SENZA SPARARE UN COLPO
DI LUIGI SOTTINI
Prologo
Luigi Sottini, classe 1922, da sempre racconta alle figlie ed alle nipoti, nei rallentati
tempi di un dopocena di famiglia allargata, spezzoni dell'evento centrale della sua lunga
vita. La guerra in Russia e la prigionia. E' stato soldato semplice, soggetto
inconsapevole di una pagina di storia, anonima presenza che con forza ha narrato e narra
dal suo punto di vista di uomo comune.
Ora la sua testimonianza diventa qui parola scritta, con dignità di racconto, che
finalmente restituisce vita a parole e ricordi altrimenti a rischio di cristallizzazione.
Luigi è un uomo che sa, che si prende l'impegno di far sapere, conscio che proprio il
racconto delle storie di vita può contribuire a creare nei giovani le basi dell'etica e
della morale, aiutarli a formarsi un'identità, un'appartenenza. Scandaglia quindi per noi
i luoghi della memoria, ricchi di elementi grandi e piccoli, di pensieri corti e profondi,
pazienti.
Intelligente e pratico ha affrontato avvenimenti e passaggi per molti insuperabili con
l'acume del ragazzo di campagna, religioso e fiducioso nell'amicizia e nella buona sorte.
Perché incolpevole.
Luigi va dunque alla guerra. Quella cosa the tutti chiamavano guerra, ma che ancora non
aveva portato cambiamenti alla sua vita di mandriano e contadino, a vent'anni gli manda in
frantumi il mondo fino ad allora conosciuto. Piccolo mondo della malora, tutto di lavoro e
fatica e di essenziali pochi bisogni, ritmato dall'ineffabile scorrere delle stagioni, dal
calore delle bestie, dalla mungitura e dallo slattamento, dalla raccolta del fieno e del
maggengo. La guerra subdolamente lo raggiunge nella Bassa bresciana e lo agguanta, per
quanto vivesse riparato, nascosto e comunque protetto dalla grande famiglia rurale. Ancora
ragazzo, riposti gli attrezzi e ricoverate le bestie, si lascia accompagnare alla vicina
ed ostile città da una sorella, piombando in un mondo di esseri umani uniti fra loro da
vincoli esterni.
Affidabile e comprensivo lega facilmente con i coetanei, ragazzi come lui sbalorditi da
quell'esilio involontario.
Senza via d'uscita affronta il suo nuovo ruolo di soldato. Ogni cosa gli appare oscura e
difficile, ma con grande equilibrio interiore lui, armonico al mondo contadino, affronta
le asprezze spendendo ogni energia nel condurre il quotidiano. L'incontro col Torto, il
suo amato mulo e compagno di strada, lo sostiene e lo sorregge nell'individuazione di un
ruolo noto, piu consono alla sua breve storia di ragazzo di campagna. E con lealtà e
speditezza si adatta dignitosamente ai nuovi ritmi imposti, fra uomini senza età,
cresciuti a forza, troppo in fretta. Ascolta inquieto ed affidato le magre parole dei
reduci, non comprendendone ancora appieno il senso vero.
Il quotidiano estenuante lavoro lo sfianca e sconforta, restituendolo al sonno ed alla
stanchezza. Alla fame.
Mentre lentamente si adegua arriva l'ordine atteso e temuto: "...io non sapevo cosa
era il Caucaso, che era in Russia...". Gli orizzonti si allargano infiniti e parte,
non sospettando nemmeno quali abissi di dolore e crudeltà gli prospettasse il futuro.
Ma uomini possono incontrarsi e riconoscersi anche in quel mondo di guerra, insieme
affrontare guai di ogni tipo e sciagure in terre lontane, ma uguali. Non si occupa troppo
dell'eventualità della morte, pur sempre in agguato, non ne ha il tempo materiale,
perennemente occupato dalle scansioni obbligate dei regolamenti e delle urgenze
quotidiane.
A tratti lo prende la sensazione di essere perduto, impotente, incapace di superare
l'orrore, le spalle in fiamme ed i piedi nella neve, ma sempre riesce a salvare il
salvabile.
La tragedia personale e collettiva della ritirata e della successiva prigionia gli matura
un principio interiore semplice semplice, una fiducia religiosa incondizionata, una
robusta solidarietà in momenti che poco inclinano al gioco di squadra.
Fatti dolorosi ripetuti all'estremo limite gli danno una severa lezione sulla vanità del
mondo, così diverso da quello della perduta giovinezza, ignaro di ogni pericolo.
Strani percorsi, a suo vedere non dettati certo dal caso ma dalla provvidenza, lo
riportano infine alle insperate tenerezze del padre, alla famiglia tutta, dopo aver
superato indenne la morsa inesorabile degli eventi.
Alla storia dei potenti e degli intellettuali oppone oggi la storia e la memoria di una
persona concreta, semplice e complessa, ricca della propria individualità. Sommessamente
ci dice: "Adesso parlo io."
Daniele Bonetti
"Memorie di un alpino the ha sofferto in silenzio" Luigi Sottini
La cartolina precetto
Mi chiamo Luigi, Sottini Luigi, e sono nato a Bagnolo Mella il 22 giugno 1922, dove ho
vissuto fino a sedici anni. Ho cominciato a undici anni a lavorare sotto padrone per
aiutare la mia famiglia. A undici anni. A sedici sono andato via da Bagnolo, sono venuto
ad abitare a Verziano, verso le Fornaci. Ci sono stato due anni, dai sedici ai diciotto,
poi sono andato a vivere in un'altra cascina a Cizzanello - che rimane tra Castelmella e
Capriano - e li ho lavorato dai diciotto ai diciannove anni e mezzo, in stalla, a fare il
mandriano. Fino a quando sono andato in guerra.
