AUTORI COMICI E UMORISTICI


 

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In questa sezione non dovremmo avere carenza di argomenti, infatti non faremo altro che radunare alcuni scrittori o artisti vari che nella loro vita abbiano in un modo o nell'altro contribuito a dare man forte alle varie teorie e pratiche umoristiche. Non dovete peraltro stupirvi se tra i vari artefici di queste pagine troverete autori che non vi sembrano assolutamente degli umoristi, infatti sta proprio qui il trucco, ovvero la tecnica surrealista di stravolgere un po' i canoni dell'interpretazione corrente e delle ordinarie convenzioni sociali e letterarie!

Il senso dell'umorismo come diceva appunto il mio maestro George Mikes è come la bellezza, è negli occhi di chi guarda, e pertanto essendo un canone estetico relativamente soggettivo può anche mutare parecchio. Inoltre molto dipende dal contesto, dall'epoca e soprattutto dai lettori stessi, infatti più che gli autori sono i riceventi che decodificando i vari messaggi possono trovarli di volta in volta più o meno divertenti e più o meno ridicoli a seconda della loro cultura, della loro concezione del mondo, della loro disposizione d'animo e naturalmente dell'epoca in cui vivono.

Ecco spiegato perché ai nostri giorni è molto facile ridere dei metodi curativi suggeriti da Ippocrate nei suoi aforismi, mentre non ci sogneremmo mai di ridere di una sofisticata e moderna tecnica di intervento chirurgico. Ecco anche perché molti spiriti liberi sorridono e si divertono quando ascoltano antiche tradizioni o superstizioni popolari o trovano estremamente nonsensical alcune teorie religiose proposte dagli inviati di turno delle ex divinità dell'olimpo che dispensano consigli e rimedi a destra e a manca e ancora si dividono allegramente l'intero pianeta, proprio a scapito di tutta quella gente che non trova purtroppo niente di umoristico in quello che via via vanno propinando!

In ogni caso, intanto che allestiamo la pagina, potete sempre fare voi delle ricerche sfruttando il nostro motore di ricerca che vi porterà direttamente all'interno di Internetbookshop Italia, dove potrete eventualmente anche acquistare i libri che avrete scovato sulla comicità, sul'umorismo, sul riso, sul sorriso, sull'ironia, sulla satira, o su qualsiasi altra tematica legata all'argomento. Per il momento comunque inseriamo in questa sezione alcuni testi tratti dal libro di André Breton sull'Umorismo Nero proprio a conferma che la nostra impostazione, anche nel trattare il fenomeno umoristico, non può che essere anche questa volta di natura surrealista. Inoltre vi rammento di non perdere la significativa tesi di Carl William Brown su George Mikes e L'umorismo che trovate in linea in questo sito e che vi potrà far capire molte cose sul mistero del riso e sulla filosofia del sorriso. Per chi poi volesse capire la vera natura del nostro pensiero che sta alla base della nostra teoria della letteratura non dovrà far altro che aspettare la stesura e la pubblicazione del nostro libro dal titolo Aforismi Umoristici, dove nel saggio introduttivo verranno svelati tutti gli arcani del caso e della necessità. Bye, Bye and see you soon. Carl William Brown and the Daimon Club.

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Pare che gli occhi di Swift fossero così cangianti da passare dal celeste al nero, dal candido al terribile. Questa instabilità si accorda a meraviglia con il suo modo di sentire: "Ho sempre detestato le nazioni, le professioni, le comunità, non posso amare che degli individui. Aborro e odio soprattutto quell'animale che porta il nome di uomo, mentre amo con tutto il mio cuore Giovanni, Pietro, Tommaso, ecc." Disprezza più di ogni altro il genere umano, e tuttavia è assillato da un bisogno frenetico di giustizia...."Io sono come quell'albero, comincerò a morire dalla cima". Come se si fosse augurato di giungere a "quel livello di felicità sublime che si chiama facoltà di essere ben ingannato, alla condizione placida e serena che consiste nell'essere un pazzo tra i furfanti", nel 1736 si vede precipitare in un intorbidimento intellettuale, di cui potrà osservare i progressi, con atroce lucidità, durante dieci anni. Lascia in eredità diecimila sterline per la creazione di un ospedale per alienati.
André Breton
ISTRUZIONI PER I DOMESTICI

I padroni e le padrone di solito brontolano con i servitori perché non si chiudono la porta alle spalle; ma né i padroni né le signore considerano che quelle porte devono essere aperte prima di poter essere chiuse, e che la fatica di aprirle e chiuderle è doppia; perciò la soluzione migliore, la piú rapida e la piú spicciativa è di non fare nessuna delle due cose; ma, se non vi dànno pace al punto di
non potervene scordare, allora datele, alla porta, una tale sbatacchiata nell'uscire da far tremare tutta la stanza e far crepitare tutto quello che c'è dentro, cosí rammenterete al vostro padroné e alla signora che vi attenete ai loro comandi.
Se vi accorgete che state entrando nelle grazie del vostro padrone o della signora, cogliete qualche occasione per dar loro molto educatamente il preavviso. E quando ve ne chiederanno la ragione, e sembreranno dispiaciuti di perdervi, rispondete che preferireste stare con loro piuttosto che con qualunque altro padrone, ma che non si può far colpa a un povero servitore se cerca di migliorare la propria condizione; che il servizio non è una eredità; che avete un compito faticoso mentre il salario è molto modesto. Se ha un briciolo di generosità, il padrone vi aumenterà la paga di cinque o dieci scellini al trimestre piuttosto che lasciarvi andate; ma, se non ne cavate niente e non avete intenzione di andarvene, fategli dire da qualche altro servitore che lui vi ha persuaso a restare.
Qualunque bocconcino riusciate a sgraffignare di giorno, tenetevelo da parte per far baldoria con i vostri colleghi la sera, e invitate anche il maggiordomo, a patto che tiri fuori da bere.
Scrivete il vostro nome e quello della vostra amorosa con fumo di candela sul soffitto della cucina o della stanza da pranzo della servitú per dimostrare che siete istruito.
Se siete un giovanotto ben portante, tutte le volte che bisbigliate qualcosa alla vostra padrona a tavola, sfioratele la guancia col naso, o, se avete l'alito sano, respiratele bene in faccia; quest'abitudine so che ha prodotto eccellenti risultati in alcune famiglie.
Non arrivate mai finché non siete stati chiamati tre o quattro volte; perché nessuno, salvo i cani, viene al primo fischio; quando il padrone grida "Chi c'è di là", nessun servitore è tenuto a presentarsi; perché nessuno risponde al nome di " Chi c'è di là ".

