DDIF) : mediante alcuni Dispositivi,
quasi per niente pubblicizzati, ma posseduti dai proponenti, avrei dovuto formulare
Progetti per organizzare Corsi di Formazione o Aggiornamento con finanziamenti europei .
Fin qui tutto appariva nobilissimo, ma alla mia osservazione che ogni Progetto
dovesse basarsi su di una approfondita analisi dei reali bisogni dei destinatari ,si
accennò al fatto che il tempo di presentazione era limitatissimo (alcuni giorni) e che
,quindi, era necessario inviare i programmi, dopo aver consultato una rete di importanti
personaggi universitari e amministrativi, per ottenerne il patrocinio di gestione, anche
se non rispondenti alle esigenze dei presunti partecipanti. Poteva succedere, infatti, che
,una volta ottenuto il finanziamento, non vi fosse nessun soggetto che richiedesse quanto
organizzato, anche mediante Agenzie formative private! La rete, ora descritta, di fatto
aveva tutto laspetto di una lobbydi potere socio-economico.
Ovviamente non ho aderito, lasciando ad altri la responsabilità di ciò che, almeno
apparentemente, ritenevo un presumibile spreco o "uso idealizzato" di risorse
pubbliche.
La terza proposta riguardava una rete mista: alcune Scuole ed Enti privati di
tipo geriatrico avrebbero dovuto collaborare ad un progetto a favore di persone molto
anziane con gravi patologie cerebrali. La finalità era così elevata sul piano etico che,
attraverso alcuni insegnanti disponibili, la Scuola si è prestata alla partecipazione.
Purtroppo il tutto si è risolto in una conferenza plateale i cui protagonisti erano i
responsabili dellIstituto geriatrico, i politici locali, qualche dirigente e qualche
insegnante, che hanno pronunciato al microfono molti stupendi discorsi teorici
,complimentandosi a vicenda per liniziativa : ovviamente gli anziani malati, che con
lautenticità della loro sofferenza avrebbero potuto inficiare il successo (quale ?)
della manifestazione, sono stati tenuti sottochiave nellIstituto, anche perché non
avrebbero potuto capire nulla su di una rete, il cui scopo recondito era forse
anche quello della visibilità degli attori.
In tutti e tre i casi descritti sembra calzare perfettamente la seguente affermazione di
E. Goffman ,che, nella sua opera La vita quotidiana come rappresentazione
contrappone la Ribalta al Retroscena: Il Retroscena può essere definito come il
luogo dove limpressione voluta dalla rappresentazione viene scientemente e
sistematicamente negata.
Fortunatamente sono in grado di addurre anche un esempio positivo di costruzione e
funzionamento di una rete realmente rispondente alle finalità fissate dal Regolamento per
lAutonomia scolastica.
Un piccolo numero di Dirigenti vuole approfittare di un finanziamento regionale, molto
visibile e trasparente, che prevede per progetti di orientamento scolastico
professionale cifre di una certa consistenza. Il tempo a disposizione è di un paio
di mesi. Dopo un primo incontro tra i Capi dIstituto per concordare le modalità di
avvìo e di gestione della rete, nonché la nomina di un Istituto ,scelto come Capofila
perché supportato da un ottimo Ufficio amministrativo e diretto da una Dirigente con
specifiche competenze psicopedagogiche, si avvìa una approfondita fase informativa in
seno ai rispettivi Collegi dei docenti , Consigli di Istituto e, soprattutto, a favore di
gruppi di middle management(Collaboratori del dirigente, Referenti di settore,
Funzioni Obiettivo) che possono utilmente trasfondere linteresse per
liniziativa in modo orizzontale agli altri colleghi. Dopo tale procedura
di sensibilizzazione si trasmette anche agli Enti locali, nel quadro del Piano per il
Diritto allo Studio, una parte specifica del Progetto ,nel quale ,ad esempio, non può
mancare, per le informazioni relative alla Formazione professionale o per i problemi
legati allinterculturalità e allimmigrazione, lapporto dei Servizi
Sociali.
Si torna, quindi, in rete dirigenziale, con il sostegno e limpegno di una
collegialità partecipante e con le modifiche o integrazioni via via raccolte. Questa
volta si arriva alla firma di costituzione della Rete e allinvìo del Progetto
allEnte finanziatore, certi che le risorse saranno gestite nellinteresse
autentico delle comunità scolastiche e senza alcuna dispersione di fondi.
Abbiamo ,allora, visto quale può essere la procedura corretta per lorganizzazione
di una rete realmente coinvolgente, efficace, sempre aperta ad eventuali revisioni e
miglioramenti. Ma non bastava definirla "Associazione progettuale" tra scuole?
In effetti, una volta ottenuti i finanziamenti, ogni scuola si è comportata secondo il
proprio stile autonomo di gestione e gli stessi risultati complessivamente ottenuti non
sono stati comparati , sia per ragioni di riservatezza, sia per evitare competitività e
possibili frustrazioni.
Nel citato art.7 D.P.R.275/99 si legge,tra laltro :1. Le Istituzioni
scolastiche possono promuovere accordi di rete o aderire ad essi per il raggiungimento
delle proprie finalità istituzionali. 2. Laccordo può avere a oggetto attività
didattiche, di ricerca, di sperimentazione e sviluppo, di formazione e aggiornamento;di
amministrazione e contabilità, ferma restando lautonomia dei dingoli bilanci; di
acquisto di beni e servizi, di organizzazione di altre attività....Se laccordo
prevede attività didattiche o di ricerca, sperimentazione, sviluppo, di formazione e
aggiornamento,è approvato oltre che dal Cons.dIstituto, anche dal Collegio dei
docenti delle singole scuole interessate per la parte di propria competenza...Gli accordi
sono aperti alladesione di tutte le Istituzioni scolastiche che intendano
parteciparvi....Nellambito delle reti possono essere istituiti
laboratori....finalizzati alla documentazione di esperienze...anche attraverso rete
telematica.