In famiglia eravamo in dieci. Otto fratelli, sei femmine: Santina, Augusta, Barbara,
Adele, Pasquina e Regina; due maschi, io e Osvaldo, papa e mamma. Mio padre, Geremia,
lavorava in campagna e mia madre, Calestani Anna, era casalinga, teneva da conto la
famiglia. Le mie sorelle, quelle piu vecchie, Santina, Augusta e Barbara cominciavano ad
andare a lavorare. Santina e Barbara andavano a servizio in due famiglie, Augusta alla
Tempini, allo stabilimento, dai tredici fino ai diciassette anni. Io ho lavorato come
mandriano fino a diciannove anni e mezzo, fino a quando, nel '42, mi e arrivata la
cartolina precetto e in gennaio, i primi di gennaio, sono partito.
Ero a Cizzanello, il 3 gennaio, ed essendo in tempo di guerra l'ho presa con tristezza, di
malumore, perché era un momento difficile prima di tutto perché c'era in ballo la
guerra, secondo perché ero un aiuto morale e materiale per mio papà e per la famiglia.
Perdendo un introito, era qualche cosa. Sono dovuto andare via, partito triste, con le
lacrime agli occhi. La cartolina mi è arrivata tre giorni prima della partenza. Ho
lavorato fino all'ultimo giorno e poi mi ha accompagnato la mia seconda sorella, Augusta,
al Distretto di Brescia.
Ma quale valigia! Avevo un sacchettino di roba che mi avevano dato, un salame e una
ciambella, una specie di focaccia avvolta in un sacchetto di tela. La valigia non l'avevo.
Sono partito cosi, con le cose che avevo addosso, e con la sorella più giovane siamo
andati alle Fornaci a prendere il tram fino a Brescia. Lei mi ha accompagnato al
Distretto, ha aspettato fino a quando sono uscito e mi ha accompagnato fino alla stazione
dei treni.
Nel Distretto ogni scaglione veniva destinato alla tal arma. Io ero stato destinato
all'artiglieria alpina. Hanno fatto la selezione di tutti i chiamati nati nel '22, chi
andava verso una destinazione chi in un'altra. Io dovevo andare a Rovereto, eravamo una
ventina, tutti di Brescia, al Comando Gruppo di Rovereto.
No la divisa me l'hanno data al Comando Gruppo, a Rovereto.
Al Distretto non c'era nessuno che conoscevo, però mi sono fatto presto amico con diverse
persone. Si sapeva che si partiva e che si era tutti diretti a Rovereto, allora abbiamo
passato parola e preso confidenza, specialmente con uno che è sempre stato un mio caro
amico, che poi è morto in Russia, un certo Foppoli di Collio.
Intanto mia sorella è fuori che m'aspetta, ad un certo punto siamo usciti dal Distretto
incolonnati tre per tre, come per la marcia.
C'erano dei soldati che ci prelevavano per portarci a destinazione, noi avevamo, mi
sembra, sei artiglieri che venivano da Rovereto per ritirare le reclute e portarle là.
Si, tutti con un sacchetto, non ce n'erano di valige. In quel momento io saluto mia
sorella un po' tristemente, ma senza uscire dalla fila. L'ho salutata con la mano, lei era
fuori che mi aspettava e come mia sorella c'erano tanti altri famigliari, c'era il
piazzale pieno. Ero arrivato al Distretto alle nove e verso le undici siamo usciti per
andare in stazione. Dal Distretto alla stazione a piedi, semimarcia a tre per tre,
incolonnati. Siamo partiti con un treno normale the faceva Brescia-Verona-Trento-Rovereto.
Sul treno non abbiamo mangiato niente perche avevamo un po' di magone, abbiamo mangiato la
sera, quando siamo arrivati a destinazione e ci hanno dato il rancio.
A Rovereto ci hanno fatto scendere dal treno - il Comando Gruppo non era tanto distante
dalla stazione - e sempre a piedi, in colonna per tre, hanno cominciato a selezionarci.
Dei venti che eravamo ce n'erano quattro destinati alla 20° Batteria, quattro alla 45° e
quattro alla 19°, la rimanenza al Comando Gruppo. Il nostro era il primo scaglione del
complemento, poi sarebbero arrivati gli altri.
Hanno cominciato a chiamare per darci la divisa grigioverde, non era lofe' ma era la
divisa, con le scarpe chiodate, quelle degli alpini, con le fasce invece delle calze.
C'erano ancora le fasce e non ero capace di avvolgerle, le perdevo sempre strada facendo.
(lofe': di cattiva qualita)
Non mi hanno insegnato a metterle, le mettevo dentro le scarpe e le giravo intorno alle
gambe. A forza di farlo ho imparato a metterle bene, non mi ha insegnato nessuno. Facevano
anche bene alla gamba. Poi mi hanno dato to zaino, la camicia di flanella e due camicie di
tela, il fascetto-maglia grigioverde (chiamiamolo pullover), la pancera, due maglie (mi
sembra, ma non mi ricordo bene), il cappello da alpino rigido, nuovo, con la penna in
piedi a novanta gradi. Poi mi hanno dato le scarpe, ci hanno messo in una camerata e ci
hanno detto: "Dovete vestirvi da militari." Dovevamo fare un pacco della roba
"borghese" con nome, cognome, l'abitazione e la provincia e loro avrebbero
pensato a spedirlo a casa. Mi hanno tagliato a zero, proprio pelato a zero, la prima cosa
e stata quella. Tutti tagliati con la macchinetta. Siamo stati li tre giorni. Noi reclute
abbiamo dormito per tre giorni in un magazzino coi letti a castello, e intanto abbiamo
mangiato le nostre scorte.
No, lì niente puntura. Hanno cominciato a selezionarci dopo i tre giorni, sono arrivati
un caporalmaggiore, un caporale e un artigliere. Ogni Batteria mandava tre persone a
ritirare le reclute e siamo partiti tutti per il Piemonte. Noi dovevamo andare a San
Benigno Canavese, la seconda Batteria a Chivasso e la terza a Montagnano. Le tre Batterie
sono partite sempre con un treno normale, mai con una tradotta; abbiamo mangiato il rancio
del mezzogiorno al deposito di Rovereto e quello della sera quando siamo arrivati a San
Benigno.