Alcune signore delicate che hanno paura di raffreddarsi, avendo osservato che al pianterreno le domestiche e i servitori spesso dimenticano di chiudersi la porta dietro quando escono o quando entrano dal cortile, hanno trovato che si può sistemare una puleggia e una corda con un grosso pezzo di piombo all'estremità, in modo che la porta si chiuda da sé e ci voglia una mano robusta per aprirla; e questa è una grossa fatica per i servitori, il cui lavoro può costringerli a entrare e uscire cinquanta volte in una mattinata. Ma l'ingegnosità può fare molto: i domestici accorti hanno scoperto infatti un rimedio efficace contro questo insopportabile disturbo, rimedio che consiste nel legare la corda alla puleggia in modo tale che il peso del piombo non serva a niente; comunque, per parte mia preferirei tenere la porta sempre aperta fermandola in basso con una pesante pietra.
I candelieri dei servitori in genere sono rotti, perché niente dura in eterno. Ma voi potete ricorrere a molti espedienti: potete infilare comodamente la candela in una bottiglia, oppure attaccarla ai pannelli della stanza mediante un pezzo di burro, metterla in un corno da polvere da sparo, in una vecchia scarpa, in un bastone spaccato, nella canna d'una pistola, oppure fissarla col suo stesso grasso su un tavolo, o cacciarla in una tazza da caffè, in un bicchiere, in un barattolo di corno, una teiera, un tovagliolo attorcigliato, un vaso di mostarda, un calamaio, un ossobuco, un pezzo di pasta; altrimenti potete fare un buco in una pagnotta di pane e ficcarcela dentro.
Quando la sera invitate in casa, a far bisboccia con voi, i servitori dei vicini, insegnategli un modo particolare di picchiettare o di grattare contro i vetri della finestra di cucina, in modo da udire voi e non il vostro padrone o la padrona, che dovete stare attenti a non disturbare o spaventare in ore cosí inopportune.
Date la colpa di tutto al cagnolino, al gatto preferito, alla scimmia, al pappagallo, alla pica, al bambino o all'ultimo servitore che è stato licenziato. Seguendo questa regola, vi scuserete senza far torto a nessuno e risparmierete al vostro padrone o alla signora il disturbo e 1'irritazione della sgridata.
Quando vi mancano gli strumenti adatti per un lavoro che state facendo, ricorrete a qualsiasi espediente vi riesca di escogitare piuttosto che lasciare l'opera incompiuta. Per esempio, se l'attizzatoio non è al suo posto o è rotto, attizzate il fuoco con le molle; se le molle non sono a portata di mano, usate la punta del soffietto, l'estremità opposta della paletta per il fuoco, oppure il manico della spazzola del caminetto, o della scopa o la canna da passeggio del vostro padrone. Se avete bisogno di carta per strinare un pollo, strappate il primo libro che vi capita a tiro. Pulitevi le scarpe, in mancanza d'uno straccio, col lembo d'una tenda, o con un tovagliolo damascato. Strappate i pizzi della livrea per farvene giarrettiere. Se il maggiordomo ha bisogno d'un vaso da notte, può in caso di necessità usare la grande coppa d'argento.
Vi sono diverse maniere di spegnere le candele, e voi dovreste conoscerle tutte. Potete strusciare il lucignolo della candela accesa contro le boiseries della stanza, e cosí la spegnete immediatamente. Potete posarla sul pavimento e pestarne col piede il lucignolo; potete tenerla capovolta finché resta soffocata dal suo stesso grasso, o schiacciarla nel bocciolo del candeliere. Potete rotearla finché non si spegne. Quando andate a letto, dopo aver fatto acqua, potete immergere la candela nell'orinale; potete sputarvi sull'indice e sul pollice e poi pizzicare il lucignolo in modo che si spenga. La cuoca può tuffare la punta della candela nel mastello della farina, lo stalliere nel corbello dell'avena, o in un fascio di fieno o in un mucchio di strame. La serva di casa può strusciare la candela su uno specchio, che nulla pulisce meglio della smoccolatura d'una candela. Ma di tutti i modi il piú spiccio e il migliore è quello di soffiarci sopra col fiato, che lascia la candela netta e piú pronta ad accendersi.
Jonathan Swift
In realtà, non esiste opera più seria, e ciò nella misura in cui, in piena società "civile", continua a pesare su di essa il tabù di una censura quasi totale. C'è voluta tutta l'intuizione dei poeti per salvare dalla notte senza fine cui l'ipocrisia la votava, l'espressione di un pensiero considerato fra tutti sovversivo, il pensiero del marchese de Sade, colui che Guillaume Apollinaire definì "lo spirito più libero che mai sia esistito"…..Liberato dopo il 9 termidoro, viene di nuovo arrestato nel 1803, per aver pubblicato un libello contro il primo console e i suoi accoliti, e trasferito come pazzo dalla prigione all'ospedale di Bicêtre, poi all'ospizio di Charenton, dove muore. È lecito scorgere la manifestazione d'un altissimo humour in quest'ultimo paragrafo del suo testamento, in contraddizione stridente con i ventisette anni passati in carcere per le sue idee, sotto tre regimi e in undici prigioni, e con il fatto di essersi appellato, con la più drammatica delle speranze, al giudizio dei posteri: "Proibisco che il mio corpo venga sezionato, qualunque pretesto possa sorgere. Domando, con la più viva insistenza, che lo si conservi quarantott'ore nella camera in cui morrò, dentro una bara di legno che verrà inchiodata solo allo spirare delle quarantott'ore anzidette, trascorse le quali detta bara sarà inchiodata: in questo lasso di tempo sarà spedito un espresso al signor Lenormand, mercante di legname, Boulevard de l'Egalité, n. 101, Versailles, per pregarlo di venire lui stesso, con un carro, a prendere il mio corpo e a trasportarlo sotto sua scorta nei boschi della mia tenuta di Malmaison, comune di Mancé, vicino a Epernon, dove voglio che venga posto senza alcuna formalità nel primo cespuglio che si trova a destra nel bosco ora detto, entrandoci dal lato del vecchio castello attraverso il grande viale che lo interseca. La mia fossa sarà scavata in questo cespuglio dal fattore della Malmaison, sotto l'ispezione del signor Lenormand, che non lascerà il mio corpo se non dopo averlo posto in detta fossa: potrà farsi accompagnare a questa cerimonia, se lo vorrà, da quei miei parenti o amici che, senza alcun fronzolo, avran voluto darmi quest'ultima prova di attaccamento. Una volta ricoperta la fossa, vi si semineranno sopra delle ghiande, affinché in seguito, quando il terreno di detta fossa sarà di nuovo erboso e il cespuglio spesso com'era prima, le tracce della mia tomba scompaiano dalla superficie della terra, come io mi auguro che la mia memoria scompaia dalla mente degli uomini. "Fatto a Charenton-Saint-Maurice, sano di mente e di corpo, il 30 gennaio 1806." Firmato: D. A. F. Sade
"Sade - dice Paul Eluard - ha voluto ridare all'uomo moderno la forza dei suoi istinti primitivi, ha voluto liberare l'immaginazione amorosa dai suoi propri oggetti. Ha creduto che da ciò, e da ciò soltanto, possa nascere la vera eguaglianza. Poiché la visrtù porta in sé stessa la sua felicità, egli s'è sforzato, in nome di tutto ciò che soffre, di abbassarla e di umiliarla, di imporle la legge suprema della sventura, contro ogni illusione, contro ogni menzogna, perché possa aiutare coloro che essa condanna a costruire sulla terra un mondo alla misura immensa dell'uomo.
André Breton
Dice Baudelaire che De Quincey è essenzialmente digressivo; l'espressione humorist gli si addice meglio che a chiunque altro; in un punto della sua opera paragona il suo pensiero a un tirso, nudo bastone che trae fisionomia e grazia dal groviglio di foglie che lo riveste. Nelle sue famose memorie, raccolte sotto il titolo L'assassinio considerato come una delle belle arti, si sforza di afferrare il delitto non più, come dice egli stesso, "per il suo manico morale" ma in modo extrasensibile, tutto intellettuale, e di considerarlo unicamente in funzione delle doti più o meno notevoli che mette in gioco. Facendo astrazione dall'orrore fin troppo convenzionale che suscita, l'assassinio, secondo De Quincey, richiede una trattazione estetica e un apprezzamento qualitativo come un'opera plastica o un caso clinico. Diventando così oggetto di pura speculazione, avrà valore nella misura in cui, prima di tutto, appaga determinate esigenze: mistero, indeterminatezza dei moventi, difficoltà superate, grandezza e smalto dei risultati.
"Il lettore - dice in un altro punto De Quincey - penserà forse che volgio ridere, ma io sono da tempo abituato a scherzare nel dolore".
Poche esistenze furono cosí patetiche come la sua, poche vicende cosí crudeli e meravigliose. Meno che diciassettenne fugge dalla scuola di provincia dove vogliono costringerlo i suoi tutori: vive di espedienti, girovaga per il Galles, nutrendosi di more e di bacche selvatiche; giunge tuttavia a Londra, dove trova asilo in una grande casa abbandonata, rifugio nelle ore dei pasti di un uomo d'affari dal viso di faina, e di una timida ragazzina di dieci anni che vi abita giorno e notte facendo da serva a questo enigmatico personaggio. Il suo ospite gli lascia per pranzo qualche crosta di pane, e la ragazzina dorme stringendosi a lui sul nudo pavimento. Nel corso delle sue peregrinazioni per Londra, il giovane De Quincey, che si fa un principio filosofico di parlare familiarmente con ogni essere umano che incontra, uomo, donna o bambino, si innamora platonicamente di una prostituta di sedici anni, Anna, adorabile creatura tenera e innocente. Baudelaire ha sognato di strappare "una penna dalle ali di un angelo" per dipingere il loro legame insieme di povertà e di amore. " La povera Anna, - racconta Marcel Schwob, - si precipitò verso Thomas De Quincey... barcollante e quasi svenuto nella Oxford Street, sotto i grandi lampioni accesi. Gli occhi umidi, accostò alle sue labbra un bicchiere di vino dolce, lo abbracciò e lo accarezzò. Poi scomparve nella notte. Forse mori poco dopo. Dice De Quincey che tossiva, l'ultima volta che la vide. Forse vagava ancora per le strade: ma per quanto si accanisse a cercarla, per quanto sfidasse il riso di coloro cui si rivolgeva, Anna fu persa per sempre. Piú tardi, quando ebbe una casa calda, pensò sovente con le lacrime agli occhi che la povera Anna avrebbe dovuto vivere là, vicino a luì; mentre se l'immaginava ammalata o moribonda, disperata, nell'orrore di un b... di Londra, lei che aveva portato via, con sé, tutto l'amore e la pietà della sua anima ".
Perduta per sempre? No: dato che, almeno, essa ritornò diciassette anni dopo a popolare i suoi sogni di mangiatore d'oppio (cominciò soltanto nel 1812 ad usare la droga per vincere le sofferenze lasciategli dalla fame troppo a lungo patita). La sua luminosa apparizione placa ancora una volta le angosce della perdizione totale che sono in De Quincey il terribile rovescio della "piú straordinaria, complessa e splendida visione". Nessuno piú di De Quincey mostrò tanta profonda compassione per la miseria umana. Il suo senso di fraternità universale lo spinge nel 1819 a entusiasmarsi alla lettura dei Principi di economia politica di Ricardo e a sforzarsi di contribuire allo sviluppo di quella nuova scienza. (Prolegomeni per ogni sistema futuro di economia politica). Conseguenza di questa stessa compassione fu il suo assoluto disprezzo per ogni fama consolidata: "In generale, i pochi individui che in questo mondo eccitarono il mio disgusto, furono persone abbienti e di buona reputazione. I bricconi che ho conosciuto, e non son pochi, li ricordo invece tutti, senza eccezione, con piacere e con affetto".
André Breton
L'ASSASSINIO COME UNA DELLE BELLE ARTI