La dimensione strutturale, purchè contenuta numericamente,è di tipo sistemico:si parla
di un sistema aperto a legami deboli,che consente di aggiungere dallesterno e di
modificare allinterno elementi e funzioni , sopravvivendo in base alla flessibilità
,anzi alimentandosi con ciò che viene definita tensione neghentropica che è
lesatto contrario del principio omeostatico, usato dalle scienze fisiche.
Si tratta ,quindi, non di una retroazione negativa, che annulla le differenze rispetto
allautoregolazione del sistema, ma di un gioco di retroazioni positive,che elevando
il gradiente di tensione verso obiettivi sempre più complessi, sollecita
lapprendimento continuo.
La dimensione funzionale dovrebbe, in ogni momento, essere in grado di offrire feed-back
adeguati in tutti i nodi della rete, mantenendo aperti e trasparenti i canali di
comunicazione e, soprattutto, rendendo perfettamente visibile il Retroscena,
visto che esso è un luogo di servizio e non di giochi di potere da nascondere
o da dissimulare con false apparenze appositamente costruite.
Permangono , purtroppo, tre problemi che sarebbe superficiale non evidenziare : il primo
è legato al fatto che le Istituzioni scolastiche son già di per se stesse delle reti
complesse, sia sul piano della quantità di personale in organico (dalle 50 alle 300
persone), sia sul piano della presunta identità della Scuola di cui il Dirigente è il
legale rappresentante. In un nostro studio abbiamo, infatti, cercato di dimostrare come le
Scuole siano agglomerati umani provvisti di identità multiple,di complessi intrecci di
interazioni interpersonali mutanti nel tempo, di differenziali semantici evidenti solo
sulle frontiere. Se è autentica la preoccupazione di R.Emde sulla difficoltà
di governareun gruppo di 8 persone che produrrebbero ben 378 relazioni di
relazioni significative (17), risulta quasi impossibile convertire in unità identitaria
anche una sola scuola. Figuriamoci una moltiplicazione di tale problema in una
rete di migliaia di componenti !
Il secondo problema riguarda la territorialità o la telematicità delle reti: quelle
formate nella vicinanza spaziale, in teoria, dovrebbero essere meno interessanti e
produttive perché troppo vicine in una sorta di idem sentire e, quindi,
ridondanti negli stessi interessi: queste, tuttavia, si gestiscono in modo più agevole
(basti pensare ad una riunione fisica dei dirigenti o del middle management
per prendere decisioni rapide); quelle telematiche (ad esempio interprovinciali
interregionali, internazionali, interculturali) potrebbero costituire, invece, un
crogiuolo di confronti di idee e modalità funzionali realmente diverse e, quindi,
pregnanti di divergenza e creatività, anche se rinuncerebbero, per la mediazione delle
macchine, allo scambio umano diretto (le inquadrature di una videoconferenza interattiva
ammesso che vi sia la possibilità tecnologica di attivarla non renderebbero
giustizia allarea paralinguistica, ai linguaggi indiretti e non verbali che
esprimono lemotività di fondo, e, quindi, rendono più autentico e trasparente il
rapporto interpersonale).
Il terzo è legato alla reale partecipazione delle persone che, almeno virtualmente
compongono una rete: abbiamo visto come la legge prescriva, nella maggior
parte dei casi due deliberazioni dei massimi Organi di governo di una scuola, il Collegio
dei docenti e il Cons.dIstituto, che sottintendono non certo "cinque
minuti" di votazione liberatoria ( del tipo : " prima si conclude, prima ce ne
andiamo") ,ma una serie di incontri di breafing e di feed-back, incontri che non
trovano spazi temporali e contrattuali adeguati. Di fatto le reti (specialmente quelle a
più alta densità numerica) sono organizzate e tenute in piedi da riunioni
dei soli dirigenti, con la loro presunta rappresentatività.
Ad una indagine fatta, per curiosità, nella mia stessa scuola nella quale pure si era
cercato di ottenere la massima informazione sulle finalità e le modalità di
funzionamento delle reti, più del 50% del personale non ne ricordava la
funzione e , comunque, ignorava quali fossero le altre scuole coinvolte.
Ci chiediamo ,a questo punto, che genere di sistemi siano le reti, visto che già le
singole scuole possono essere considerati sistemi aperti, flessibili, e costituite da
parecchi subsistemi, i quali a loro volta hanno laspetto di reti interpersonali : è
nostra convinzione che la nozione di rete, valida per un insieme di vie di comunicazione o
di viabilità, non possa essere considerata altrettanto idonea a rappresentare né in modo
isomorfico, né in modo metaforico, ciò che accade agli insiemi di rapporti
interpersonali che nel momento stesso in cui superano la diade devono
fare i conti con ciò che Stolorow ed altri eminenti studiosi di psicologia definiscono il
terzo separatore . (18) E probabilmente questo il punto cruciale della
complessità di governo delle reti interpersonali, dove il valore dellinterscambio
comunicativo paradossalmente non è alimentato dalla quantità dei messaggi scambiati
(altrimenti si potrebbe considerare "Cultura" il caos degli SMS che provengono
dai e pervengono ai milioni di cellulari o dovremmo percepire come realtà, invece che
narcisistica e almeno parziale finzione, i cosiddetti blog [da web-logos:n.d.A.] , che
sono i siti costruiti da molti utenti di internet per immettere nel web la propria
immagine da- esibire). La qualità comunicativa, nel senso pieno del
termine (e rispondente almeno ai cinque principi enunciati da Watzlawick, Jackson e Beavin
in Pragmatica della comunicazione umana) (19) è, invece, inversamente proporzionale alla
quantità degli intrecci, che oltre certi limiti non sono più decodificabili ed
interpretabili, ma producono una situazione di ambiguità babelica.
