CAPITALISMO E STUPIDITA' Padroni da licenziare di Massimo Muchetti
Prima Premessa. Iniziamo con l'articolo di Muchetti una
raccolta di testi sulla stupidità del potere e della autorità, compreso ovviamente la
stupidità economica che porta sempre più ricchezza nelle tasche dei soliti imbecilli,
mentre impoverisce al tempo stesso l'intera nazione ed i suoi lavoratori. Come vedremo
infatti in altri testi, le assurdità del mondo del profitto sono numerose e del tutto
degne della pura follia. Si vedano ad esempio gli stipedenti astronomici che prendono
alcuni manager (che poi magari mandano di culo le loro stesse aziende), o le cifre
esorbitanti e prive di qualsiasi logica etico economica che si intascano giocatori, e divi
dello spettacolo. Ma questo ovviamente non è tutto! La logica di questi articoli comunque
si affianca ai contenuti letterari e filosofici dell'opera di Carl William Brown, che da
sempre ha sentito il dovere di denunciare e di criticare le contraddizioni delle nostre
società e la stupida vanità di chi le governa, e va ad integrare ovviamente tutti gli
altri articoli sulla stupidità nelle sue varie forme presenti in questo forum. Carl
William Brown
Seconda Premessa. L'amministratore delegato di Levis, storica casa americana
produttrice di jeans, porterà a casa, nel 2002, più di quanto archiviato dall'intera
società alla voce utili netti nel corso dell'intero anno. Da quanto emerge dai dati di
bilancio presentati dall'Authority di Borsa americana e ripresi dalla stampa, Phil
Marineau, il numero uno dell'azienda, riceverà come compenso ben 25,1 milioni di dollari
(tra stipendio e benefit): poco più della Levis che, nel suo complesso, ha chiuso
l'esercizio fiscale 2002 con utili netti pari a 25 milioni di dollari in flessione
rispetto ai 151 milioni di dollari del 2001. La busta paga di Marineau risulta così
consistente in seguito alla scelta compiuta dalla Levis di pagargli l'equivalente delle
stock-options garantitegli dalla Pepsi, quando nel 1999, lasciò la prima concorrente di
Coca Cola per arrivare in Levis. Questo non è che un piccolo esempio di come gira il
mondo del lavoro, della finanza, e dell'economia. Ed in questo forum avremo modo di
vederne delle belle a questo proposito. Ma nel frattempo il mondo della politica e degli
intellettuali cosa fa, beh, non fa un cazzo, ma di certo lo fa bene. Carl William
Brown
Terza Premessa. L'Italia cerca sempre di più di seguire al meglio il capitalismo
americano. Persi in un anno dalla grande industria 33.000 posti di lavoro. Aumenta
l'emorragia di posti di lavoro nelle grandi imprese: ad agosto sono stati persi
complessivamente 33.800 posti di lavoro rispetto allo stesso mese dello scorso anno, di
cui 26.200 nell'industria e 7.600 nei servizi. Analizzando la sola grande industria,
l'occupazione risulta ad agosto in calo dello 0,2% (-0,6% al netto della cassa
integrazione) rispetto al mese precedente e del 3,3% (-4,5% al netto della Cig) nei
confronti di agosto 2001. Nei primi otto mesi dell'anno, le variazioni medie sono
pari, rispettivamente a -3,9% e -4,5%. Quanto alle grandi imprese dei servizi, l'indice di
agosto segna un calo dello 0,2% congiunturale e dello 0,7% tendenziale, mentre la
variazione media dei primi otto mesi dell'anno è pari a -,5%. La forte perdita dei posti
di lavoro nelle grandi imprese si accompagna ad un vero e proprio boom della cassa
integrazione. (Fonti Istat)
Carl William Brown
Quarta Premessa Il crollo verticale
del bilancio dell'azienda RAI con un passivo di 190 milioni di euro (Mentre i bellimbusti
che ci lavorano guadagnano soldi a palate) ed il sorpasso di Mediaset negli ascolti
confermata dall'arrivo di Berlusconi a Palazzo Chigi. L'aumento della conflittualità
interna dell'azienda con 2500 cause di lavoro su 10.000 dipendenti, confermano che anche
in questo caso un'azienda non sta facendo crescere la nazione e la sua ricchezza, ma al
contrario sta contribuendo a dilapidarla, grazie all'aiuto di alcuni politici compiacenti.
Carl William Brown
I monopoli di Stato creano ricchezza. Tranne Del Vecchio, Berlusconi e Benetton, i big
privati ne distruggono tanta. Dovrebbero pagare, ma hanno un loro articolo 18.