Ma è giunto il momento di spendere qualche parola sui principi dell'assassinio, non già per dirigere la vostra pratica, ma il vostro modo di giudicare. Le vecchierelle, e la folla in genere dei lettori di giornali, si accontentano di tutto, purché ci sia abbastanza sangue. - Parliamo dunque, prima di tutto, del tipo di persone meglio adatte agli scopi dell'assassino; secondariamente del luogo dove agire; terzo, del tempo in cui, e di altre circostanze di minor conto.
Quanto alla persona, mi par evidente che debba essere un uomo dabbene, perché, se no, potrebbe anche lui - tutto è possibile! - star pensando a compiere un assassinio proprio in quel momento; e zuffe simili, in cui "un diamante taglia un diamante", per quanto abbastanza divertenti quando non ci sia niente di meglio in vista, non sono comunque quel che un critico può permettersi di chiamare degli assassinii. Potrei citare delle persone (non facciamo nomi) che sono state trucidate da altre in un vicolo oscuro: e fin qui tutto può parere abbastanza corretto; ma, approfondendo la questione, il pubblico si è avvisto che anche la vittima stava progettando, nello stesso istante, di derubare almeno almeno il proprio assassino, - e forse di ucciderlo, se gliene fosse bastata la forza. Ogniqualvolta le cose stanno in questi termini, o tali si suppongono, addio effetti genuini dell'arte.
Infatti lo scopo finale dell'assassinio, dal punto di vista delle arti belle, è precisamente il medesimo di quello della tragedia nella definizione di Aristotile: "purificare gli animi per mezzo della pietà e del terrorre". Ora, terrore può esserci, ma come può esserci pietà per una tigre sbranata dia un'altra tigre?
È ovvio del pari che la persona scelta non dovrebb'essere un personaggio pubblico. Nessun artista di giudizio, ad esempio, avrebbe tentato di assassinare Abraham Newland. Infatti il caso era questo: tutti avevano tanto letto di Abraham Newland, e tanti pochi l'avevano veduto, che, per la maggioranza, egli era una pura idea astratta. Mi ricordo che una volta, per aver detto incidentalmente che avevo mangiato in un caffè con Abraham Newland, tutti mi guardarono con sprezzo, come se avessi finto d'aver giocato a biliardo con Prete Gianni o di avere avuto una questione d'onore col papa.
A proposito: il papa sarebbe un individuo pochissimo indicato per un assassinio; egli possiede, come padre della cristianità, una tale ubiquità spirituale, e, come il cuculo, è così spesso udito e in pari tempo mai visto, da farmi sospettare che infinite persone stimino un'idea astratta anche lui. Quando invece un uomo pubblico ha l'abitudine di dar pranzi "con tutte le primizie della stagione", ecco che il caso è diverso: ciascuno è ben certo ch'egli non sia un'idea astratta, e quindi non ci può esser scorrettezza nell'ucciderlo. Soltanto che il suo assassinio rientrerà nella classe degli assassinii politici, di cui non ho ancora parlato.
Terzo. Il soggetto scelto deve godere buona salute, essendo assolutamente barbaro l'assassinio di un ammalato, che in genere non si trova affatto in grado di sopportarlo. In omaggio a questo stesso principio non si dovrebbe mai scegliere un sarto di piú che venticinque anni, perché, passata quell'età, diventa certamente dispeptico. O almeno, se proprio si vuol cascare lí, si dovrà reputare doveroso di uccidere, secondo la vecchia formula, un multiplo di 9: il 18, per esempio, il 27, o il 36.
E qui, in questa caritatevole sollecitudine per il bene degli ammalati, riconoscerete il consueto effetto di ogni arte bella nel raddolcire e raffinare i sentimenti. Generalmente il mondo, oh signori, è sanguinario; e tutto quel che pretende in un assassinio è un abbondante spargimento di sangue: fatene uno spreco vistoso, e gli basta. Ma il conoscitore illuminato ha gusti piú raffinati: e dall'arte nostra - come da tutte le altre arti liberali, ove sien possedute a fondo - risulta un ingentilirsi dell'animo. Tanto è vero che  "Ingenuas didicisse fideliter artes, Emollit mores; nec sinit esse feros".
Un filosofo amico mio, ben noto per la sua filantropia e per la costante bontà, consiglia che il soggetto scelto abbia anche una tenera figliolanza, la cui vita dipenda per intero dal lavoro di lui; così da rendere più profondo il pathos. E, senza dubbio, si tratta di un avviso giudizioso. Ma io non insisterei troppo su questa condizione. Un perfetto buon gusto la richiede senz'altro; nondimeno, se un uomo fosse incensurabile quanto a morale ed a salute, non mi terrei con tanto scrupolo ad una restrizione che potrebbe aver l'effetto di limitare il campo d'azione dell'artista.
Thomas De Quincey
Dice Pierre François Lacenaire: " Arrivo alla morte per una cattiva strada, ci arrivo salendo una scala".
Disertore e falsario in Francia, assassino in Italia. Poi ancora ladro e assassino a Parigi, occupato senza tregua, come dice egli stesso, a " meditare sinistri progetti contro la società", Lacenaire dedica i pochi mesi che precedono l'esecuzione a redigere le sue Mémoires, révélations et poésies e si adopera in ogni modo per fare del suo decesso uno spettacolo. Le ombre delle sue vittime, dello Svizzero di Vèròna, di un vecchio compagno di cella, Chardon, e della madre di quest'ultimo, come pure l'immagine dell'esattore che cercò di derubare e uccidere, non lo distolgono neanche per un attimo dall'atteggiamento distratto e insieme divertito che conserva fino alla fine delle udienze. Per nulla preoccupato di salvarsi la testa, si concede un ultimo gioco crudele, infierendo contro i suoi complici intenti a difendersi, e si limita, per quanto lo riguarda, a cercar di fornire una giustificazione materialista dei suoi delitti. Dal punto di vista morale, sembra non esservi mai stata coscienza piú tranquilla di quella di questo bandito.
Alla vigilia della morte, prende in giro i preti che lo importunano, i frenologi e gli anatomisti impazienti di esaminare il suo caso, e confessa di essere soggetto a "qualche piccola crisi di malinconia" che lo "diverte"; la notte, attraverso le sbarre della cella, "quasi quasi faccio cucú al secondino".
Un critico, nel celebrare recentemente il centenario di una famosa opera di Balzac, ha potuto scrivere: "Nel 1836, quando il libro esce è accolto freddamente e quasi denigrato dalla stampa; la grazia del Lys dans la vallée non viene immediatamente apprezzata dal pubblico, ancora follemente infatuato di Lacenaire, l'elegante assassino in finanziera blu, poeta di corte d'assise é teorico del "diritto al crimine".
André Breton
Bisogna ricorrere ai colori di cui si valse Lewis nel Monaco per dipingere l'apparizione dello spirito infernale sotto i lineamenti di un giovane stupendo, nudo e dalle ali cremisi, con le membra raccolte nell'orbita dei diamanti sotto un alito antico di rose, la stella impressa sulla fronte e lo sguardo segnato da una selvaggia malinconia; e a quelli cui ricorse Swinburne per poter tratteggiare l'autentico aspetto del marchese di Sade: "Nel fuoco e nel frastuono dell'epopea imperiale si vede fiammeggiare questa testa folgorata, questo ampio petto solcato dai fulmini, l'uomo-fallo, profilo augusto e cinico, smorfia di gigante orrendo e sublime; nelle sue pagine maledette corre un brivido di infinito, sulle sue labbra bruciate vibra un soffio di tempestoso ideale. Avvicinatevi e sentirete palpitare in questa carcassa di sangue e di fango le arterie dell'anima universale, le vene gonfie di sangue divino. Questa cloaca è tutta impastata di cielo..." Occorre, affermiamo, ritrovare questi colori per situare nell'atmosfera, a dir poco extraletteraria, che le si addice, la figura splendente di luce nera del conte di Lautréamont. Agli occhi di certi poeti d'oggi, i Chants de Maldoror e le Poésies scintillano di una luce senza pari; sono l'espressione di una rivelazione totale che sembra andare al di là delle possibilità umane. Tutta la vita moderna, tutto ciò che in essa vi è di specifico, viene d'un tratto a sublimarsi. La sua scena scorre sui sostegni degli antichi soli, che lasciano intravvedere il pavimento di zaffiro, il lume dall'argenteo becco, alato e sorridente, che avanza sulla Senna, le membrane verdi dello spazio e i negozi di rue Vivienne, preda dei raggi cristallini che sgorgano dal centro della terra. Un occhio di pura verginità scruta e sorveglia il progredire scientifico del mondo, passa oltre il carattere scientemente utilitario di questo progredire, lo situa, con tutto il resto, nella luce stessa dell'apocalisse. "Apocalisse definitiva" quest'opera in cui si smarriscono e si esaltano i grandi impulsi istintivi a contatto d'una gabbia d'amianto in cui è rinchiuso un cuore al calor bianco. Tutti i pensieri e le azioni più audaci che si compiranno nei secoli, hanno trovato qui una formulazione preliminare nella loro legge magica. Il verbo, non piú lo stile, subisce con Lautréamont una crisi fondamentale, segna il momento di un reinizio. Ecco liquidati i limiti che costringevano i rapporti tra parola e parola, tra cosa e cosa. Un principio di perpetua mutazione si è impadronito degli oggetti come delle idee, e tende alla loro totale liberazione, implicante quella dell'uomo. A questo riguardo, il linguaggio di Lautréamont è insieme un solvente e un plasma creativo senza eguali.
A proposito di tale opera sono state impiegate, cioè riprese, parole come follia, prova per assurdo, macchina infernale: ciò dimostra soltanto che ogni volta che la critica le si è avvicinata ha dovuto presto o tardi desistere dal suo scopo. Il fatto è che, rapportata alla scala umana, quest'opera, che è il luogo stesso di tutte le interferenze mentali, costringe la sensibilità a un clima tropicale. Léon Pierre-Quint, nel suo lucidissimo studio Le comte de Lautréamont et Dieu ha tuttavia individuato alcuni dei caratteri piú cocenti di questo messaggio, che può essere ricevuto solo con guanti di fuoco: 1) poiché il "male", per Lautréamont (come per Hegel) è la forma in cui si presenta la forza motrice dello sviluppo storico, è necessario rafforzarlo nella sua ragione d'essere, e questo può essere fatto nel modo migliore solo radicandolo nei desideri proibiti, inerenti all'attività sessuale primitiva, come si manifesta in modo particolare nel sadismo; 2) l'ispirazione poetica, in Lautréamont si presenta come il risultato della rottura tra il buon senso e l'immaginazione, rottura consumata per lo più a favore di quest'ultima e ottenuta grazie all'accelerazione volontaria e vertiginosa del flusso verbale (Lautréamont parla dello "sviluppo estremamente rapido delle sue frasi: è noto che dall'organizzazione sistematica di questo modo d'espressione prende le mosse il surrealismo); 3) la rivolta di Maldotor non sarebbe in modo definitivo la Rivolta se dovesse risparmiare una forma di pensiero a spese di un'altra; è dunque necessario che, con le Poésies, essa sprofondi nel suo proprio gioco dialettico.
Il flagrante contrasto offerto, dal punto di vista morale, da queste due opere, non ha bisogno di altre spiegazioni. Ma se si va oltre e si cerca ciò che può costituire la loro unità, la loro identità dal punto di vista psicologico, si scoprirà che questa è fondata anzitutto sullo humour: le varie operazioni che derivano dall'abdicare del pensiero logico e del pensiero morale, poi dei due nuovi pensieri definiti per opposizione a questi ultimi non ammettono in definitiva altri fattori comuni: rilancio oltre l'evidenza, richiamo al caos delle similitudini piú ardite, affossamento del solenne, montaggio a rovescio, o di traverso, dei "pensieri" o massime celebri, ecc.: tutto ciò che a questo riguardo l'analisi rivela circa i procedimenti in gioco, cede in interesse alla rappresentazione infallibile che Lautréamont ci ha indotto a farci dello humour quale egli lo prospetta, dello humour che giunge con lui alla sua suprema potenza e ci sottomette fisicamente, nel modo piú totale, alla sua legge.
André Breton
I CANTI DI MALDOROR