Quindi se già le scuole sono "reti di reti", se già in tali situazioni
sistemiche non è possibile monitorare il tutto con locchio di Dio (20),
se i rapporti interpersonali autentici e fondanti sono legati a quellUmfassung
(comprensione, abbraccio) che M. Buber vede emergere nellIch und Du (21), nella
relazione Io-Tu, la dimensione funzionale della rete è inversamente proporzionale alla
sua dimensione strutturale: anche nei momenti di autentica emergenza (ci riferiamo, ad
es., al recente disastro asiatico dello "Tsu-Nami") abbiamo assistito
allincapacità protettiva di enormi reti telematiche esistenti, ma non in grado di
essere governate ed interpretate in tempo utile.
Di fatto è significativo solo ciò che è interpretabile : e qualsiasi interpretazione
richiede una prospettiva ermeneutico-valoriale personalmente maturata, un atto di fede che
solo il singolo può compiere. (22)
E anche vero, tuttavia, che proprio i teorici dellintersoggettività e del
contestualismo liquidano come mito qualsiasi posizione che affermi
lesistenza di una mente isolata.
Noi (Stolorow,Atwood,1992) abbiamo sostenuto che limmagine pervasiva e
reificata della mente in isolamento, in tutte le sue molteplici forme, è una forma di
grandiosità difensiva che serve a rinnegare la sublime vulnerabilità che è implicita
nella consapevolezza che tutta lesperienza umana sia radicata nei sistemi
relazionali che la costituiscono (23).
Ma allora lessere o non essere in rete incrementa o limita la human
agency ? Accresce o diminuisce lefficacia e la responsabilità di chi si sente
promotore di un processo che intende portare a termine? E una domanda alla quale
dedicheremo tutto il secondo capitolo.
17) Emde R., Gli sviluppi della teoria
dell'attaccamento e le influenze delle relazioni sulle relazioni, in M.Ammaniti-D.M.Stern
(a cura di), Attaccamento e psicanalisi, Laterza, Bari, 1992, p.50
18) Orange, Atwood, Stolorow, Intersoggettività e lavoro clinico, 1999, Milano, Cortina
Editore
19) Watzlawick P.-Beavin J.H.-Jackson D.D.,,Pragmatica della comunicazione umana, Roma
,Astrolabio,1971
20) Orange,Atwood,Stolorow,cit.p.6 Non possiamo lavorare allinterno del campo
intersoggettivo e contemporaneamente tenere un piede fuori dal campo per descriverlo,come
cercano di fare i teorici dei sistemi, come se fosse dal punto di vista
dellocchio-di-Dio
21) Buber M.,Il principio dialogico ed altri saggi,
22) Bulltman R., Credere per comprendere....
23) Orange,Atwood,Stolorow,cit.p.46
Se sei
interessato a questa lettura scarica l'intero libro dalla Daimon Library.
IL PROFUMO DEL TEMPO
PSICOFILOSOFIA DELL'IDENTITA' E DELLA TRASFORMAZIONE di Alfredo Bianco
A tutti coloro che credono che la perseveranza e la coerenza siano delle
virtù e che il principio d'identità sia preferibile a quello di
contraddizione.
INTRODUZIONE
“Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”
Antoine-Laurent Lavoisier
"Io mi contraddico. Sono ampio. Contengo moltitudini"
Walt Whitman
"Il tempo presente e il tempo passato/ sono forse presenti entrambi nel
tempo futuro./ E il tempo futuro è contenuto nel tempo passato"
T.S. Eliot
Non so ancora quanto di autobiografico affiderò a questo libro. Ma credo che
il motivo conduttore di quanto andrò a scrivere sarà la contraddizione. Un
capitolo potrà smentire quanto dimostrato da un altro, senza rispondere ad
un disegno organico, che intenzionalmente non ho tracciato. Il libro stesso
costituirà una prova del modo di procedere del mio pensiero: un desiderio di
superare tutto ciò che può rimanere identico, nel senso di una continua
trasformazione.
Non so ora, perciò, neanche quali potranno essere le conclusioni, ammesso
che siano possibili.
Per essere sincero, le parole del poeta Whitman potrebbero costituire il
significato della mia vita: non ho mai creduto in termini come identità,
continuità, coerenza, perseveranza, ma ho sempre considerato positiva la
capacità di cambiare una decisione anche all'ultimo momento, senza
vincolanti rigidità, la possibilità di offrire agli altri immagini diverse e
forse incoerenti della mia vita, di poter liberamente negare, in un
contesto, l'affermazione pronunciata in un altro.
Ho sempre sentito, come nell'impalpabilità di un profumo, la leggerezza
evanescente del divenire inarrestabile del mio essere- nel- mondo. Del mio
esistere.
Mi rendo conto che ciò possa creare problemi in quanti, per economia
mentale, hanno bisogno di etichettare gli altri, per possederne le maschere.
Ma queste - come affermava Seneca - non potranno mai conservarsi a lungo:
"Nemo potest personam diu ferre fictam". Prima o poi, anzi molto presto
(cito), esse, per la loro stessa natura, decidunt, periscono. E, allora, non
è meglio affidarsi al mutamento? La natura stessa - ce lo ha insegnato
Darwin - è riuscita a conservare in vita solo le specie che hanno saputo
"mutare" i propri geni, quando le condizioni ambientali lo hanno richiesto.
Laddove non vi è stata mutazione, si è verificata estinzione fatale.