Nella fiera delle vanità di fine Novecento, i grandi capitalisti - non solo i condottieri
degli anni Ottanta, ma anche i loro tardi epigoni - invadono le prime pagine dei
quotidiani e le copertine dei settimanali proponendo a modello successi professionali il
più delle volte presunti, e poi idee politiche, opzioni culturali, scelte religiose e
perfino la propria vita privata: barche, quadri, jet, guardaroba, mogli e fidanzate,
neanche fossero tanti principi di Monaco. Di tutti questi aspetti non abbiamo tenuto il
minimo conto. Non per spocchia. Sappiamo bene che hanno un loro peso, spesso decisivo,
nelle scelte dei capitalisti che sono uomini come tutti gli altri. Ma per riferirne senza
cadere nel pettegolezzo, velenoso o cortigiano che sia, bisognerebbe conoscere le persone
con la stessa profondità degli amici e saperne indagare l'anima con la sapienza e la
libertà di uno scrittore: una combinazione di circostanze e abilità così rara che non
può essere chiesta a un giornalista com'è l'autore di questo libro. Può essere preteso,
invece, un criterio di giudizio dei capitalisti verificabile e, se possibile, spassionato.
Questo criterio l'abbiamo individuato nella capacità delle imprese di generare ricchezza
per i loro azionisti o di distruggerla. Il riferimento alla ricchezza e agli azionisti non
deve trarre in inganno. La ricchezza della quale parliamo deve essere intesa come
ricchezza reale, che entra a far parte della più generale ricchezza della comunità, del
paese. Non intendiamo riferirci, invece, al profitto estemporaneo, che ogni azionista può
realizzare comprando e vendendo titoli in un breve arco di tempo con intelligenza e
fortuna. Gli azionisti dei quali parliamo, d'altra parte, non sono le persone fisiche o
giuridiche presenti nel capitale di una società in un dato momento, ma il loro insieme -
l'azionariato come capitalista collettivo - che, per definizione, è presente tanto
all'inizio quanto alla fine del periodo che andiamo ad analizzare, e continuerà a esserci
a tempo indeterminato. Questo periodo inizia nel 1985 e si conclude nel 2001. È un arco
di tempo sufficiente a compensare alti e bassi della congiuntura. Naturalmente la scelta
di partire dal 1985, e non da due anni prima o da tre dopo, è in una certa misura
arbitraria, ma non per questo priva di qualche buona ragione. Anzitutto, nel 1985 può
dirsi finalmente compiuta la prima, grande ristrutturazione industriale seguita alla
ricostruzione postbellica e al boom degli anni Sessanta. In secondo luogo, come abbiamo
già visto, il 1985 è l'anno del risveglio della Borsa che segue il letargo provocato
dalla nazionalizzazione delle aziende elettriche. In terzo e ultimo luogo, il 1985 è il
primo anno nel quale vanno a regime i fondi comuni d'investimento. [...]
Il calcolo della creazione o distruzione di ricchezza è stato
fatto sulla base di quattro punti. In primo luogo, si è stabilito il valore del capitale
rischiato dall'azionariato all'inizio del periodo preso in considerazione. In genere, si
è utilizzata la capitalizzazione di Borsa di fine 1985. [...]. In secondo luogo, abbiamo
rilevato i flussi di cassa che dall'azionariato sono andati verso le società (aumenti di
capitale) e quelli che dalle società sono tornati verso l'azionariato (dividendi). [...].
In terzo luogo, si è considerato un certo costo opportunità del capitale rischiato.
L'azionariato della Fiat piuttosto che della Pirelli, della Montedison o dell'Enel avrebbe
potuto collocare i propri denari senza alcun rischio in titoli di Stato: aver rinunciato a
tante cedole sicure rappresenta un costo nel bilancio finanziario del socio fedele. È
giusto dunque aggiungere, anno dopo anno, un costo ideale pari al rendimento medio dei
titoli di Stato. In quarto luogo, si è preso come elemento di confronto finale la
capitalizzazione di Borsa di fine 2001. Per Fininvest si è considerato il patrimonio
netto consolidato aumentato delle plusvalenze sulle partecipazioni quotate, depurate del
prelievo fiscale che si avrebbe in caso di una loro vendita reale. Messi in fila tutti
questi numeri, è abbastanza facile arrivare al dunque. [...]. Poiché non stiamo
scrivendo un giallo possiamo anticipare fin d'ora i risultati della misurazione. A creare
ricchezza è soprattutto lo Stato imprenditore con quelle sue imprese che gestiscono
servizi pubblici sulla base di una posizione di mercato dominante: dal 1985 al 1997, anno
della privatizzazione, Telecom Italia crea ricchezza per 41 mila miliardi di lire: dal
1985 al 2001 l'Eni ne crea per quasi 66 mila miliardi e l'Enel per 12 mila. Nel caso di
Finmeccanica, invece, un'azienda manifatturiera delle alte tecnologie esposta alla
concorrenza internazionale, anche lo Stato imprenditore distrugge ricchezza: dal 1991 al
2001 brucia 6.712 miliardi di lire.