Due pilastri, che non era difficile e ancor meno impossibile prendere per baobab, si scorgevano nella vallata, piú grandi di due spilli. Infatti, erano due torri enormi. E, benché due baobab, a prima vista, non somiglino a due spilli, e nemmeno a due torri, tuttavia, ricorrendo abilmente alle astuzie della prudenza, si può affermare, senza timore d'aver torto (invero, se quest'affermazione fosse accompagnata da una sola particella di timore, non sarebbe piú un'affermazione; per quanto un medesimo nome esprima questi due fenomeni dell'anima, che presentano caratteri abbastanza netti da non esser confusi alla leggera), che un baobab non è tanto diverso da un pilastro da vietare il paragone fra due forme architettoniche... o geometriche... o l'una e l'altra... o né l'una né l'altra... o piuttosto forme alte e massicce. Ho trovato dunque, non pretendo di dire il contrario, gli epiteti adatti ai sostantivi pilastro e baobab: si sappia bene, lo voglio, che non è senza una gioia frammista d'orgoglio ch'io lo faccio notare a coloro che, levate le palpebre, hanno preso la lodevolissima risoluzione di scorrere queste pagine, mentre la candela arde, se è notte, mentre il sole rischiara, se è giorno. E inoltre, quand'anche una potenza superiore ci ordinasse, nei termini piú chiaramente precisi, di respingere negli abissi del caos il giudizioso paragone che ognuno ha certamente potuto assaporare impunemente, anche allora, e anzi soprattutto allora, non si perda di vista questo assioma principale, le abitudini contratte con gli anni, i libri, i contatti coi propri simili, e, inerente a tutti, il carattere che si sviluppa in rapida efflorescenza, imporrebbero allo spirito umano l'irreparabile stimmata della recidiva, nell'uso criminale (criminale, se ci si mette momentaneamente e spontaneamente dal punto di vista della potenza superiore) d'una figura retorica che parecchi disprezzano, ma che molti incensano. Se il lettore trova questa frase troppo lunga, accetti le mie scuse, ma non s'aspetti bassezze da parte mia. Posso confessare le mie colpe; ma non renderle piú gravi con la viltà. I miei ragionamenti urteranno talvolta contro i sonagli della pazzia e la seria apparenza di ciò che in fin dei conti è soltanto grottesco (benché, secondo alcuni filosofi, sia abbastanza difficile distinguere il buffo dal melanconico, essendo la vita stessa un dramma comico o una commedia drammatica); e tuttavia, è lecito a chiunque uccidere mosche e anche rinoceronti, per riposarsi ogni tanto da un lavoro troppo arduo. Per uccidere mosche, ecco il modo piú sbrigativo, benché non sia il migliore: si schiacciano fra le due prime dita della mano. La maggior parte degli scrittori che hanno trattato a fondo questo argomento ha calcolato, con grande verisimiglianza, che è preferibile, in parecchi casi, tagliar loro la testa. Se qualcuno mi rimprovera di parlare di spilli, come d'un argomento radicalmente frivolo, costui noti senza preconcetti che gli effetti piú grandi spesso sono stati prodotti dalle piú piccole cagioni. E, per non scostarmi di piú dal quadro di questo foglio di carta, non è chiaro che il laborioso brano di letteratura che sto componendo dall'inizio di questa strofa, sarebbe forse meno apprezzato se prendesse lo spunto da uno spinoso problema di chimica o di patologia interna? Del resto, tutti i gusti sono naturali; e quando, all'inizio, ho paragonato i pilastri agli spilli con tanta esattezza (non pensavo certo che un giorno qualcuno sarebbe venuto a rimproverarmelo), mi sono basato sulle leggi dell'ottica, le quali hanno stabilito che, piú il raggio visivo è lontano da un oggetto, piú l'immagine si riflette diminuita nella retina.
Cosí, ciò che l'inclinazione del nostro spirito alla burla prende per una miserabile spiritosaggine, è, per lo piú, nel pensiero dell'autore, solo un'importante verità proclamata con maestà! Oh! quell'insensato filosofo che scoppiò in una risata vedendo un asino mangiare un fico! Non inventò nulla: i libri antichi hanno raccontato con i particolari piú ampi questa volontaria e vergognosa abdicazione dell'umana nobiltà. Non so ridere, io. Non ho mai potuto ridere, per quanto abbia tentato piú volte di farlo. È molto difficile imparare a ridere. O, piuttosto, credo che un senso di repugnanza nei riguardi di questa mostruosità sia il segno essenziale del mio carattere. Ebbene, io sono stato testimone di qualcosa di più straordinario, ho visto un fico mangiare un asino! Eppure, non ho riso; francamente, nessuna parte della mia bocca s'è mossa. Il bisogno di piangere s'impadroní di me con tanta forza che i miei occhi lasciarono cadere una lacrima. - Natura! Natura! - esclamai singhiozzando, - lo sparviero dilania il passero, il fico mangia l'asino, e la tenia divora l'uomo! - Senza prendere la decisione di procedere oltre, mi chiedo se ho parlato del modo in cui s'uccidono le mosche. Sí, non è vero? Ed è altrettanto vero che non avevo parlato della distruzione dei rinoceronti! Se certi amici volessero pretendere il contrario, io non darei loro retta, e mi ricorderei che la lode e la lusinga sono due grandi pietre d'inciampo. Eppure, per soddisfare il piú possibile la mia coscienza, non posso impedirmi di far notare che questa dissertazione sul rinoceronte mi porterebbe oltre le frontiere della pazienza e del sangue freddo, e, da parte sua, scoraggerebbe probabilmente (abbiamo, anzi, il coraggio di dire certamente) le generazioni presenti. Non aver parlato del rinoceronte dopo la mosca! Come scusa passabile, avrei almeno dovuto menzionare prontamente (e non l'ho fatto!) quest'omissione non premeditata, che non stupirà chi abbia studiato a fondo le contraddizioni reali e inspiegabili che risiedono nei lobi del cervello umano. Nulla è indegno per un'intelligenza grande e semplice: il più piccolo fenomeno della natura, se c'è in esso un mistero, diverrà, per il saggio, inesauribile argomento di riflessione. Se qualcuno vede un asino mangiare un fico o un fico mangiare un asino (queste due circostanze non si presentano spesso, tranne in poesia), siate sicuri che, dopo aver riflettuto due o tre minuti per sapere quale comportamento adottare, abbandonerà il sentiero della virtú e si metterà a ridere come un gallo! Fra l'altro, non è stato ancora dimostrato con esattezza che i galli aprono apposta il becco per imitare l'uomo e fare una smorfia tormentata. Chiamo smorfia nei volatili ciò che ha il medesimo nome nell'umanità! Il gallo non esce dalla sua natura, meno per incapacità che per orgoglio. Insegnate loro a leggere, e si ribellano. Un pappagallo, sicuramente, non si estasierebbe così davanti alla sua debolezza, ignara o imperdonabile! Oh! Avvilimento esecrabile! Come somigliamo a una capra quando ridiamo! La quiete della fronte è scomparsa per far posto a due enormi occhi di pesce che (non è deplorevole?)...che... che si mettono a brillare come fari! Spesso, m'accadrà d'enunciare solennemente le proposizioni piú buffonesche; io non trovo che ciò sia un motivo perentoriamente sufficiente per allargare la bocca! Non posso impedirmi di ridere, mi risponderete voi; accetto quest'assurda spiegazione, ma allora, sia un riso malinconico. Ridete, ma nello stesso tempo piangete. Se non potete piangere con gli occhi, piangete con la bocca. Se è ancora impossibile urinate; ma v'avverto che un liquido qualsiasi è, in questo caso, necessario per attenuare l'aridità che il riso, dai tratti spaccati all'indietro, si porta nei fianchi. In quanto a me, non mi lascerò sconcertare dal ridicolo chioccare e dagli originali muggiti di quelli che trovano sempre qualcosa da ridire in un carattere che non somiglia al loro, perché esso è una delle innumerevoli modificazioni intellettuali che Dio, senza scostarsi da un tipo primordiale, creò per governare le ossee carcasse. Fino ai tempi nostri, la poesia ha battuto una strada falsa; innalzandosi fino al cielo, o strisciando fino a terra, ha misconosciuto i principi della propria esistenza, ed è stata, non senza ragione, costantemente dileggiata dalla gente per bene. Non ha avuto modestia... la qualità piú bella che debba esistere in un essere imperfetto! Voglio mostrare le mie qualità, io; ma non sono abbastanza ipocrita per nascondere i miei vizi! Il riso, il male, l'orgoglio, la pazzia, faranno la loro apparizione, a volta a volta, fra la sensibilità e l'amore della giustizia, e serviranno d'esempio alla stupefazione umana; ognuno vi si riconoscerà, non quale dovrebbe essere, ma quale è. E, forse, questo semplice ideale, concepito dalla mia immaginazione, sorpasserà tuttavia tutto ciò che la poesia ha trovato finora di piú grandioso e di piú sacro. Infatti, se lascio trasparire i miei vizi in queste pagine, si crederà ancor piú alle virtú che vi faccio rifulgere, la cui aureola sarà posta da me tanto in alto che i piú grandi geni dell'avvenire testimonieranno per me una sincera gratitudine. Cosí, l'ipocrisia sarà dunque decisamente scacciata dalla mia dimora. Vi sarà, nei miei canti, un'imponente prova di potenza, se in essi disprezzo in tal modo le opinioni bell'e fatte. Egli canta solo per sé, e non per i suoi simili. Non pone la misura della sua ispirazione sulla bilancia umana. Libero come la tempesta, è venuto ad incagliarsi, un giorno, sulle spiagge indomabili della sua terribile volontà! Non teme nulla, tranne se stesso! Nei suoi combattimenti sovrannaturali, attaccherà l'uomo e il Creatore, e avrà la meglio, come quando il pesce spada affonda il suo brando nel ventre della balena: sia maledetto dai suoi figli e dalla mia mano scarna, chi persiste nel non capire gli spietati canguri del riso e gli audaci pidocchi della caricatura! ... Si scorgevano due torri enormi nella vallata; l'ho detto all'inizio. Moltiplicandole per due, il prodotto era quattro... ma non afferrai molto bene la necessità di quest'operazione aritmetica. Proseguii per la mia strada, col volto febbricitante, e di continuo esclamavo: - No... no... non afferro molto bene la necessità di quest'operazione aritmetica! - Avevo udito uno strider di catene, e gemiti dolorosi. Nessuno ritenga possibile, quando passerà in quel luogo, moltiplicare le torri per due, perché il prodotto sia quattro! Alcuni sospettano ch'io ami l'umanità come se fossi una madre e l'avessi portata nove mesi nei miei fianchi profumati; è per questo che non ripasso piú nella vallata dove s'innalzano le due unità del moltiplicando!