Il Don
Abbiamo fatto una ventina di giorni di marcia. Siccome ci si avvicinava al Don, dove c'era
pericolo perché i russi cogli aerei sorvolavano e cercavano di bombardare le colonne dei
soldati e dei trasporti, erano tutte marce notturne. Di giorno facevamo brusca e striglia,
sempre messi al coperto in mezzo ai boschetti, sempre con la tenda montata al riparo.
Quando si arrivava a destinazione, alle due o tre di notte, montavi la tua tenda, la
disfacevi la mattina ed avevi la giornata libera. Ma non senza far niente, c'era sempre
qualcosa da fare.
Di notte ci vedevamo alla luce della luna, gli ufficiali con la carta geografica; la
strada, non ti posso dire ogni quanto, era segnata con frecce, sia sulla strada sia sulla
carta topografica. Non erano strade provinciali, erano tutte battute dal passaggio delle
truppe, dalla naia, dal genio militare. Era una strada riconoscibile, dovevi sempre
seguire quelle frecce.
Non abbiamo incontrato mai nessuno, passavi dalle città e trovavi i civili russi,
attraversavamo i paesi di notte. Il pericolo era l'aviazione, perché tentavano di colpire
gli spostamenti di truppe. Come noi altre truppe italiane che ci spostavamo per andare a
prendere posizione sul Don. C'erano i movimenti delle truppe tedesche, di quelle
ungheresi... in avanti e indietro. C'erano quelle che lasciavano il fronte, ma se ne
incontravi una che tornava c'era subito una Divisione che la rimpiazzava.
No, i feriti erano trasportati man mano dalla Croce Rossa. II nostro autocentro, per
esempio, aveva le barelle e le macchine apposta. Per riportare i feriti dal fronte avevamo
le barelle trainate dai muli, con le ruote, tipo slitta, che li portavano subito
all'ospedale.
Quelle che si ritiravano erano truppe che avevano già fatto tre, quattro o cinque mesi di
fronte, andavano sostituite ed allora tornavano indietro.
Quando ci incrociavamo non ci potevamo parlare perché noi andavamo in una direzione, loro
in quella opposta e marciavamo distanti. Abbiamo incontrato truppe tedesche che tornavano
ma anche che andavano al fronte, ma non abbiamo mai camminato paralleli o vicini ai
tedeschi. Mi ricordo che una volta, verso sera, eravamo accampati in un boschetto e
dall'altra parte dello stesso boschetto erano accampate truppe tedesche dell'artiglieria
pesante, con pezzi molto grossi trainati da cavalli. Noi eravamo da una parte, loro
dall'altra.
Quando c'e stata la ritirata eravamo invece tutti ammassati: tedeschi, italiani, rumeni,
ungheresi, eravamo tutti insieme. Invece nell'andare a prendere il fronte eravamo in
marcia ognuno per conto suo, non si marciava insieme. Abbiamo fatto più di venti giorni
di marcia, settecento o che chilometri.
No, noialtri fino ad allora non abbiamo mai combattuto, neanche prima sul Donez, c'era
stata solo una scaramuccia, ma veri e propri combattimenti no.
Si sparava per tenere in efficienza i pezzi d'artiglieria, si sparava qualche colpo per
verificare che fossero pronti, sia a bersaglio che non, bisognava però che sparassero.
Prima, sul Donez, la perdita piu grossa l'ha avuta il Battaglione Valchiese che, per
ordini sbagliati, invece che far procedere il fronte tutto insieme era avanzato da solo.
Tedeschi, rumeni e ungheresi si sono fermati e si sono salvati, mentre il Valchiese si è
trovato intrappolato, con una grave perdita di uomini.
Insomma dopo venti o ventidue giorni di marcia, non mi ricordo bene, siamo arrivati al
Don, e ci siamo accampati. Era la fine di ottobre, ed eravamo a cinque chilometri dal
fronte. Sono andate avanti le quattro Squadre dei pezzi d'artiglieria con gli inservienti,
la Squadra Comando con l'Osservatorio ed hanno preso posizione sul fronte.
Io? Io ero dietro cinque kilometri e dovevo portare viveri e munizioni in prima linea. Le
salmerie ci facevano arrivare i rifornimenti (c'erano tre scaglioni, la sussistenza
portava alle salmerie, le salmerie a noi e noi al primo fronte) e tutti i giorni portavamo
munizioni o viveri.
Il fronte
Com'era il fronte? C'erano i pezzi d'artiglieria piazzati. Gli alpini erano proprio sulla
riva del Don, sull'altra c'erano i russi. Una sponda era il fronte italiano e tedesco,
l'altra sponda il fronte russo. Metti che il Don sia largo anche cento o duecento metri,
ma a voce ci si sentiva, di là c'erano i russi e li vedevi girare, lavorare, se non
c'erano combattimenti li vedevi che spostavano cose, lavoravano loro come lavoravamo anche
noialtri. Specialmente intanto che non c'era la neve. Anche loro lavoravano per prepararsi
un riparo e difendersi dal freddo invernale.
Gli ultimi di ottobre siamo riusciti a prendere posto in un'isba, abbiamo trovato una
stanza libera in quel paesino, * * *, era il quattro di novembre. Mi ricordo che era
venuta la prima neve, trenta ghei di neve e noi eravamo ancora in tenda. Puoi pensare il
freddo sotto la tenda, ci entravi e te barbotàet. Andavi a dormire vestito ma non
riuscivi a dormire dal freddo. Avevamo le due coperte della dotazione e sopra ci mettevamo
la mantellina. Eravamo dentro in sei e cercavamo di appoggiarci contro la schiena l'uno
dell'altro per scaldarci.