Quando ho cominciato a studiare filosofia, ricordo che quanto più mi
risultava antipatico Parmenide con la marmorea immobilità del suo 'Essere',
tanto più trovavo simpatico il "panta rei", il divenire eracliteo. Era come
quando, durante una gita in montagna, mi sentivo naturalmente attratto dalla
scoperta di un corso d'acqua o, ancor meglio, di una cascata con il suo
scrosciare inarrestabile: non ho mai visto nessuno sedersi con le spalle al
fluire dell'acqua, per "godere" la vista del monte con la sua granitica
staticità. E non mi sembra possibile che, in riva al mare, ci si sdrai con
le spalle alla battigia, rinunciando allo spettacolo del movimento
ripetitivo, ma sempre ricreato in forme diverse, delle onde, della loro
spuma o dei "lustrini" di luce infinitamente cangianti nei riflessi mobili
sull'acqua.
Sicuramente non mi piacciono parole come conservare, durare, stabilizzare,
mantenere, perseverare. Ammiro, invece, le metamorfosi, le trasformazioni,
le contraddizioni, i paradossi. "Vita motu constat", affermavano i seguaci
di Aristotele. Il movimento è il fondamento della vita.
Quando ci muoviamo nello spazio utilizziamo soprattutto i sensi della vista
, dell'udito e del tatto. E quando vogliamo muoverci nel tempo? Allora ci
aiuta quel senso archetipale e, forse, più trascurato e rimosso, che risiede
nel primo nervo cranico, che è l'olfatto. Pare che i cani, oltre a scovare
indizi viventi di ogni tipo, come la droga e i tartufi, siano in grado di
"sentire" olfattivamente la presenza dei tumori maligni, e quindi anche
l'odore dell'approssimarsi della morte.
Il tempo ha il suo profumo: esso lascia una scìa, che è il passato, ci
inebria con l'odore inondante del presente, ci fa sentire vivi anticipando
l'essenza di quanto non è ancora accaduto: molti lettori pre-sentono, prima
di averlo sfogliato, l'odore acre di stampa del quotidiano che
acquisteranno; o quello invitante del pane caldo prima di colazione, o
quello eccitante dell'amante che attendono di incontrare. Il profumo del
tempo è la tensione oscillatoria tra il senso sperimentato di quanto già è
accaduto e la premonizione fiduciosa di quanto potrà avvenire. E' un vissuto
diacronico, che consente di dare unità e continuità alla molteplicità,
apparentemente contraddittoria, della nostra esperienza identitaria. Del
resto alcuni decenni fa P. Fraisse , nella sua indagine sulla "Psicologia
del tempo", affermava: "L'orizzonte temporale si sviluppa lentamente nel
corso della vita[…] E' il passato che conferisce significato allo stimolo
trasformandolo [il corsivo è nostro. N.d.A.] in segnale, ma il segnale dà
origine ad un comportamento che è orientato verso il futuro". E non è forse
un segnale, che rimanda a qualcos'altro, l'odore avvertito, ricordato o
anticipato?
Quando uno psicoanalista milanese, Gianpaolo Lai, ha scritto un libro
intitolato "Disidentità", l'ho letto tutto d'un fiato, come avevo fatto con
l'Elogio della follìa di Erasmo o L'Elogio dell'incertezza di Eliot Jaques.
Edgar Morin, il filosofo della logica della complessità, che tesse tra di
loro le contraddizioni senza superarle ma disegnandole in modo olografico,
avrebbe detto- convinto com'è che lo stile del nostro pensiero risente della
storia della nostra infanzia - che il mio amore per il movimento sia dipeso
dalla conflittualità inarrestabile dei miei genitori, o dai trasferimenti
continui di sede, cui andava soggetto mio padre, magistrato militare, ad
ogni promozione: può darsi che il non aver potuto provare mai l'esperienza
di mettere radici in un posto, senza esserne strappato subito dopo, mi abbia
convinto che solo le piante sono immobili, che gli animali inferiori segnano
un territorio limitato e che invece l'uomo è fatto per oltrepassare
continuamente ostacoli e confini. Può darsi.
E' certo, comunque, che, quando osservo i colori di un tramonto, pur nella
sospensione temporale dovuta al godimento estetico, penso già ai colori
dell'alba dall'altra parte del mondo.
E, soprattutto, avverto, i profumi del divenire: anche se fossi cieco e
sordo, sentirei l'odore di alghe e salsedine del
mare in tempesta, riconoscerei l'intensità degli effluvi primaverili, o
l'acre sudore dell'estate, o quello dolciastro e muschiato dell'incipiente
decomposizione delle foglie secche, dopo una pioggia autunnale; e anche la
sensazione del raggelarsi del respiro nel naso in un inverno nevoso.
Ho bisogno di sentirmi abitato da anime molteplici, pur comprendendo che,
per non frammentarmi, devo conservare, in qualche modo, l'unità della mia
persona: ma si tratterebbe, in ogni caso, di una unitas multiplex.. Tale
unità non può essere che narrativa, non può alimentarsi che attraverso una
traiettoria temporale, in cui la memoria di ciò che è stato non si
immobilizzi in una forma persistente e pietrificata, ma abbia una sorta di
virtù vitalizzante e metamorfica, il potere di trasformare l'esperienza
assimilata con gli occhi rivolti al futuro, in modo che la prima non
determini, ma nutra di possibilità ri-create l'attesa di ciò che verrà.
L'unità molteplice non potrà subire reificazioni, non avrà definizioni,
potrà soltanto essere ri-conosciuta per approssimazioni profonde,
coinvolgerà l'altro in un gioco di inseguimento senza fine. E solo chi sa
godere le forme in un caleidoscopio, avrà la percezione di un bel disegno
che, mediante un semplice, lievissimo tocco, può rinnovare, in molti modi
diversi, la sua configurazione. Solo chi sa distinguere il bergamotto o il
gelsomino, la cannella o il cuoio macerato, in una miscela di odori, potrà
avvertire il profumo del tempo, che passa, lasciando una scìa, che subito si
dissolve nella sua materialità, per divenire impalpabile ricordo o
trepidante attesa nei più profondi recessi della nostra anima.