Prima d'entrare in argomento, trovo stupido che sia necessario (penso che tutti non saranno del mio parere, se mi sbaglio) ch'io ponga accanto a me un calamaio aperto, e qualche foglietto di carta non pesta. In tal modo, mi sarà possibile cominciare con amore, in questo sesto canto, la serie delle poesie istruttive che sono impaziente di produrre. Drammatici episodi di spietata utilità! Il nostro eroe s'accorse che, frequentando le caverne, e prendendo a rifugio i luoghi inaccessibili, trasgrediva le regole della logica, o compiva un circolo vizioso. Ché, se, da un lato, egli favoriva cosí la propria repugnanza per gli uomini, grazie al compenso della solitudine e della lontananza, e circoscriveva passivamente il proprio limitato orizzonte, fra arbusti intristiti, rovi e lambrusche, dall'altro, la sua attività non trovava piú nessun alimento per nutrire il minotauro dei suoi istinti perversi. Di conseguenza, egli decise di riavvicinarsi agli agglomerati umani, persuaso che fra tante vittime già bell'e pronte, le sue varie passioni avrebbero trovato ampiamente di che soddisfarsi. Sapeva che la polizia, scudo della civiltà, lo ricercava con perseveranza, da molti anni, e che un vero e proprio esercito d'agenti e di spie gli stava di continuo alle calcagna. Senza tuttavia riuscire a incontrarlo. Tanto la sua sbalorditiva abilità sventava, con suprema eleganza, le insidie più indiscutibili dal punto di vista del loro successo, e le disposizioni della più sapiente meditazione. Aveva una facoltà speciale per assumere forme irriconoscibili agli occhi più esperti. Travestimenti superiori, se parlo da artista! Fogge ridicole, e d'effetto realmente mediocre, quando penso alla morale. In questo, egli sfiorava quasi la genialità. Non avete notato la gracilità di un bel grillo, dai movimenti vivaci, nelle fogne parigine? Non c'è che quello: era Maldoror! Magnetizzando le capitali fiorenti con un fluido pernicioso, egli le porta a uno stato letargico in cui sono incapaci di sorvegliarsi come dovrebbero. Stato tanto piú pericoloso in quanto insospettato. Oggi è a Madrid; domani sarà a Pietroburgo; ieri, si trovava a Pechino. Ma affermare esattamente il luogo attualmente terrorizzato dalle imprese di questo poetico Rocambole, è lavoro che supera le forze possibili del mio opaco raziocinio. Quel bandito è, forse, a settecento leghe da questo paese; forse, è a un passo da voi. Non è facile far perire interamente gli uomini, e ci son leggi; ma si può, con pazienza, sterminare a una a una le formiche umanitarie. Orbene, dai giorni in cui sono nato, quando vivevo coi primi avi della nostra razza, ancora inesperto nel tendere i miei agguati; dai tempi remoti, situati al di là della storia, in cui, sottilmente metamorfosato, io devastavo, in epoche varie, le contrade del globo con le conquiste e la carneficina, e seminavo la guerra civile fra i cittadini, non ho già schiacciato sotto i miei talloni, membro per membro o collettivamente, intere generazioni, di cui non sarebbe difficile concepire (innumerevole cifra? Il passato radioso ha fatto brillanti promesse all'avvenire: le manterrà. Per ripulire le mie frasi, impiegherò per forza il metodo naturale, regredendo fino ai selvaggi, perché mi diano lezioni. Gentlemen semplici e maestosi, la loro bocca graziosa nobilita tutto ciò che cola dalle loro labbra tatuate. Ho appena provato che nulla è risibile su questo pianeta. Comico pianeta, ma splendido. Impossessandomi d'uno stile che alcuni giudicheranno ingenuo (invece è molto profondo), io me ne servirò per interpretare idee che, purtroppo, forse non sembreranno grandiose! Con ciò stesso, spogliandomi dei modi leggeri e scettici della conversazione corrente, e abbastanza prudente per non assumere pose... non so piú quel che avevo intenzione di dire, giacché non ricordo l'inizio della frase. Ma sappiate che la poesia si trova dovunque non sia il sorriso, stupidamente sarcastico, dell'uomo dalla faccia di papera. Prima di tutto, mi soffierò il naso, perché ne ho bisogno; e poi, potentemente aiutato dalla mia mano, riprenderò la penna che le mie dita avevano lasciato cadere. Come ha potuto serbare la costanza della sua neutralità, il ponte del Carrousel, quand'ha udito le grida laceranti che il sacco pareva cacciare?