Finalmente eravamo riusciti a prenderci una stanza, le poche altre erano già state tutte
occupate dalle altre Batterie perché, tra l'altro, quel paesino era vicinissimo al
fronte, ed era già stato parzialmente distrutto. Non ce n'erano tante di case ancora in
piedi. Siamo riusciti a prenderci quella stanza, ci siamo sistemati un po' da una parte e
un po' dall'altra, preparandoci il posto per dormire. Si stava abbastanza bene perché
c'era il fuoco, il forno che usano in Russia. Andavamo a fare legna, che non mancava mai
perché c'erano attorno i boschetti. Verde o non verde andavamo a tagliarla.
Il forno loro lo usano per scaldare e per cucinare, però soprattutto per scaldare la
casa, perché quando comincia a far freddo e proprio freddo. Nell'arrivare la prima neve
la temperatura ha cominciato ad abbassarsi, ad abbassarsi sempre di più. Nei primi
momenti siamo arrivati a meno venti gradi, poi, in dicembre, siamo arrivati a meno
quaranta. Quaranta sotto zero. Di neve non è che ne sia caduta un bordel, la prima neve
saranno stati trenta o quaranta ghei. In seguito tutta quella neve e stata trasportata,
perché la c'è sempre vento, e stata portata dal vento da una parte all'altra: in cima
alle collinette era bassa, ma negli avvallamenti ti arrivava al barbos. Era stata portata
dal vento nelle vallette.
I muli Ii avevamo messi al riparo, le chiamavamo scuderie ma non erano scuderie vere e
proprie. Avevamo scavato delle buche per terra e le avevamo coperte, li abbiamo messi
dentro però, poveri diavoli, gelavano lo stesso perché it tetto era troppo alto e con il
fiato non riuscivano a scaldarle. Erano due scuderie piccole, con dentro quaranta muli in
tutto, mettiamo trenta in una e dieci nell'altra. In quella piccolina si stava abbastanza
bene perché era stretta. C'era sempre una guardia in ognuna e se dovevi fare la guardia
c'era un posto speciale dove potevi dormire. Mettevi il catenaccio alla porta e dormivi
con addosso quattro coperte, quelle bianche dei muli, e sudavi a rigirarti perché avevi
addosso tanto peso, ma battevi lo stesso i denti dal freddo. Stavi bene, invece,
nell'altra scuderia, quella più piccola, perché ci si riusciva a scaldare. Devo dirti
una cosa: quando ero di guardia alle scuderie avevo sempre una gran paura dei partigiani.
Ho sempre dormito con un occhio aperto, per dire. Pensa che, intanto che montavo la
guardia nella scuderia piccola, andavo a sedermi nella mangiatoia dei muli, a nascondermi
in un angolo dove non potevano vedermi se entravano dalla porta. Io andavo in quell'angolo
a sedermi dentro nella mangiatoia (ride).
I partigiani c'erano sempre stati, all'improvviso arrivavano, capitavano all'improvviso.
Fuori c'erano le sentinelle, ogni Batteria ne aveva quattro: dovevi fare avanti e indietro
trecento metri di strada guardandoti attorno, trecento metri li faceva un altro. Ce
n'erano otto in tutto attorno al paese, si faceva la guardia a due a due; eri sempre in
servizio o nella stalla o attorno al paese. Insomma, se sentivo stok! mi si bloccava il
sangue, mi si bloccava lo stomaco, perche ti dicevano che sul fronte portavano via le
sentinelle. Di tutti i paesi che c'erano in quella zona l'unico disabitato era il nostro,
pero cinque kilometri dietro di noi c'era un paesino, ***, dove andavamo a prendere gli
ordini. Ci abitavano ancora delle famiglie, avevano concesso ai civili di riprendersi le
loro case. Insomma erano dietro di noi, che fossero o non fossero quelli i partigiani io
non lo so, ma una volta ogni tanto sentivi che avevano fatto saltare in aria qualcosa,
magari una polveriera. Allora stavi sempre con l'orecchio teso. Comunque è sempre stata
triste.
Insomma quando siamo riusciti ad entrare in quella stanzetta abbiamo finalmente smontato
la tenda e ci siamo preparati una lettiera con dei paletti di legno. Eravamo in quindici,
il pavimento era di terra battuta e la lettiera ci teneva sollevati di mezzo metro. Sopra
la lettiera avevamo messo della paglia, tra la paglia e noialtri il telo tenda, poi le due
coperte. Li si stava bene perché il forno era acceso notte e giorno. Era la fame che
c'era sempre, quando ci penso, io avevo fame ma il mulo aveva piu fame di me. Gli davamo
nella musetta l'orzo ancora con la paglia, non sbucciato. Noialtri con le scatolette,
perché ogni tanto ci davano le scatolette dei viveri di conforto, avevamo costruito i
macinini. Puoi pensare, con due scatolette messe una dentro nell'altra, bucate, avevamo
fatto i masnì, macinavamo l'orzo e ci facevamo dei panini. Macinavamo macinavamo e
cercavamo di togliere la paglia, ma ne restava sempre dentro. Il brutto, non ridere, era
poi andare al cesso perché la paglia (ride) ti pungeva, porca... Facevamo dei panini per
cavarci la fame con quelli.
(ghei: centimetri ; te barbotàet: tremavi; bordèl: grande quantità; barbos: mento;
masnì: macinino)
Il gatto
Un giorno sono andato in giro perché non avevo niente da fare, c'era ancora una casetta
libera, avvicinandomi ho visto sulla neve le impronte di un gatto. "Porca
madoi!" Mi sono detto. "Allora qui c'è qualcosa da mangiare!" E ho seguito
le impronte. Ho visto che andavano verso un angolo della casa e salivano sul solaio. Sono
salito a vedere ed il gatto era proprio là. Allora mi sono messo d'accordo coi miei soci
ed ho pensato: "Si proverà a mangiare una volta tanto della carne." Abbiamo
aspettato che il gatto tornasse, perché era scappato, e che andasse sul solaio dove aveva
la sua tana, dove probabilmente cacciava i topi. Avevamo portato un telo tenda e con
quello avevo fatto una specie di sacco. L'ho messo a chiudere il buco da dove il gatto
doveva uscire, siamo saliti molto velocemente, lui non è stato a guardare che avevamo
chiuso il buco col sacco e c'è piombato dentro. Siamo riusciti a catturarlo e in quattro
e quattr'otto lo abbiamo spelato.