Nel settore privato, creano ricchezza solo quanti hanno usato i
capitali a scopi produttivi con forte capacità di innovazione, soprattutto nelle tecniche
di distribuzione, come Luxottica con i suoi occhiali e Benetton con l'abbigliamento
casual. La prima, quotata a New York dal 1990, in 12 anni genera ricchezza per 15.562
miliardi. La seconda per non più di 724 miliardi. Assai positivo è anche il bilancio di
Fininvest, che porta al suo azionario, e cioè alla famiglia Berlusconi, un premio di
oltre 11 mila miliardi, un successo consolidato attraverso la presa monopolistica sul
mercato della pubblicità garantita dalla politica. A distruggere ricchezza in misura
sconcertante sono i grandi gruppi dell'industria privata che hanno perso il treno delle
nuove tecnologie e si sono impantanati in costosi scontri di potere a colpi di fusioni e
acquisizioni. Fiat, Olivetti, Montedison, Pirelli e la stessa Italcementi, che non è mai
uscita dal seminato, hanno consumato le risorse dell'azionariato, che nella nostra
impostazione concorrono a formare la ricchezza di una comunità, con la stessa cieca
determinazione con la quale Crono divorava i suoi figli. La sequenza della distruzione
merita di essere ricapitolata già qui in 16 anni, la Fiat "fa fuori 27.457 miliardi
di lire, Olivetti 14 mila, Montedison oltre 9 mila, Pirelli 3.800, Italcementi poco più
di mille. Vedremo più avanti come e perché è accaduto. Ma fin d'ora possiamo concludere
che, sulla base della ricchezza creata o distrutta, la Grande Occasione degli anni Novanta
è stata in larga misura sprecata dai maggiori gruppi capitalistici privati tradizionali,
mentre lo stesso non si può dire dello Stato imprenditore e di quelli che Giovanni
Agnelli ha sempre considerato "parvenu". [...] Gli economisti osservano che
questa particolare struttura proprietaria diminuisce il grado di contendibilità delle
imprese, e dunque il valore delle azioni. Ma l'effetto peggiore è un altro: proteggendo
gli assetti esistenti, le piramidi societarie danno potere e tolgono responsabilità.
Minano il principio meritocratico. E questo è grave in un paese come l'Italia che tende,
per antichi condizionamenti culturali, a preferire l'etica della convinzione - o la difesa
furbesca del proprio guicciardiniano "particolare" - sull'etica della
responsabilità. Gli Agnelli, per esempio, hanno tutto il potere in Fiat, ma, quando
vengono chiamati a metter mano al portafoglio per rilanciare l'auto, nicchiano adducendo
ragioni non prive di una loro forza formale. Dicono: noi siamo solo padroni del 50 per
cento dell'Ifi, che detiene il 53 per cento dell'Ifil; e queste due società possiedono
non più del 30 per cento della Fiat, la quale ha l'80 per cento di Fiat Auto; dunque,
cari signori che ci tirate per la giacca, andateci piano, mica possiamo danneggiare i soci
di minoranza di Fiat, Ifil e Ifi per sostenere comunque l'auto. Non sempre gli Agnelli si
sono potuti permettere un simile gioco allo scaricabarile, comodo o, forse, disperato. Per
una lunga, interminabile stagione hanno accettato di sottoporsi anch'essi al giudizio di
un'autorità amica ma esterna alla famiglia. Questa autorità è stata rappresentata da
Mediobanca. E Mediobanca in alcune occasioni ha saputo dettare condizioni pesanti al più
importante dei suoi clienti. Ma a chi rispondono i signori di Piazzetta Cuccia? Quis
custodiet custodes? Che questo sia il punto cruciale se ne sono accorti in tanti, ma il
primo ad alzare il velo con grazia maliziosa, è stato Sergio Siglienti, presidente della
Banca Commerciale; un chierico che ha avuto il coraggio civile di testimoniare in un libro
come la privatizzazione della "sua" banca venne piegata agli interessi della
solita, imprendibile consorteria. "Potrò mai essere assolto da una simile
colpa?" si è chiesto Siglienti in premessa. E poi, alludendo alle parole di
sant'Agostino: "Dovrò anch'io far la corte agli angeli? Ma se, nel mio caso, gli
angeli sono quelli che proteggono i poteri forti dovrò andare a cercarli in fondo alle
scatole cinesi o inerpicarmi per le società a cascata per poi sentirmi dire, una volta
giunto alla soglia della Holding Celeste, che lassù non si è responsabili di ciò che
accade a valle?". Alla Holding Celeste, al secolo Mediobanca, si è peraltro
affiancata nel ruolo di giudice di ultima istanza - con il trasparente intento di
sostituirla - la Banca d'Italia. Regista incontrastata del settore di credito, la banca
centrale interviene sempre più spesso nei grandi affari, sui quali può vantare
competenze giuridiche e professionali assai meno insindacabili. E così il governatore
Antonio Fazio propone se stesso come un sacerdote dell'alta finanza inafferrabile, e
irresponsabile quanto e più di Cuccia e del suo erede Maranghi.