Se sei
interessato a questa lettura scarica l'intero saggio dalla Daimon Library.
CAP.I L'INSOSTENIBILE
"PESANTEZZA" DELL'ESSERE.
"La pietra nel pantano, non solleva onde in cerchi"
J. W. Goethe
Ci ricorda James Hillman, grande vecchio saggio jungiano, che il sostantivo
grave in Inglese significa tomba: e l'etimologia è legata al latino gravitas,
che vuol dire serietà, gravità, pesantezza .
La gravità non si attribuisce a ciò che è bello, ma solo a ciò che è
solenne, drammatico, tragico, forse sublime.
Non esistono una "grave gioia" o una "grave allegria" o una "grave
spensieratezza". Sono note, invece, colpe gravi, pene gravi, gravi malattie,
perdite e lutti…La pesantezza è inevitabilmente associata all'immobilità
della morte, o nel migliore dei casi ad una lentezza, certamente poco
vitale, o alla mancanza di movimento. A ben riflettere, se la gravità è una
cosa seria e pesante, allora la leggerezza e la felicità non si possono
guadagnare che con il gioco, le cui regole non sono "pesanti" perché
convenute liberamente, modificabili e reversibili ad ogni giro. Il gioco non
è grave perché è associato all'idea di riparabilità ed è protesa
all'anticipazione del futuro. La serietà è grave perché vuol conservare
intatto il passato e farlo pesare. "Non ti comporti in modo serio!" mi dice
un collega che vuole riportarmi nell'alveo delle abitudini cristallizzate,
laddove io cerco di tradirle, perché ormai inattuali. "Non è serio
l'atteggiamento che assumi" sentenzia mia moglie, se cerco di sottrarmi alla
ripetitività di certi riti domestici o se non rispetto alla lettera un
itinerario di viaggio.. Tutto ciò che è "conservatore" è serio, ma grave e
pesante; tutto ciò che "innova" è gioioso e leggero, ma visto con sospetto e
timore.
L'Essere di Parmenide, quello che "è, e non è il non essere", è estremamente
pesante. Forse dà sicurezza nella sua immobilità. Ma è noioso e poco
interessante.
Il" panta rei", il "tutto scorre" di Eraclito è, a dir poco, entusiasmante,
perché immette vita nelle vene e, se da un lato ci toglie certezza con la
sua instabilità, dall'altro ci restituisce la speranza del possibile..
E' stato Henri Bergson ad insegnarci che siamo "duree" e slancio vitale; è
stato Fromm a dire che l'uomo non può essere "descritto" nella sua fluente
irripetibilità, perché " non è una morta immagine", definendo biofili i
cultori del divenire, in sintesi sempre più ampie, e necrofili i cultori
delle piccole identità da sottoporre ad analisi e ad operazioni settorie di
separazione: come i pezzi di un cadavere. Diavolo deriva da "diaballein" che
in greco significa disunire, separare, dividere, e, quindi, analizzare. E si
analizza in parti sempre più piccole, per classificare, definire ed
identificare. All'infinito.
E' noto che una delle parole più usate ed abusate, che appartiene all'Essere
è "identità": in nome dell'identità di lingua-razza-
sesso-religione-appartenenza-età-ideologia-ecc. si può arrivare a conflitti
insanabili e spesso mortali. Le secessioni- separazioni-
particolarizzazioni-tradizioni vere, presunte o costruite, generano
inevitabilmente emarginazioni, incomprensioni, odio, guerre, minando alla
base la struttura universale, archetipale e naturalmente sintetica
dell'umanità.
Con sguardo accigliato ci diciamo, anche nella vita quotidiana, perfino tra
coniugi o tra genitori e figli: "non parliamo la stessa lingua" ;"tu sei un
dinosauro"; "so io cosa farei della gente che la pensa come te…"; "sono
fatto così e non cambierò mai!"; " la mia non è rigidità ma coerenza";
ecc.ecc. E così giustifichiamo una falsa incomunicabilità, che è invece
l'esatto contrario di quella disposizione strutturale e generativa - come
ricorda Chomsky che ci unisce tutti e che ci permette di possedere
virtualmente le parole del linguaggio universale: che non sono depositate
"una tantum" nel dizionario, ma che vivono nella parte più profonda ed
archetipica del cuore umano. Si possono sentire, ma non sempre esprimere; si
possono comprendere, ma non sempre spiegare. Ecco perché odio l'identità. Il
cosiddetto "idem sentire" se è forza di coesione per un gruppo è anche,
inevitabilmente, spinta all'emarginazione della diversità. Ma è sempre un
'illusione: anche nell'ambito di un piccolo gruppo: se non c'è volontà di
complessità, che significa tessere insieme, emergeranno fatalmente sempre
maggiori suddivisioni. All'infinito. Perché la divisibilità è infinita. Si
formeranno sottogruppi di correnti diverse, e poi movimenti di corrente, e
poi autonomi di movimento. Ipocritamente si dirà che ciò che lega è il
confronto, ma senza dialogo non c'è confronto, e senza parole, il cui senso
deve pur essere frutto di un accordo tra gli interlocutori, non c'è dialogo.
Affermando che senza accordo non c'è senso e senza confronto e dialogo non
c'è accordo, il cerchio si chiude. In una atroce, irreversibile,
incomunicabilità. Quella di coloro che sono o credono di possedere identità
precostituite, piuttosto che continuamente destrutturabili e ricostruibili.