Come ho fatto a ucciderlo? Ho preso il telo tenda e con due mani stringevo stringevo fino
a quando non sono riuscito a prendergli la testa e allora gli ho dato una martellata,
adesso non mi ricordo se con il manico della baionetta. Comunque l'abbiamo ucciso,
l'abbiamo spelato, messo a pezzetti nelle gavette e infilato nel forno dove è cotto nel
suo grasso. Abbiamo fatto una mangiata, senza sale, senza niente, era buonissimo, abbiamo
fatto una bella becada". Quella è stata l'unica volta che abbiamo mangiato carne
fresca. Insomma li siamo rimasti fino al 16 o al 17 di gennaio.
becada:mangiata
Nicolajewka
I russi si erano concentrati, ecco perché ci avevano messo il freno prima di Nikolajewka,
proprio per rallentare la nostra avanzata intanto che si preparavano allo scontro. Hanno
stabilito un fronte contro le truppe alpine, non doveva passare nessuno, il loro intento
era quello, non pensavano che saremmo riusciti a sfondare.
Abbiamo dormito e la mattina del 26 siamo partiti, la sveglia era alle cinque, cinque e
mezza al massimo, ed alle sei si era in marcia.
Io sempre con il mio Torto, che è quello the mi ha dato la carica. Quando non ero piu
capace di camminare mi aggrappavo alla briglia e gli dicevo: "Dai Torto, aiutami a
camminare!" Perche io gli parlavo al mio mulo, ero sempre col mio Torto. Abbiamo
raggiunto le prime linee degli alpini, siamo arrivati a Nikolajewka verso le dieci di
mattina ed i russi hanno cominciato a frenare il cammino delle truppe. Gli alpini erano
arrivati la mattina presto ed avevano gia affrontato cinque o sei combattimenti.
Scendevano, arrivavano ad un certo punto ma il fuoco nemico li obbligava a ritirarsi.
Noialtri delle Batterie dell'artiglieria saremo arrivati verso le dieci, dieci e mezza,
tutti insieme.
Per dirti, era come scendere dai Campiani, ma le collinette erano piu basse, ondulazioni,
disposte a mezzaluna davanti al paese. Siamo arrivati all'ultimo dosso, da cui si vedeva
Nikolajewka, e da lì scendevi in pianura. C'era una valletta e il paese era giù in
fondo. Di fronte c'era un altro cucuzzolo dove avevano schierato tutti i pezzi del secondo
artiglieria della Tridentina, il Gruppo Vicenza, il Gruppo Valcamonica, il Gruppo Bergamo.
Combatteva solo la Tridentina perché la Cuneense e le altre erano state separate e
distrutte prima. Noi avevamo ancora soltanto tre pezzi che sparavano, perche uno l'avevamo
perso giorni prima. Abbiamo cominciato a piazzare i pezzi ed a sparare alternativamente,
un po' noi e un po' le altre Batterie. Sotto il fuoco degli obici andavano giù
all'attacco il quinto e il sesto alpini. Chiamavano la Compagnia - il Reggimento ha tante
Compagnie - e allora scendeva all'attacco, ad esempio, l'Edolo, oppure il Valchiese, il
Vestone, il Verona... Scendevano combattendo ma gli toccava di risalire subito, scendevano
cinquanta soldati e ne tornavano venti, tra feriti e morti lasciati nella neve.
I russi avevano pezzi anticarro, obici, mortai, mitragliatrici pesanti e i cannoni dei
carri armati. Erano armati fino ai denti, si erano appostati sulla cresta e dominavano
tutta la valletta. In più c'era una specie di torre sul lato opposto del paese ed erano
piazzati anche là in cima, dominavano tutto. C'è stato il caos perché le truppe
d'assalto non riuscivano mai a scendere, se scendevano ed occupavano due o tre case poi
gli toccava di tornare indietro. Erano talmente tanti tra partigiani e truppe
dell'esercito regolare che non si riusciva mai a sfondare ed ad andarne fuori.
Fino a quando non hanno cominciato a scarseggiare le munizioni: spara di qui, spara di 1a,
Il deposito delle munizioni non c'era più, e anche se all'inizio della ritirata ce
n'erano parecchie erano oltre dieci giorni che si continuava a sparare. Saranno state le
due o le tre del pomeriggio, eravamo sempre nel pericolo, lo sapevi di essere sempre nel
pericolo. Ero dietro, il pezzo era qui ed io ero con le munizioni dove c'era la slitta dei
mitraglieri, erano in quattro, e si parlava del più e del meno e tirano fuori una
battuta, una barzelletta, sai com'è. Ad un certo punto it tenente Villa, che sparava dal
primo pezzo, mi ha chiamato. Lui sapeva chi aveva ancora delle munizioni, il carico lo
avevamo ancora solo in tre o quattro. Avevo quattro cassette di munizioni, ogni mulo
serviva il suo pezzo, e lo sento che mi grida: "Sottini, portami le munizioni!"
io gli ho risposto: "Signor tenente, è una parola passare lì in cima!" Perché
i russi con le mitragliatrici tenevano rasato il cucuzzolo.