LETTERA  22 maggio 1869

Egregio signore,

    Proprio ieri ho ricevuto la sua lettera che porta la data del 21maggio; era la sua. Ebbene, sappia che purtroppo non posso lasciar passare cosí l'occasione di farle le mie scuse. Ecco perché: se lei m'avesse annunciato l'altro giorno, ignaro di ciò che può accadere di spiacevole nelle circostanze in cui è posta la mia persona, che i fondi stavano esaurendosi, io mi sarei ben guardato dal toccarli; ma, certamente, avrei provato tanta gioia a non scrivere queste tre lettere quanta lei ne avrebbe provato a non leggerle. Lei ha posto in vigore il deplorevole sistema di diffidenza vagamente prescritto dalla bizzarria di mio padre; ma ha indovinato che il mio mal di testa non m'impedisce di considerare con attenzione la difficile situazione in cui l'ha posto sinora un foglio di carta da lettera giunto dall'America del Sud, il cui principale difetto era la mancanza di chiarezza; io non prendo infatti in considerazione la sgarbatezza di alcune melanconiche osservazioni, facilmente perdonabili in un vecchio, che mi sono sembrate, a prima lettura, aver avuto l'aria d'imporle, forse in avvenire, la necessità d'uscire dalla sua precisa funzione di banchiere, nei riguardi d'un signore che viene a stare nella capitale ...
... Mi scusi, egregio signore, ho una preghiera da rivolgerle: se mio padre mandasse altri fondi prima del primo settembre, epoca in cui il mio corpo farà un'apparizione dinanzi alla porta della sua banca, potrà avere la gentilezza di farmelo sapere? Del resto, io sono in casa a qualsiasi ora del giorno; ma basterebbe che lei mi scrivesse due righe, ed è probabile che allora io le riceverei quasi nel medesimo tempo della signorina che tira il cordone, oppure molto prima, se mi capita d'essere nel vestibolo ...
... E tutto ciò, ripeto, per un'insignificante quisquiglia formale! Presentare dieci unghie secche invece di cinque, che grossa faccenda: dopo averci pensato sopra a lungo, confesso che m'è sembrata colma d'una notevole quantità d'importanza zero...
Isidore Ducasse conte di Lautréamont
TESTAMENTI