Eppure, tornando ad Eric Fromm, c'è un "essere" che non è immobile, non è
grave, non è pesante: è quello che si oppone all' avere, al possesso. E
l'essere come copula, non come sostanza. E' l'essere che predica della
persona attributi multipli, anche se in contraddizione tra loro stessi. E'
quello che sostiene il divenire e ne ricuce gli attimi, con un ritmo
rapsodico.
"L'essere - così Fromm - si riferisce all'esperienza, e l'esperienza umana è
in via di principio, indescrivibile. A essere pienamente descrivibile è la
nostra persona, vale a dire la maschera che ciascuno di noi indossa, l'io
che presentiamo, perché questa persona è di per sé una cosa. Al contrario
l'essere umano vivente non può venire in alcun modo descritto…Soltanto nel
processo del mutuo vivente rapporto, io e l'altro possiamo superare la
barriera che ci separa, in quanto entrambi partecipiamo alla danza della
vita". Anche la metafora della danza scandisce il tempo del divenire, il
gioco della ritmicità degli scambi che attribuisce all'Altro la funzione di
rendermi pienamente "Io" di disvelarmi dialogicamente e, insieme,
empaticamente. Insomma, afferma Fromm, "quando partiamo dalla realtà di
esseri umani che esistono, amano, soffrono, dobbiamo constatare che non si
dà essere ,il quale non sia in perenne divenire. Le strutture viventi
possono essere soltanto se divengono, possono esistere soltanto se mutano.
Trasformazione e crescita sono qualità inerenti al processo vitale".
E c' è ancora un altro Essere che si oppone, oltre che all'Avere, anche
all'apparire, come, parafrasando l'Etica aristotelica, ci ricorda
Schopenhauer. E, si sa, oggi le apparenze della "visibilità costruita"
hanno, in quasi tutti i campi della vita umana e soprattutto nel settore
comunicativo, spodestato l'Essere, non solo quello "pesante" e sostanziale
di Parmenide ma anche quello mutevole, cangiante ed inafferrabile di Bergson
e di Fromm. L'essere visibili impone la trasformazione dell'umano in
immagini, del racconto biografico autentico, in blog costruito con scopi ben
precisi, del tempo vissuto, con le sue dilatazioni o contrazioni, in tempo
ritmato dall'orologio del computer o del web, in tempo alienato.
E poi, soprattutto alla mia età (sessantun anni), c'è l'essere stato, il
passato: se non vogliamo che venga rinchiuso nella tomba (grave) dell'Essere
che non diviene, dovremo risvegliarlo, ridargli significato, ri-creandolo
nel presente con la tensione di chi si protende verso il futuro. Solo nella
progettazione il passato, come esperienza ancora pregnante di significati
multipli e, forse, non tutti disvelati, può uscire dal coma e riprendere
vitalità, annusando il profumo del tempo.
Se sei
interessato a questa lettura scarica l'intero saggio dalla Daimon Library.
CAP. II IL PROFUMO DEL
TEMPO
"Nel Giappone medievale si usavano orologi che segnavano il tempo
rilasciando effluvi profumati: ogni due ore un odore differente aleggiava
nell'aria,
sicchè svegliandosi al buio si percepiva, materialmente, che ora fosse." J .Hillman
Per passare dalla gravità dell'Essere parmenideo alla impalpabilità dell'
Essere di Fromm , ci occorre ricordare che Eraclito non si avvaleva solo
della metafora della corrente dell'acqua, ma anche dello "pneuma" del soffio
vitale e, quindi, di ciò che raggiunge l'olfatto; secondo lui le anime del
mondo infero percepiscono per mezzo dell'odorato: "se tutte le cose che sono
diventassero fumo, le narici le riconoscerebbero come distinte l'una
dall'altra".
Che i profumi siano tracce indelebili del tempo vissuto non è una certezza
che necessita delle famose "madeleinette" di Proust per essere dimostrata.
Ciascuno di noi ricorda l'odore di terra e di erba bagnata, dopo un
temporale in montagna; l'inalazione di salsedine mista all'odore di alghe
mentre lascia orme sulla sabbia marina; il profumo d'incenso durante una
messa solenne; l'odore acre di zolfo, dopo lo stupore dei fiori di fuoco
artificialmente sbocciati nella notte. E quella scia di Chanel n.5 lasciata
da una donna interessante, che ci tormenta nel letto, quando ci sentiamo
soli?
Jorge Amado, oltre che definire un suo personaggio femminile (Gabriella)
mediante il profumo di cannella emanato dal suo corpo, torna sull'identità
odore- tempo- memoria ri-creativa nel romanzo Jubiabà, subito dopo aver
descritto uno scatenato spettacolo di danza:" Quando lo spettacolo sarà
finito verrà un negro in sandali e raccoglierà uno di quei petali di rosa,
che ancora conserva il profumo del corpo nudo di Rosenda Rosedà, e porterà
con sé quel fiore nelle piantagioni di tabacco".
Questi odori, assorbiti dalla nostra anima, ma pronti ad essere risvegliati
con tutto la loro cornice, quando li riavvertiamo, non sono forse
paragonabili a quelli dell'orologio giapponese, delicatissimo simbolo
dell'evanescenza del divenire ? Il tempo dell'uomo, di ciascun uomo, non
coincide, infatti, se non per una forzatura, per una imposizione sociale,
con quello geometrico ed asettico della vita organizzata.