Ho risentito l'ordine di portargli le munizioni, parlavo con i miei commilitoni e intanto
slegavo le funicelle che tenevano legate le quattro casse di munizioni al mulo, le tenevo
tutte in mano così (fa il gesto). Dopo dieci minuti l'ho sentito gridare:
"Ostia" Sottini, portami le munizioni!" Allora ho dato uno strappo al mulo:
"Dai Torto, di corsa!" Sono riuscito a passare sopra it cucuzzolo, sono arrivato
al pezzo, ho mollato le funicelle, gli inservienti hanno preso le casse al volo e proprio
in quel momento sono arrivati quattro bombardieri. Porca madoi, saranno stati tre minuti
che avevo lasciato la slitta che una bomba ci è andata a finire sopra e tutti i
mitraglieri sono morti. Un colpo di fortuna anche lì, purtroppo solo per me. Scaricate le
munizioni ho riattraversato indenne il cucuzzolo e sono scivolato nell'avvallamento, ed
avevo la neve che mi arrivava al barbos, la neve trasportata dal vento era finita tutta
negli avvallamenti e non riuscivi più ad uscirne. Il mulo a saltoni. Continuavo a dirgli:
"Dai Torto, dai Torto!" Una scheggia di granata mi aveva portato via un pezzo di
pastrano. Ma anche lì l'ho portada fora".
In fondo alla pianura c'erano il fieno e la paglia accumulati in mezzo ai terreni in tre o
quattro paier. Molti soldati si erano già nascosti là dentro e mi sono detto: "Se
riesco a raggiungere uno di quei paier" mi posso nascondere anch'io sotto il
fieno." Sono riuscito ad uscire dalla neve ed ad arrivare al paier più vicino e
dicevo: "Dai Torto, dai Torto, dai Torto!" Tu sei libero di crederci o di non
crederci, nel cielo c'erano ancora gli aerei che giravano, ed oltre ai bombardieri erano
arrivati anche i caccia. Il mio mulo vedeva il pericolo e, con la testa, mi spingeva sotto
il pagliaio, perche vedeva il pericolo e continuava con la testa a spingermi sotto:
"Torto! (accorato) A te manca appena la parola!" (ride). Porca madoi, sono stato
là sotto fino quasi alle sette, ormai era gia notte, notte fonda perché alle quattro là
cominciava già a venir scuro. Alle sette le prime truppe hanno cominciato a muoversi
perche radio scarpa aveva cominciato ad avvertire the avevano sfondato, erano riusciti ad
arrivare a Nikolajewka. "Sono già giù le nostre truppe! ". Potà, ma prima di
incanalarsi... la strada era solo una, non potevi spostarti ne da una parte ne dall'altra
per scendere più in fretta. Quando il fronte è aperto tutti vorrebbero correre per
essere fra i primi a portarsi avanti ed uscire dal pericolo. Io sono partito che saranno
state le otto di sera.
No, la mia Squadra era un po' da una parte un po' dall'altra, ci siamo ritrovati dopo.
Sono passato sotto il famoso ponte della ferrovia, dove c'era il generale Reverberi in
cima ad un carro armato, ma prima devo dirti un'altra cosa.
Quando sono stato là per portare le munizioni al pezzo, gli alpini non riuscivano a
scendere in paese, e cominciavano a scarseggiare le munizioni. Il Reverberi cosa ha fatto?
"Qui - si è detto - se viene scuro non riesco più sfondare, non scendiamo più.
" Allora è passato in mezzo a tutta la truppa alpina ed ha organizzato, mettiamo che
il paese fosse grande cosi, due schieramenti di soldati laterali ed uno centrale. Proprio
la massa di tutti i soldati, tutti gli alpini e tutti i mezzi che c'erano, (si infervora),
ecco, una specie di tenaglia, anche senza armi, senza niente, concentrando le truppe.
"Questa è l'ultima salvezza: o in Siberia o in Italia!" Ha detto il Reverberi.
Quando si sono concentrate queste tre masse di soldati ha gridato: "Italiani, avanti
per l'Italia!" (grida). Si sono mosse le tre colonne in quel sistema, e i russi hanno
preso paura ed hanno cominciato a ritirarsi! Siamo riusciti a sfondare in quel sistema.
Ma erano state occupate subito solo le prime case, non tutto il paese. Il ponte della
ferrovia era il punto strategico perché da lì dovevano passare i carri armati, l'unico
passo per loro era quel sottopassaggio, trecento metri prima del paese, era l'unico
accesso per quelli che andavano a combattere. Hanno cominciato a prendere le prime case,
ma il paese era grosso, i russi si erano ritirati e fortificati dietro al paese. Fino a
quando gli alpini sono riusciti a sfondare ed a prenderlo proprio tutto.
Si, avevo visto il generale Reverberi in cima al carro armato, era l'unico panzer che
avevamo perché inizialmente erano tre, ma strada facendo ne avevamo persi due. Era
l'unico che ci era rimasto.
Che impressione mi ha fatto? (ride) era un grà de peer" il Reverberi, ma per la
ritirata di Russia è stato grande. Io l'ho visto soltanto lì, perché noi il contatto
con i comandanti non ce l'avevamo. L'ho visto in cima a quel carro armato e l'ho rivisto
una seconda volta quando abbiamo fatto l'adunata degli alpini, qui a Brescia. Era in piedi
e parlava con gli alpini, era affabile, si dava da fare. Quando aveva organizzato
l'assalto delle tre colonne quelle parole le aveva dette ai comandanti, li aveva radunati
tutti, i comandanti del secondo. del quinto e del sesto e ha dato l'ordine di scendere.
Erano tutti pronti, sono partiti con lui davanti, sopra il carro armato.
Italieni Badoglio
E' arrivato il brutto momento che mi sono scontrato forte con Frau Bilda, è stato quando
l'ho mandata a quel paese. Sarà stato giugno ed era arrivata la siccità, era arrivato un
gran calore. Là cavano la torba e rimanevano delle vasche dove si facevano abbeverare le
bestie. Essendoci la siccità il livello dell'acqua era calato e in alcune di quelle buche
non potevi piu entrare con le vacche, altrimenti sarebbero sprofondate nel fango e non
sarebbero più uscite.