La scissione tra potere e responsabilità patrimoniale si è
dunque allargata. Questo rende sempre più arbitraria l'attribuzione tempestiva di premi e
sanzioni. E i grandi padroni diventano così inamovibili alla stregua dei loro dipendenti
protetti dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che sancisce il diritto al
reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento senza giusta causa. [...]
L'articolo 18, tuttavia, una suggestione la offre. [...]. Nella primavera del 2002,
infatti, il governo di Silvio Berlusconi ha iniziato la revisione dell'articolo 18
affinché in Italia siano tutti licenziabili in ogni momento per il superiore bene
dell'impresa. La
reazione dei sindacati, e della Cgil in particolare, ha costretto l'esecutivo ad
annacquare molto il proprio vino. Ma ormai, almeno sul piano della discussione scientifica
tra giuslavoristi, l'articolo 18 non è più un dogma, nemmeno a sinistra. E allora
diventa interessante chiedersi se non sarebbe utile al sistema economico estendere questo
principio liberista dal lavoro al capitale, e poter così licenziare anche i padroni
quando questi si rivelino impari alle nuove sfide o quando, come i dipendenti improduttivi
oggetto degli strali della Confindustria, perseguano le proprie personali utilità,
anziché il bene superiore dell'impresa.
da "Licenziare i padroni?" di Massimo Muchetti, Feltrinelli Editore Indice Pagina
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STUPIDITA' E DNA
di James Watson lo scopritore della doppia elica "Sì, la
stupidità si può estirpare dal nostro Dna".
La stupidità è una malattia e va curata. Come? Con l'ingegneria genetica. Parola di
James Watson, lo scienziato che insieme a Francis Crick, un collega dell'università di
Cambrige, 50 anni fa scopri il Dna. Secondo James, la stupidità non è causata né da
bassi livelli di istruzione, né dall'assenza di stimoli nell'infanzia: si nasconde nel
profilo genetico dell'uomo. Per questo, grazie alle nuove tecnologie genetiche, per lo
scienziato la stpidità si può e si deve sconfiggere, rimuovendo il gene responsabile.
La notizia è stata diffusa ieri dal quotidiano britannico Times, che ha anticipato brani
di una intervista televisiva rilasciata da Watson nell'ambito di una serie di documentari
realizzati in occasione della ricorrenza dall'emittente britannica Channel 4, e che
saranno trasmessi dall'8 marzo prossimo. Lo scienziato, presidente del Cold Sping Harbour
Laboratory di New York nonché fondatore del Progetto per il genoma umano, nel corso di
un'intervista ha difeso con fermezza la cosiddetta eugenetica, ovvero l'intervento sul Dna
dell'embrione che permetterebbe - e in alcuni casi ha già permesso - di sradicare gravi
difetti o il rischio di contrarre particolari malattie. I suoi commenti, che hanno
sollevato forti polemiche, lasciano intravedere un mondo da fantascienza in cui a nessun
individuo è permesso di nascere se non con un po' di acume.
"Nei casi di vera stupidità, io parlerei di malattia", ha sottolineato Watson.
"Consideriamo - ha proseguito- quel 10 per cento di popolazione con quoziente
d'intelligenza molto basso, quelle persone che hanno difficoltà anche alle scuole
elementari: qual è la causa? C'è chi indica la povertà o fattori simili. Probabilmente
non è così. Mi piacerebbe eliminare la causa, per aiutare quel 10 per cento. Non mi
sembra giusto che una parte della popolazione nasca senza le stesse opportunità".