A proposito di testamenti vi invito senza alcun indugio a leggere il testamento di C.W. Brown, il lascito del Daimon Club, il testamento di William Shakespeare ed infine a dare anche una sbirciatina al simpatico testo seguente. Carl William Brown

Una povera donna di Plymouth a cui non piaceva questa formalità, o che non poteva permettersi la spesa di far testamento, pensò di lasciare il poco che possedeva - indumenti e suppellettili casalinghe - alle sue amiche e ai parenti a viva voce, prima che la morte le fermasse il fiato. Così assegnò e dette subito via (di sua propria autorità), a una la sedia e la tavola, a un'altra il letto, un vecchio mantello a una terza, un berretto da notte e una sottanina a una quarta, e così via. Le vecchiette la circondavano piangendo, e poco dopo si portarono via tutto quello su cui poterono metter le mani, lasciando la loro benefattrice al suo destino. Erano appena partite che ella si riebbe inaspettatamente, e mandò a richiedere le sue cose: ma non poté riaverne neanche una, e rimase senza uno straccio addosso, e senza un'amica che la confortasse nel dolore.

La legge della primogenitura trae la sua origine dal principio qui esposto, cioè dal desiderio di perpetuare qualche tangibile e cospicua prova di ricchezza e di potere.

Sul fare testamento

Vizi e delitti possono anche passare inosservati o impuniti, ma una risata sulle nostre debolezze o un opposizione ai nostri capricci non le dimenticheremo mai.........I ladri, come ultima donazione, lasciano un'informazione ai loro amici, i dottori una medicina segreta, gli scrittori un manoscritto, i libertini una confessione della loro fede nella virtù femminile - tutti, le loro ultime rimbecillite espressioni d'egoismo e d'impertinenza. Si potrebbe supporre che, se non altro, l'avvicinarsi alla contemplazione della morte conduca gli uomini a una ragione più cosciente e alla conoscenza di sé. Invece sembra che li privi del poco d'intelligenza che avevano, e li metta ancor più in balia della caparbietà e della miopia di sempre. Certi uomini, dal momento che saranno impiccati, credono di essere pienamente autorizzati a dichiarare che esiste un futuro stato di ricompense e punizioni. Ma tutti seguono i loro capricci, o restano attaccati ai loro pregiudizi. Fanno un disperato tentativo di evadere dalla riflessione appigliandosi a una bizzarria, una fantasia qualsiasi che passa per la mente, oppure affidandosi implicitamente alle vecchie abitudini cui sono affezionati.....L'idea della proprietà, di qualche cosa in comune, non si lega bene all'amicizia, ma è invece inseparabile dalla parentela stretta. Noi dobbiamo una restituzione di proprietà dove non sentiamo l'obbligazione di un favore, e consegniamo i nostri possessi ai nostri parenti più vicini con la stessa meccanicità con la quale posiamo la nostra testa sul guanciale, e usciamo dal mondo nello stesso stato di ottuso stupore nel quale vi entrammo!
William Hazlitt

Recita così:

"Il testamento di un virtuoso. Io, Nicholas Gimcrack, sano di mente, ma molto malato nel corpo, per mezzo di questo testamento, come ultima volontà, lascio i miei beni terreni nel modo che segue:

In primis, alla mia diletta moglie, una scatola di farfalle, un cassetto di conchiglie, uno scheletro femminile, un basilisco essiccato.

Item, a mia figlia Elizabeth, la mia ricetta per la conservazione dei bruchi morti, come anche le mie preparazioni di rugiada invernale e di salamoia embrionale.

Item, alla mia figlioletta Fanny, tre uova di coccodrillo, e, alla nascita del primo figlio, se si sarà sposata col consenso della madre, un nido di colibrì.

Item, a mio fratello maggiore, per ringraziarlo dei terreni che ha intestato a mio figlio Charles, lascio la mia collezione di cavallette dell'anno scorso.

Item, a sua figlia Susan, essendo la sua unica figlia, lascio le mie erbe inglesi incollate su carta reale insieme al mio grande foglio dei cavoli indiani.

Avendo pienamente provveduto per mio nipote Isaac, cedendogli già anni fa uno scarabeo cornuto, la pelle di un serpente a sonagli, e la mummia di un re egizio, non lascio ulteriori disposizioni a suo riguardo in questo testamento.

Al mio primo figlio John, che ha parlato senza rispetto della sua sorellina, conservata sotto spirito presso di me, e si è comportato irrispettosamente nei miei confronti anche in altre occasioni, non lascio alcuna eredità, e lo escludo completamente da ogni mia proprietà personale, eccezion fatta per una sola conchiglia.

Al mio secondo figlio Charles lascio tutti i fiori, le piante, i minerali, i muschi, le conchiglie, i sassolini, i fossili, gli scarafaggi, le farfalle, i bruchi, le cavallette e i vermi non specificati sopra, così come anche tutti i mostri, sia sotto spirito che essiccati. Nomino il suddetto Charles unico e solo esecutore delle mie ultime volontà e del testamento, incaricandolo di consegnare o di far consegnare i suddetti lasciti entro lo spazio di sei mesi dal mio decesso. Con questo revoco tutti gli altri testamenti da me formalmente sottoscritti in precedenza."

Dal Tatler, VOL.IV, n° 216.

Non vorrei crepare prima di aver conosciuto i cani neri del Messico, che dormono senza sognare, le scimmie dal culo pelato, divoratrici di fiori tropicali, i ragni d'argento dal nido pieno di bolle. Non vorrei crepare senza sapere se la luna dietro la faccia di vecchia moneta abbia una parte puntata, se il sole sia freddo, se le quattro stagioni sono poi veramente quattro, senza aver provato di sfoggiare un vestito lungo i piani alberati, senza aver contemplato le bocche delle fogne. Non vorrei crepare senza conoscere la lebbra o le sette malattie che si prendono laggiù. Il buono e il cattivo non mi tormenterebbero se sapessi che ci sarà una prima volta. E troverò pure tutto ciò che conosco, tutto ciò che apprezzo e sono sicuro mi piace, il fondo verde del mare dove ballano i filamenti delle alghe sulla sabbia ondulata, la terra bruciata di giugno, la terra che si screpola, l'odore delle conifere ed i baci di colei che mi fa stravedere, la bella per essenza, il mio orsacchiotto, l'Orsola. Non vorrei crepare prima di aver consumato la sua bocca con la mia bocca, il suo corpo con le mie mani e il resto con i miei occhi. Non dico altro. Bisogna restare umili. Non vorrei crepare prima che abbiano inventato le rose eterne, la giornata di due ore, il mare in montagna, la montagna al mare, la fine del dolore, i giornali a colori, la felicità dei ragazzi e tante cose ancora che dormono nei crani degli ingegneri geniali, dei giardinieri allegri, di socievoli socialisti, di urbani urbanisti e di pensierosi pensatori. Tante cose da vedere, da vedere e da sentire, tanto tempo da aspettare, da cercare nel nero e io vedo la fine che brulica e che arriva con la sua bocca schifosa e che m'apre le braccia da rana storpia. Non vorrei crepare nossignore nossignora, prima d'aver assaporato il piacere che tormenta il gusto più intenso. Non vorrei crepare prima di aver gustato il sapere della morte.
Boris Vian

Human Nature and the Clown by Charlie Chaplin

According to his biographer , Peter Haining, Charlie Chaplin (1889-1977) "made more human beings laugh than any other actor who ever lived". Chaplin's pathos probably came from his childhood in the slums of South London. He started to work in the music halls at an early age and this gave him the chance to tour America. He decided to try the budding film industry in Hollywood and soon became a star of the silent screen. Although Chaplin initially resisted the advent of the "talkies", he successfully adapted to them. His later films, such as Modern Times and the Great Dictator, were more political. Indeed Chaplin's views were to get him into trouble during the Cold War Years. He was forced to leave the U.S. in 1952 and move to Switzerland. Chaplin's private life was also full of upheaval: of his four marriages, only the last (to Eugene O'Neill's daughter, Oona) was free from trauma. In this extract (from Charlie Chaplin: A Centenary Celebration by Peter Haining) Chaplin explains the philosophy behind his humor.