Prima c'era l'andatura, chiamiamola così, un ripiano da dove potevi passare per portare
le bestie all'abbeverata, ma l'acqua era calata oltre il solito livello, c'era molto fango
e si sprofondava. La profondità arrivava a tre o quattro metri, era tutta torba umida che
facevano seccare per riscaldare in inverno.
Una sera, insomma, la padrona mi chiama. Era una di quelle persone che hanno il vizio, ci
sono anche qui da noi, di parlare veloci veloci, e non si capisce un tubo quando parlano
così. Continuava a parlare e poteva invece dirmelo in tre parole: io dovevo andare da lei
la mattina alle nove per prendere l'acqua col secchio e riempire gli abbeveratoi, perché
l'acqua delle vasche era troppo profonda e pericolosa. Lei avrebbe dovuto dirmi:
"Invece di andare alle dieci vai alle otto e mezza, le nove, così le bestie bevono e
il sole non è troppo caldo." Invece ha continuato a parlare per mezz'ora, e io
continuavo a dirle "Ya, ya, ya." Ma non avevo capivo un tubo. Beh, la mattina
vado coi miei secchi a spalla, al mio solito orario.
Quando arrivo dove c'erano i recinti di legno per il passaggio delle bestie vedo quattro
vacche a cavallo delle stanghe. Ho sentito frau Bilda dietro di me, portava sempre il
bastone con la punta di ferro, l'alpistok to conosci? Sento vram vram, "Potà, c'è
quì frau Bilda!" Nell'accorgermi the l'avevo alle spalle anche lei vede le quattro
vacche mezzo di dentro e mezzo di fuori dalla staccionata.
Le ho subito detto: "Adesso le tiro fuori, tolgo la stanga e le rimando nel
recinto!"
Ha cominciato a gridare, a insultarmi, a dirmi parolacce. Potà! Le parole che capivo
erano tutte delle offese, mi diceva: "Italieni farik!"
"Tu farik, tu matta!" "Italieni saiser!"
"Tu saiser, tu merda!"
Me ne ha dette di ogni e quello che capivo glielo ridicevo: "No italiani, tu farik,
tu merda! tu questo! tu quello!"
Quando non sapeva più cosa dirmi mi ha detto: "Italieni Badoglio!" E io le ho
detto: (fà un gestaccio) "Toh, ciàpel che Badoglio, ciàpel che el tò
Badoglio!" Mi ha detto allora: "Undrufficier!"
"Lo dici al sottufficiale? Meglio! Meglio! Meglio!" Mi ero proprio incasat.
Dopo mezz'ora, un'oretta al massimo è arrivato il sottufficiale. Quello era proprio
buono, un sergente. Avevo le lacrime agli occhi. "Chissà cosa gli avra detto?"
Lo sai com'è, al momento della rabbia ti sfoghi, però dopo ci pensi su, e io ero un po'
impulsivo. Viene da me e mi fa: "Cosa hai fatto?"
"Niente! E matta! Mi ha insultato e mi ha detto le piu brutte parole. Perché?"
Gli ho spiegato quello che lei mi aveva detto e quello che avrei dovuto fare. "Sara
mica colpa mia se ha parlato per un'ora e se non ho capito niente... se si spiegava
meglio... "
Noi ci si poteva capire perché frau Bilda parlava anche qualche parola di italiano,
avremmo potuto capirci.
"Ieri lei ha parlato per mezz'ora, ma io non avevo capito un tubo perché parlava
troppo in fretta: io avrei dovuto anticipare di un'ora ed invece delle dieci arrivare alle
nove. Era tutto lì. Lei mi ha dato gli insulti piu brutti, parolacce che capivo e le ho
risposto che era lei, poi le ho fatto un gestaccio quando mi ha detto "Italieni
Badoglio!" e le ho sputato addosso."
E' stato a parlare con me un'oretta, poi è andato dalla frau e, quando è tornato, mi ha
regalato mezzo pacchetto di sigarette e mi ha detto: "Lois, kalma!"
Da quel momento frau Bilda se l'è presa con me, ma mi ha tenuto lo stesso, non mi avrebbe
mai mollato. Ci eravamo scornati ma io ero uno che aveva voglia di lavorare ed ho sempre
fatto il mio dovere. Perché altrimenti sarebbe tornata a prendermi al campo?
Perché il vecchio le diceva: "Guarda che Luigi è uno che in stalla lavora, che sa
fare il suo mestiere." Io ho continuato ad uscire in campagna a fare il mio lavoro
fino a quando, d'inverno, le vacche sono tornate in stalla, ed ho ripreso il mio tran
tran.
(un tubo:niente; incasat:incazzato; toh, ciàpel che el tò Badoglio: prendilo qui il tuo
Badoglio, sottinteso "nel culo")
Italieni a kasa!
La mia cassa l'avevo lasciata là, prima della mietitura avevo distribuito ai miei
commilitoni la roba da mangiare, loro non ne avevamo abbastanza e io invece potevo sempre
procurarmene dell'altra. Mi ero tenuto il pane duro e tre o quattro vasetti di quel
concentrato da spalmare sul pane. Il resto: uova, farina, carne affumicata, lo avevo dato
a loro.
Con il bagaglio pronto sono andato a presentarmi dal mio maresciallo: "Sono qui, Sono
arrivato." "Guarda che domani si parte - mi ha detto - hai preso tutta la tua
roba?" "Questa è la mia roba e questa è la scorta di pane secco per quando
saremo in tradotta."
Siamo partiti e in tre o quattro giorni siamo arrivati a Berlino, dove siamo stati fermi
altri tre giorni. Viaggiavamo come una tradotta di materiale bellico, su carri merci, una
cinquantina per vagone. Il movimento della tradotta non era continuo, doveva dare
precedenza alle truppe fresche dirette al fronte; i treni carichi di materiale bellico
passavano per primi: le rotaie russe hanno uno scartamento piu grande del nostro e c'era
un binario solo da percorrere in una direzione o in quella opposta. Si camminava quando il
tratto di binario era libero. A Berlino eravamo fermi in una stazione proprio sotto la
porta di Brandeburgo.