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POTERE,
ARAGOSTE E STUPIDITA' Capricci di un leader PYONGYANG Kim Jong II visto
da vicino: il suo Paese muore di fame, lui banchetta ad aragoste appena giunte da Parigi
di Renata Pisu
Nel suo Paese, la Corea dei Nord, dei quale è il "Caro Leader", si muore di
fame: ma Kim Jong II, che ha ereditato il potere da suo padre come se il comunismo fosse
una monarchia ereditaria, è un raffinato gourmet. Uno chef emiliano, quattro anni fa,
venne invitato a Pyongyang per presentare le specialità della cucina italiana al Caro
Leader che le gustò, con i suoi intimi, durante una settimana di bisboccia a bordo del
suo yacht privato. Notizia vecchia? La carestia che ha colpito il suo Paese dove soltanto
l'anno scorso due milioni di persone, soprattutto bambini, sono morte di fame non lo ha
convinto ad adottare una dieta più sobria. È uscito a Mosca pochi giorni fa un libro che
si intitola Oriente Express, proprio come quello che ho scritto io e dove racconto storie
di vari Paesi dell'Asia, esclusa la Corea del Nord, il Regno Eremita dove è
difficilissimo mettere piede. L'autore di questo libro si chiama Kostantin Pulitovsky ed
è uno dei pochissimi stranieri che hanno vissuto per un po' alla corte di Kim Jong II
come rappresentante per l'Estremo Oriente del presidente Putin. In veste ufficiale, come
diplomatico, Pulitovsky ha accompagnato il Caro Leader nel viaggio in treno speciale di
super lusso che il Signore della Corea del Nord ha compiuto attraversando la Siberia e la
Russia, un viaggio che si è svolto nel luglio del 2001 ed è durato un mese. Gran parte
della narrazione di Pulitovsky si riferisce ai banchetti che si tenevano nelle carrozze
sontuose di questo treno al cui cospetto il mitico vero Orient Express impallidisce. E
allora, vediamo cosa racconta Pulitovsky: prima
di tutto che il Caro Leader (il cui Paese per Bush fa parte dell'Asse del Male, che ha, o
per lo meno aveva in programma la preparazione di armi atomiche, che i giapponesi
detestano perché punta missili contro le loro coste, che si regge al potere grazie al
terrore, che assegna solo agli ufficiali dell'esercito gli aiuti alimentari della
comunità internazionale) è un buontempone. Ama cantare, ama le belle ragazze ma
soprattutto ama la cucina francese, le aragoste vive che raggiungevano il convoglio
ferroviario con aerei speciali assieme a casse di Bordeaux e Burgundy che provenivano
direttamente da Parigi. Gourmet, canterino, donnaiolo, Kim Jong II ha detto a Pulitovsky,
durante un festino durato quattro ore svoltosi nel grigiore della Siberia: "So che
tutti mi criticano ma sono convinto che questo dimostra come io sia nel giusto,
sempre". I suoi dignitari, commenta Pulitovsky, lo ascoltavano religiosamente e con
le lacrime agli occhi mormoravano: "Grazie, grazie di esistere". E poi, anche
loro, si rimpinzavano di aragoste e caviale. Adesso questo Orient Express sta suscitando
un incidente diplomatico tra Corea del Nord e Russia. Putin sembra che abbia porto le sue
scuse al Caro Leader. Ma il libro sta andando a ruba: non lo comprano i russi, abituati
alle follie dei loro capi, ma gli 007 di tutto il mondo che, finalmente, possono conoscere
qualche particolare sulla vita del Caro Leader, anche se forse sono particolari che
figurerebbero meglio in un libro di alta cucina che nei rapporti top-secret dei servizi
segreti internazionali.
Articolo apparso su Donna del 21 Dicembre 2002 Indice Pagina
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CAPITALI,
POTERE E STUPIDITA' La crisi Argentina, di chi è la colpa di
Omero Ciai
12 bambini al giorno muoiono in conseguenza della povertà nel quinto Paese esportatore di
generi alimentari al mondo. Un disastro assurdo che ha radici profonde. Ma chi ha dato la
spinta finale al crollo ha nomi e cognomi: solo che i giornali e tv non li fanno. Perché
tra i 1500 esportatori clandestini di capitali ci sono politici, banchieri, industriali,
editori, giornalisti. E chi pubblica la lista perde il posto.