Molti fenomenologi, studiosi, cioè, dell'uomo come egli stesso si rivela in
modo "epifanico" ed olistico, cioè nella sua integralità vissuta, hanno
studiato il rapporto uomo- tempo anche sul piano psichico . Ognuno di noi
può fare esperienza, quando è depresso, malinconico, malato, di una
dilatazione smisurata del tempo: siamo più lenti nel percepire, nel
ricordare, nell'agire, nel dedicarci ad un compito. Le scadenze ci
terrorizzano. Sembra di non averne abbastanza: ma noi siamo tempo. E ogni
vissuto temporale ha il suo profumo. Come un orologio giapponese senza ore,
senza intervalli, che mescoli i profumi della memoria e li distilli in
singole percezioni insieme ai ricordi. Più veloce è il tempo dell'euforìa:
quando "siamo su di giri", ci sembra di aver bevuto dieci caffè; non
riusciamo ad attendere. Le mille cose che abbiamo in mente, i mille progetti
paralleli da seguire, contemporanemente o sequenzialmente, accorciano il
tempo, lo "contraggono": non si ha tempo per fare tutto. Ma noi siamo quel
tempo accelerato: è una catena di vissuti densi, intensissimi. Mentre nel
primo caso sentivamo l'odore leggero di vino diluito con l'acqua, nel
secondo inaliamo alcool puro, ci ubriachiamo con il profumo del tempo.
Se, infine, ci dedichiamo ad un'attività creativa, artistica o non, il tempo
diventa flusso "flow"- come afferma Czsijentimijhaly - ; il suo profumo ci
stordisce ed accediamo ad un'altra realtà. Spesso qualcuno deve ricordarci
che è ora di pranzare, o di uscire, o di onorare un impegno. Ma, quando
creiamo, il profumo del tempo non è solo un indizio, come il fumo rispetto
al fuoco, ma è alimento dell'anima appagata. Il tempo è sconfitto, o,
almeno, illuso, ingannato.
"La parola sconfigge il tempo" affermava Hegel. E per parola dobbiamo
intendere tutto ciò che comunica qualcosa, tutto ciò che dona "senso",
significato alla cosiddetta realtà. Ammesso che esista, visto che diviene
continuamente e inarrestabilmente; che di continuo si ristruttura e si
trasforma con ritmi sempre diversi.
Ma, al di là delle belle metafore, in fondo che cos'è il tempo?
E' sicuramente, come l'uomo, un' unità molteplice: Aurelio Agostino nel
famoso capitolo XI delle sue Confessioni, ne descriveva l'impalpabilità : il
passato non è più; il futuro non è ancora; il presente è in bilico tra due
eventi che non sono. Il tempo, quindi, non è; ma noi lo viviamo in una
praesentatio che è una sorta di intuizione comprendente insieme presente del
presente, presente del passato (ritentio), presente del futuro (protentio).
Ciò vuol dire - come afferma molto sottilmente Hans Loewald, filosofo della
psicologia , alunno di Heidegger- che "il tempo è una funzione anello che si
pone più sul registro di un'interazione continua tra le tre dimensioni, che
di una successione".
Eliot Jaques , geniale studioso di psicoanalisi nostro contemporaneo,
rispolvera il doppio significato di tempo presso gli antichi Greci : il
Chrònos, quello che mangiava i suoi figli, che è il tempo della successione,
del movimento irreversibile, della sequenza dell'universo; e il Kairòs, che
è il tempo dell'occasione da non perdere, di quell'opportunità che - come
ricordava Nietzsche - "va afferrata con cinquecento mani". In effetti,
secondo Eraclito, "Kairòs pros anthropon brachù metron écheì": l'occasione,
cioè, si ferma un solo attimo dinanzi all'uomo. Jaques, quindi, ritiene che
questo tempo sia quello dell'intenzione, della intuizione, della decisione:
qualcosa di simile alla "scommessa" di Pascal. E' un tempo che si umanizza;
è il tempo che, per gli umani, sospende il tempo della durata, del flusso:
lo blocca nel significato in base al quale decidiamo. Ma non lo arresta: gli
dà direzione, cioè senso. Secondo Jaques tra tempo di flusso e tempo di
intenzionalità esiste lo stesso rapporto che si percepisce nell'alternanza
gestaltica tra figura e sfondo e addirittura ne ricava una formula: DO cc si
alterna con CC do , che, in parole "povere", vuol dire che l'oggetto
dominante (primo piano) ricavato dall'astrazione di un significato dalla
realtà che scorre( sfondo), si alterna continuamente con il campo continuo
del flusso (primo piano), mentre sullo sfondo recede l'oggetto.
E' difficile concepirlo, ma è come se il kairòs tagliasse il chrònos nei
punti per noi più significativi imprimendo alla sequenza, pur inarrestabile,
nuove direzioni .
M. Proust l'aveva intuito profondamente quando ne "Il Tempo ritrovato"
raccontava: "una mattinata mi aveva dato insieme l'idea della mia opera e il
timore di non poterla attuare, quella forma da me presentita nella chiesa di
Combray, e che ci resta di solito invisibile: la forma del tempo".
Ma la forma è qualcosa di visibile e noi volevamo, invece, dedicare questo
capitolo alle sensazioni olfattive, che sono ancora più legate all'istinto
archetipale: desideravamo parlare del "profumo del tempo", quello che
sicuramente, poiché non esiste nella realtà "esterna", può esistere solo
"dentro" di noi. Non si presta ad essere schematizzato in una formula, ma
può essere solo narrato: se ne può comprendere il senso, ma non spiegarlo
con concetti astratti. Il profumo non si può astrarre, né separare dalla
nostra memoria traducendolo in un'immagine visiva. Il profumo si sente e
basta.
L'odore del tempo è simile a quello dei fiori morti, chiusi, sparsi in una
"camera ardente", o a quello dei gelsomini vivi, non recisi, che si mescola
ai profumi del mare mentre osserviamo l'orizzonte e ci perdiamo in esso,
come tra le braccia di un'amante. Il profumo del tempo può ritornare
immobile e freddo, come la morte, o carico di una infinita e indefinita
vitalità, come l'amplesso d'amore.
Il profumo del tempo non può essere che "tempo vissuto".