What I rely on more than anything else is bringing the public before someone who is in a ridiculous and embarassing position. Thus, the mere fact of a hat being blown away isn't funny in itself. What is, is to see its owner running after it, with his hair blown about and his coat tails flying. A man is walking along the street - that doesn't lend itself to laughter. But placed in a ridiculous and embarassing position he becomes a cause of laughter to his fellow-creatures. Every comic situation is based on that.
Comic films had immediate success because most of them showed policemen falling down drain-holes, stumbling into whitewash pails, falling out of carts and put to all kinds of botherations. Here are people who stand for the dignity of power, and often deeply imbued with this idea, being made ridiculous and getting laughed at, and the sight of their mishaps makes the public want to laugh twice as much as they would at only ordinary citizens undergoing the same trasformations. "And still funnier is the person in a ludicrous position who, in spite of it, refuses to admit that anything out of the ordinary is happening, and is obstinate in preserving his dignity. The best example is given by the drunken man who, although given away by his speech and his walk, wants to convince us that he has not touched a drop. He is much funnier than the frankly merry gentleman who shows his drunkenness as plain as day. That is why all my films rest on the idea of getting myself into awkward situations, so as to give me the chance of being desperately serious in my attempts to look like a very normal little gentleman. That is why my chief concern, no matter how painful the position I get myself into, is always to pick up my little cane at once, and put my bowler hat straight, and adjust my necktie even if I've just fallen on my head. I am so sure of this that I do not try only to get myself into these embarassing positions, but I count on putting others also into them. When I work on this principle I make every effort to economise my means. I mean by this that when one single happening can by itself arouse two separate bursts of laughter, it's better than two separate happenings doing so. In The Adventurer I succeeded in placing myself on a balcony where I have to eat an ice with a young lady. On the floor beneath I place a stout, respectable, well-dressed lady, sitting at a table. Then, while eating my ice, I let fall a spoonful which slides down my trousers, and then falls from the balcony down the lady's neck. The first laugh is caused by may own emabarassment, the second, and much the greater, comes from the arrival of the ice on the lady's neck, and the screams and dances about. One single action has been enough, but it has made two people ridiculous and set laughter free twice.
Simple as it seems, there are two traits of human nature which it throws light on. One is the pleasure taken by the public in seeing richness and luxury in distress, the other is the tendency of the public to feel in itself the same emotions as the actor on the stage or the screen. One of the facts soonest learned in the theatre is that most people are rather pleased when they see rich folk having the worst time. This comes from the fact that nine out of ten human beings are poor and inwardly jealous of the riches of the tenth. Now if I had made my ice fall down the neck of some poor housewife, there would have been a burst of sympathy instead of laughter for the woman. Moreover, the incident wouldn't have been funny, because the housewife would have no dignity to lose. To let an ice fall down a rich woman's neck is, in the public's opinion, to let her have just what she deserves.
"The idea of the cane is perhaps my best find". For it is the cane that made me quickest known, and besides, I have elaborated its uses until it has acquired a comic character of its own. Often I find it hooked round someone's leg, or catching him by the shoulder, and so raising a laugh almost without my noticing the act myself. I don't think I quite knew at first how true it is that, for millions of individuals, a walking-stick marks a man as rather a "swell". And so when I come shuffling on to the scene with my little cane and my serious air, I give the impression of an attempt at dignity, and that is exactly my object.
Obviously it is lucky for me that I am small and can get these contrasts without difficulty. Everyone knows that the persecuted little individual always has the sympathy of the crowd. Knowing this liking for the weakest, I contrive to emphasise my weakness by working my shoulders, and assuming a pitiable expression, and taking on a frightened air. All that, of course, is the art of pantomime; but if I were a little bigger I should have more trouble in winning sympathy, for I should then have been deemed capable of looking after myself. But as I am, the public, even while laughing at my appearance, really feels for me.
Alongside contrast I put surprise. I do not strive for complete surprise in the general composition of a film, but I force myself to make my personal gestures come in some surprising form. I try always to create the unexpected in a new way. If I feel convinced that the public are expecting me to proceed along the street on foot, I jump into a cab. If I want to attract someone's attention, instead of touching his shoulder or calling him, I pass my cane round his arm and draw him gently towards me. To make the public think I'm going to do what they expect, and then to do just the opposite is a pure pleasure for me. "One thing I have to guard against is exaggeration or putting too much reliance on a particular point. I could kill laughter more easily by exaggeration than in any other way, if I were too brutal in knocking someone over, if I chanced on any excess, it would spoil the film. Self-restraint is of the utmost importance….One reason why I dislike my early films is that restraint was difficult in them. One or two custard pies are amusing enough, perhaps, but when the picture depends on nothing else, it soon becomes a weariness.
Perhaps I have not always succeeded by my methods, but I do prefer a thousand times to get a laugh by an intelligent act than by anything brutal or banal. There is no mistery in making the public laugh. My whole secret is in keeping my eyes open and my wits wideawake for everything capable of being used in my films.
Why have I refused to talk in City Light? I think the question really should be: Why should I talk? And if anyone insists that explanations are called for, why not ask those who at one fell swoop cut all the silent pictures aut of the theatres. There were a lot of people who said they would like non-talkies as well as talkies. Were they listened to? Not very patiently. Talkies or nothing, they were told. When talkies were introduced a number of brave men gave ironclad reasons why talking pictures could never wholly satisfy, and I felt I had to take my place at their side. One by one they were won over. And some of them have acquitted themselves nobly with their new style pictures. But it left me rather lonely. I began to feel like the boy on the burning deck whence all but he had fled. I confess to some worry, but never to doubt. I wondered what the theatres would do about silent pictures when they would all be fitted out with "babble machines" as H.G. Wells called them. The more I discussed the question with others, the more worried I got. Until I decided to go into a conference with myself. Then not only was there no doubt, but there was no worry either. I decided I would not talk! "How did I arrive at that decision? Well, for one thing, in my mind, I ran over some of the old pictures, some of the outstanding episodes. And I tried and I tried to imagine and fit spoken words to those situations to see if I could have improved them. I knew I could not. My istinct, my whole being, is against resorting to words: and the more I thought about my past work the more was my instinct confirmed. "Only the curious would want to hear me speak, anyway. But millions want no change. Of that I am convinced. Their letters say that. And, strangely, the more talkies that come out, the more commands I get to keep silent!
Pantomime is the oldest art, anyway. The good book says that in the beginning was the word, but people understood each other by signs before they did by sounds. And, I expect, understood each other better. Someone wrote that words were given us to conceal our thoughts. He anticipated the talkies. In some of the talkies the words are evidently used to demonstrate the absence of thought.
"Words can defeat the imagination. They destroy the illusion. People can be moved more intensely by a gesture than by a voice. I am not speaking of singing, of course. Singing is divine. I am speaking of the actor who has to speak. In an appeal to the emotions, the silent clown with his pantomime can beat the throaty tragedian every time. "One of the strongest reasons why I should not talk is the fact that pantomime is the universal language. The Chinese children, the Japanese children, the Hindu, the African, all understand me. I doubt whether they would understand my Chinese or Hindustani. And if I were to be so crude as to give a thought to the commercial aspect, the whole world is still my market as long as I do not talk. "Although I accept a lot of good work is being done in the talkie business, I think there is a chance that many of the pictures will not be so brilliant that they will keep human beings in whom tradition lingers from coming to see the old mimes and mummers.

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