Non sapremo mai con certezza quanti sono i bambini morti per la denutrizione in questa
estate argentina - laggiù le stagioni sono rovesciate. Juan Carr, il presidente
dell'organizzazione umanitaria Red Solidaria, sostiene che sono dodici ogni giorno i bimbi
sotto i sei anni che muoiono per colpa della povertà. Un'ecatombe provocata dalla fame,
dall'acqua infetta, dalle condizioni igieniche precarie, dall'ignoranza, dalla mancanza di
medicine e di cure per il neonato. Una catena in cui la morte per mancanza di cibo è
soltanto un aspetto: sicuramente il più visibile, forse non il più grave. David,
l'ultimo bambino deceduto nell'ospedale di Tucuman, aveva la tubercolosi. Non è morto di
fame, è morto di tisi: una malattia praticamente scomparsa nelle società occidentali.
Ecco, viaggiando nelle provincie del nord dell'Argentina, da Tucuman a Catamarca, da
Misiones a Formosa, si ha l'impressione di attraversare un Paese appena uscito da una
guerra. I neonati muoiono di fame, ma gli altri? Quelli che a sei anni non hanno una penna
e un quaderno per imparare a scrivere? Che non hanno un libro di testo? Una mappa
geografica? Una bambola? Un orsetto?
Viene in mente un testo di Miriam Mafai che ricorda come in Italia, in Abruzzo,
cinquant'anni fa, ci fossero paesini nei quali i bambini non potevano andare a scuola
perché non avevano le scarpe. Ma, appunto, era il dopoguerra. E che guerra c'è mai stata
in Argentina per giustificare tutto questo? Chi ha strapazzato tanto l'ex granaio del
mondo da gettarlo nella miseria? Sì, perché l'Argentina - ecco il paradosso - è il
quinto esportatore al mondo di generi alimentari e ne produce una quantità tale che
potrebbe sfamare una popolazione dodici volte maggiore rispetto alla sua (meno di 40
milioni). Ma ha venti milioni di poveri e, di questi, otto milioni sono allo stremo. Basta
fare due conti con la carne e il grano, dei quali l'Argentina è il quarto produttore nel
ranking mondiale, per non capirci più nulla. Ma poi ci sono le mele, i limoni, la soia,
il vino, lo zucchero. E anche il cotone, e il petrolio, e le riserve di gas naturale della
Patagonia.
La crisi, quella avviata, ormai un anno fa, dalla svalutazione di gennaio, può spiegare
solo in parte questa emergenza. E prima di prendersela con I'Fmi, la Banca Mondiale e le
istituzioni finanziarie internazionali che, chiudendo i rubinetti del credito, l'hanno
fatta esplodere, l'Argentina dovrebbe avere il coraggio di guardare se stessa. Come
vent'anni fa, alla caduta del regime militare, quando il Paese del tango e di Maradona non
seppe affrontare con un briciolo di giustizia l'olocausto di 30 mila desaparecidos - un
massacro senza colpevoli archiviato con lo scempio dell'indulto - così oggi rischia di
non capire che cosa sia veramente successo negli ultimi mesi del 2001.
Per scrivere la storia che vogliamo raccontare un giornalista argentino, Roberto Navarro,
è stato costretto a licenziarsi dal suo giornale. E molti altri suoi colleghi l'hanno
messa nel cassetto per evitare la stessa fine. Ma non si tratta di un segreto. Neppure di
una grande inchiesta giornalistica. Meno che mai di uno scoop. L'oggetto misterioso che i
giornali argentini si sono rifiutati di pubblicare è semplicemente il rapporto della
Commissione d'inchiesta parlamentare sulla fuga di capitali. Una bomba che spiega in gran
parte ciò che è accaduto in Argentina tra il giugno e il dicembre di un anno fa. II
dossier è uscito solo su un piccolo settimanale, battagliero ma di nicchia, Ventitres, ma
lo conoscevano tutti i giornalisti parlamentari accreditati a Buenos Aires. È stato
ripreso con grande evidenza dal quotidiano spagnolo El Pais, due colonne in prima pagina,
ma neppure questa circostanza ha convinto i giornali argentini a occuparsene. Ora capirete
il perché.
Cominciamo dall'inizio. Nella prima settimana di dicembre del 2001, il ministro
dell'economia (allora era Domingo Cavallo) firma il decreto che blocca tutti i conti
correnti nelle banche argentine. Da quel momento nessuno può più ritirare non solo i
suoi risparmi ma neppure dieci euro per fare la spesa. È il caos. È una decisione che
porterà nel giro di appena quindici giorni ai saccheggi e alla cacciata del presidente
Fernando De la Rua. Ma Cavallo non aveva scelta. Da mesi in Argentina non si parlava
d'altro che di una prossima svalutazione della moneta e il sistema finanziario scivolava
verso il collasso. La ragione, semplice: in quel momento il peso argentino aveva lo stesso
valore (virtuale e fittizio) del dollaro, ma se tutti i correntisti avessero, come stavano
facendo, ritirato i loro soldi prima della svalutazione per cambiarli alla pari in
dollari, le banche sarebbero andate in bancarotta nel giro di poche ore. Nel corralito, il
blocco, da "corral" che in spagnolo indica il recinto dove si tengono gli
animali, rimasero prigionieri una montagna di risparmiatori ma, curiosamente, nessuno dì
loro aveva in banca più di cinquantamila dollari. E gli altri? I pesci grossi:
industriali, manager, banchieri, politici, registi, attori?