C'erano anche le tradotte dei civili russi che i soldati erano andati a liberare, volenti
o nolenti, nell'interno della Germania. Per tornare in Italia noi non avevamo bisogno di
sentinelle, i russi che tornavano a casa, invece, ogni tre o quattro vagoni avevano una
guardia. C'erano delle ragazze russe, che erano state prese alla svelta e portate via dai
soldati, che lasciavano l'indirizzo a noi italiani. A uno di Brescia, a due di Verona, per
vedere se potevano spedirgli qualcosa. Loro non potevano scendere dal treno.
Quando i nostri superiori sono andati a reclamare per il ritardo della nostra tradotta è
arrivato subito l'ordine di partire. I russi non ne sapevano niente di una tradotta
italiana ferma alla stazione di Berlino. Ci hanno fatto partire ed abbiamo viaggiato un
paio di giorni, facevamo quaranta o cinquanta kilometri al giorno.
Siamo arrivati al confine tra russi e americani. Quando siamo passati nelle mani degli
americani è stata una gioia. Poi non ci siamo più fermati.
Da mangiare ce lo davano quando capitava, non sempre. Se il treno passava vicino a certi
comandi te ne davano, altrimenti pativi la fame. Io sono stato bene perché avevo con me
molto pane duro, che è venuto buono, ma tanti non ne avevano. Nella città nella quale
c'è stato lo scambio tra i russi e gli americani, * * *, sono state tolte dal treno le
bandiere rosse con la stella, nel passare la frontiera hanno tolto la bandiera russa e
hanno messo quella americana (ride). Ci eravamo fermati col treno affiancati ad un treno
americano pieno di scatole di viveri. Siccome c'era poco spazio tra un vagone e l'altro
sono sceso, mi sono sporto ed ho afferrato due scatole di cibo grandi cosi, che
contenevano cento scatolette di cibo, pesce, carne e (ride) le ho distribuite a tutto il
vagone. Cosi abbiamo mangiato tutti.
Meno male the ha offerto lui!
Abbiamo ricominciato a viaggiate e siamo arrivati al Brennero. Dovevano ancora pagarci una
ventina di giorni di decade arretrata, io avevo preso seicento lire, il biglietto da
cinquecento lire (non so se l'hai visto ancora, quello largo, grande), L'avevo piegato ben
bene ed infilato nella fodera della giubba militare, e mi dicevo: "Quando arrivo a
casa voglio prendere una brutta bala! Ho cinquecento lire intere! Da stare tre giorni nel
letto!"
Al Brennero ci siamo fermati ed avevamo mezz'ora di tempo prima della coincidenza; eravamo
in sette o otto e c'era con noi proprio uno di Vipiteno, un saltimbanco che lavorava nei
circhi, mezzo matto, ma simpatico. Siamo entrati nella prima osteria che abbiamo trovato
ed abbiamo ordinato un litro di vino. "Pago io!" "No, pago io!" Ma lui
ha detto: "Siete a casa mia ed allora pago io." Non pensavamo alla svalutazione
che c'era stata nel frattempo. Va a pagare e chiede quant'è. "Milleduecento
lire." (ride). Casso, milleduecento lire per un litro di vino! Quando eravamo partiti
costava due o tre lire...
Ho pensato: "Meno male che ha offerto lui..."
A casa, tra le lacrime e i sorrisi
Siamo ripartiti verso mezzogiorno e non ci siamo più fermati. Siamo arrivati a Verona e
la tradotta doveva entrare al Distretto dove facevano il foglio-notizie per i rimpatriati.
Io e un altro di Castelmella, ancora prima di entrare in stazione, ci siamo detti:
"Scendiamo, ci portiamo sulla strada per Brescia e saltiamo sul primo camion che va
verso casa." E così
abbiamo fatto. Abbiamo attraversato Verona a piedi, ci siamo fermati sulla statale ed
abbiamo trovato un camion che era proprio diretto a Brescia. Allora di mezzi di trasporto
non ce n'erano tanti. Le persone salivano sui camion ed abbiamo domandato se per piacere
caricava anche noi.
Siamo arrivati a Brescia che saranno state le quattro del pomeriggio, abbiamo ringraziato
il camionista senza dargliene neanche uno, ed abbiamo trovato subito la corsetta del tram
che andava verso Leno. L'abbiamo preso e siamo scesi alle Fornaci.
Nel giro di cinque minuti era girata la voce che erano tornati i prigionieri di guerra,
non eravamo ancora seduti che gia stavano tagliando il salame, il pane, avevano aperto una
bottiglia di vino. C'erano tutti quelli di Castelmella, dicevano che era arrivato Cecchi
Baronio, il mio commilitone, con un altro soldato, io.
I miei genitori erano andati lì ad abitare da poco, e a me non mi conosceva nessuno. Fra
le persone che sono venute a vederci c'erano anche le mie sorelle; erano due anni che non
ci vedevamo, ero partito nel giugno del '43 e sono tornato nell'ottobre del '45. Erano
passati due anni e rotti. E' arrivata la sorella che ha sei anni meno di me, l'avevo
lasciata che era una bambina, mi abbraccia e mi saluta, era diventata una signorina e io
le ho detto: "Buonasera!" Non l'avevo riconosciuta. Ma uno che era lì mi ha
detto: "Luigi, ma è tua sorella!" (ride). Non la riconoscevo, era diventata
robusta, più grande, una signorina.
Immagina, tra lacrime e sorrisi sono riuscito finalmente ad andare a casa dai miei
genitori, ed è stata una grande gioia, sapendo che era finita, che ero riuscito a tornare
a casa ed a portare a casa la pelle. Abbracci, baci, una grande festa.
bala: grande ciucca, colossale ubriacatura
a cura di Daniele Bonetti
Pietro Chegai Editore Firenze 2002 www.chegaieditore.it
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