Il tempo dell'essere è diverso dall'avere tempo, anche se - come affermava
il cordovese Seneca, tradotto da Fernando Trias De Bes - " Todas las cosas
nos son ajenas; sòlo el tiempo es nuestro" . Dire che solo il tempo è nostro
equivale, tuttavia, ad inserirlo nella modalità dell' essere, poiché tutto
ciò che rientra in quella dell'avere può essere perduto.
"Se sono ciò che sono e non ciò che ho - così Fromm - nessuno può privarmi
né della mia sicurezza, né del mio senso d'identità, e neppure minacciare di
farlo…Mentre l'avere si fonda su qualcosa che l'uso diminuisce, l'essere
viene incrementato dalla pratica…I poteri della ragione, dell'amore, della
creazione artistica crescono grazie al processo del loro esprimersi…[In tal
caso] ciò che si spende non va perduto, ma al contrario va perduto ciò che
si conserva. L'unica minaccia alla mia sicurezza nella condizione
dell'essere risiede in me stesso: nella mancanza di fede nella vita e nelle
mie capacità creative; in tendenze regressive; nella pigrizia interiore e
nell'aspirazione che siano altri a provvedere alla mia vita. Si tratta,
però, di pericoli che non sono inerenti all'essere, mentre il pericolo di
perdere è inerente all'avere".
Ma allora perché frequentemente pronunciamo la locuzione "perdere tempo"?
Evidentemente ci riferiamo al tempo reificato, quello dell'orologio, che si
consuma irreversibilmente, ma che non coincide affatto con il tempo vissuto,
quello, per intenderci, che il sentimento di fiducia, come ha dimostrato
Luhmann , consente, viceversa, di dilatare, di ri-creare, di rendere
reversibile sulla base della circolarità anticipatoria della familiarità di
quanto avvenuto in passato rispetto all'intenzionalità delle attese future.
Non è necessario appesantire il discorso con citazioni di Heidegger, di
Straus, di Sartre, di Lacan o di tanti altri pensatori, per comprendere che
non c'è niente di più personale del vissuto temporale, e che noi non abbiamo
tempo, ma lo siamo. Ciascuno di noi ha provato, in uno stato di malinconia,
il senso della persistenza, dell'immobilità del tempo, o, viceversa, in uno
stato di euforia, la sensazione di un fluire rapidissimo ed inarrestabile di
quello stesso tempo: nel primo caso pochi minuti dell'orologio possono
sembrare un'eternità stagnante; nel secondo si sperimenta una pienezza
traboccante di quella stessa manciata di attimi, nei quali si presentano
contemporanemente e ansiosamente mille intenzioni di vita da soddisfare.
Fenomenologicamente il tempo dell'avere non ha alcun profumo; il tempo
dell'essere che si dilata o fluisce, invece, conserva intatta la fragranza
del ricordo, o entra nella scìa dell'ad-venire, di ciò che dal futuro ci
viene incontro. E noi ne sentiamo l'odore, che ci penetra e non si misura.
Il profumo del tempo, come qualsiasi altra essenza, non è quantificabile.
Mai.
Eliot Jaques fa giustamente notare che, pena la frammentazione del Sé, deve
comunque esserci un "presente attivo…circoscritto da una cornice temporale
individuale…Questo essere presente è contenuto nel nostro senso di integrità
e continuità come persone…Questo presente che dura tutta la vita è l'essere
presente della coesistenza tra l'Essere e il Divenire, il presente
dell'esistenza, il presente esistenziale. E' il presente del Sé, della
persona, il presente che fonda la possibilità dell'identità personale di
ognuno…Esso è il confine vitale esterno che conferisce al tempo un
significato personale."
Ma, a questo punto, è nostro dovere chiederci che cosa sia la cosiddetta
identità : significa - afferma G. Jervis - "riconoscersi ed essere
riconoscibili.[…Ma] ci chiediamo se l'immagine che abbiamo della nostra
personalità
sia uguale a quella che ne hanno gli altri. Ci chiediamo anche se la nostra
identità è sempre la stessa, e se per caso non cambiamo identità ma mano che
incarniamo ruoli sociali diversi. Ci chiediamo se non siamo prigionieri di
una serie di recite. A volte fatichiamo ad accettarci. Altre volte ci
chiediamo se non potremmo, in qualche modo, essere diversi: ci seduce l'idea
di poter cambiare identità."
Parlare di cambiamento di identità significa, inevitabilmente, riferirsi al
tempo vissuto, da intendere come fenomeno psicologico e non obiettivo: "Non
è il tempo a fluire - così Jaques: non è il futuro che fluisce nel presente,
nel passato; è lo stato psicologico, l'attività mentale degli individui che
dà origine alla sensazione del fluire" E, inoltre, è semplice la spiegazione
della preminenza della categoria temporale rispetto a quella spaziale: "E'
perché il tempo contiene la morte, in cui inevitabilmente ci imbattiamo come
parte del nostro tempo futuro intenzionale ed esistenziale, che esso è
emozionalmente più sconvolgente dello spazio".
La nostra identità e le sue eventuali metamorfosi saranno allora focalizzate
a partire da quella forma di autenticazione della vita, che è la coscienza
della certezza della sua fine, l'unica certezza che possa sostenere la
costruzione dell'identità.
O, forse, c'è ancora un'altra possibilità: quella di raggiungere non un
identità positiva, che sarebbe una etichettatura cristallizzante, ma una sua
forma negativa, cercando di comprendere almeno ciò che sicuramente non
siamo.
E' proprio ciò che liricamente ci suggerisce Eugenio Montale:" Non
chiedeteci formule che il mondo possa aprirvi,/ sì qualche storta sillaba e
secca come un ramo:/ soltanto questo oggi possiamo dirvi/ ciò che non siamo,
ciò che non vogliamo".
Se sei
interessato a questa lettura scarica l'intero saggio dalla Daimon Library.
|