Approfittando di Informazioni riservate e di canali privilegiati un gruppo di 1.500
persone, i cosiddetti "padroni dell'Argentina", aveva già trasferito i suoi
fondi in Svizzera, in Uruguay e negli Stati Uniti. Cambiando i pesos alla pari con i
dollari. Tre miliardi di dollari negli ultimi due mesi prima del corralito. Diciotto
miliardi nel corso dell'anno 2001. La lista della Commissione parlamentare d'inchiesta fa
paura. C'è l'ex ministro dell'economia, José Luis Machinea, che mentre andava in tv a
rassicurare gli spettatori sulla stabilità finanziaria dei Paese spediva a Miami i 110
mila miseri dollari del suo conto corrente. C'è Daniel Marx, il funzionario che trattava
il debito con I'Fmi. Ci sono banchieri, industriali, stelle dei cinema e della
televisione. E ci sono giornalisti,
direttori, capiredattori e proprietari di giornali, gli stessi giornali che ora tacciono.
La lista è incompleta perché soltanto sessanta delle oltre cento banche argentine hanno
fornito alla Commissione parlamentare i nomi di coloro che hanno trasferito i soldi
all'estero. Ed è anche appena la punta di un iceberg. II totale dei fondi all'estero di
proprietà di residenti in Argentina è molto, ma molto più alto. Secondo una stima
ufficiale ci sono almeno 160 miliardi di dollari depositati in conti bancari all'estero.
Una cifra superiore sia al debito pubblico dell'Argentina (135 miliardi di dollari), che
al suo prodotto interno lordo (120 miliardi di dollari l'anno). Naturalmente sarebbe
esagerato e ingiusto sostenere che tutte le conseguenze della crisi argentina dipendono
dall'atteggiamento irresponsabile e corsaro della sua classe dirigente. Ma non si può
fare a meno di rilevare che si tratta di una circostanza che dipinge con leggiadri
dettagli la vera natura dei guai. Per trovare un altro Paese dove una così piccola parte
di cittadini possieda, al sicuro in banche estere, più soldi del totale dei suo prodotto
interno lordo bisogna andare in Africa, tra i vari dittatori e dittatorelli dei
post-colonialismo.
Trasferire i propri soldi all'estero non è un delitto. Nelle dimensioni argentine, però,
il fenomeno dà l'idea di un atteggiamento predatorio verso la propria terra e i propri
connazionali che sembra connaturato nelle élite politiche, industriali e perfino
culturali di quel Paese. Come si spiegherebbe altrimenti la sensazione di assoluta assenza
dello Stato, garante pubblico dei diritti civili, che si prova visitando un ospedale dove
il medico o il radiologo ricevono uno stipendio inferiore al minimo necessario per
sopravvivere? O entrando in una scuola di campagna dove i ragazzini non hanno neppure i
gessetti per la lavagna?
Trasferire i propri soldi all'estero non è un reato, ma trasferirci quelli che non si
sono dichiarati al fisco sì. Ed è un'esperienza surrealista quella che hanno affrontato
i deputati della Commissione d'inchiesta quando hanno confrontato alcune dichiarazioni dei
redditi con le cifre dei trasferimenti. Come si fa a spedire in una banca americana il
triplo di quello che si è dichiarato di possedere? Misteri dell'economia di mercato. Come
quello di Daniel Awada, proprietario di una fabbrica di indumenti per bambini,
ufficialmente fallita, che ha trasferito all'estero tre milioni e mezzo di dollari.
Dove li avrà presi? Stando così le cose risorgere non sarà facile. II deserto argentino
è quello di una classe dirigente che in vent'anni ha portato il Paese prima (con
Alfonsin) sulle montagne russe dei l'iperinflazione, poi (con Menem) sull'astronave di
carta di una follia finanziaria - la parità cambiaria fissa con il dollaro - che ha
disintegrato l'industria nazionale e triplicato il debito. Soluzioni non se ne vedono. Fra
poco più di tre mesi l'Argentina dovrà eleggere un altro presidente ma, per ora, nessuno
dei candidati - peronisti, radicali, indipendenti - supera un pallido dieci per cento di
consensi. Si naviga a vista. E lo si sente passeggiando per Buenos Aires, l'aria è tetra.
In alcuni quartieri angosciosa. Relitti di fabbriche dismesse, negozi chiusi. Appena fuori
dal centro storico, sulla Hipolito Yrigoyen, la strada che attraversa Avellaneda, il 70
per cento dei locali ha le serrande abbassate. È il quartiere dell'Independiente, la
squadra che quest'anno ha vinto il campionato di calcio. II peggio è passato, dice
qualcuno. O deve ancora arrivare? Articolo apparso su Donna del 4 gennaio 2003
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PARADISI
FISCALI E STUPIDITA' di Roberto Petrini
Premessa. Se i
nostri industriali, i nostri politici, i nostri professionisti ed i nostri intellettuali
fossero persone oneste e moralmente responsabili farebbero un'aspra lotta ai paradisi
fiscali presenti nel mondo e invece di esportare denaro o di non pagare le tasse
cercherebbero al contrario di favorire tutte quelle azioni tese al miglioramento della
condizione del nostro paese, dell'Europa e del Mondo intero. Ma evidentemente, come appare
chiaro dalla serie di articoli presenti in questo forum, l'ingordigia, l'avidità e la
stupidità hanno sempre la meglio sul buon senso. Carl William Brown
Sei paesi offshore accettano l' invito dell' Ocse: entro il 2005
avranno standard normali e trasparenza
ROMA - Il pressing dell' Ocse ha aperto la prima crepa nel muro finora impenetrabile dei
paradisi fiscali. San Marino, insieme alle giurisdizioni di Bermuda, Isole Cayman, Cipro,
Malta, Mauritius, si è formalmente impegnata ad aderire al programma per l' eliminazione
delle pratiche dannose dei cosiddetti "paradisi fiscali", ed evitare così di
essere inserita nella "lista nera" che il consesso dei paesi industrializzati
sta mettendo a punto. L' annuncio è stato fatto ieri dall' organizzazione parigina che ha
pubblicato sul sito Internet le lettere formali di impegno di tutte e sei le giurisdizioni
autonome in vista anche della presentazione ufficiale della lista aggiornata dei
"paradisi fiscali" e del "Rapporto sui progressi nell' identificazione ed
eliminazione delle pratiche fiscali dannose" il prossimo 26 giugno a Parigi, in
occasione del Consiglio ministeriale. Nella lettera la Repubblica del Titano si impegna
"all' attuazione delle misure ritenute necessarie per eliminare ogni aspetto dannoso
dei propri regimi relativi ai servizi finanziari e ad altri servizi". Una svolta per
la piccola Repubblica incastonata nella Penisola ma indipendente da secoli e con un
sistema bancario molto attivo e bene consciuto, che si mette al passo con i tempi e con le
richieste delle organizzazioni internazionali. Il documento, indirizzato al segretario
generale dell' Ocse Donald Johnston, San Marino si impegna inoltre ad "attuare un
programma teso ad un efficace scambio di informazioni in materia fiscale, alla trasparenza
e all' eliminazione di quegli aspetti dei regimi relativi ai servizi finanziari e ad altri
servizi che richiamano imprese e che non conducono, a livello nazionale, alcuna attività
sostanziale". Il lavoro dell' Ocse, iniziato nel 1998 con un primo rapporto, ha fino
ad ora individuato i paradisi fiscali classificandoli come giurisdizioni che non impongono
tasse o solo quelle nominali, che diventano per alcuni non-residenti luoghi dove sfuggire
alla tassazione nei loro paesi di residenza, e che posseggono uno o più dei criteri
seguenti: mancanza di scambio di informazioni, mancanza di trasparenza, e capacità di
attrarre attività di business considerate "non sostanziali". La lista dei
cosiddetti paradisi fiscali, stilata tempo fa dall' Ocse, è lunga e colma di località
esotiche e spesso sconosciute. In Europa si va dalle tradizionali Svizzera e Lussemburgo,
al Liechtenstein, a Monaco. Ma ci sono anche il Vaticano, Malta, Cipro, Gibilterra,
Andorra, l' Isola di Man, Jersey, Guernesey, Sark e Alderney. Se si continua a viaggiare
per il globo inseguendo i capitali in cerca di un fisco leggero e, soprattutto anonimo, si
arriva ai "favolosi" Caraibi: lì le sone esentasse proliferano. Si va dalle
Bermuda, alle Bahamas, da Santo Domingo alle Isole Vergini, dalle Caimans alla Giamaica.
Nel novero anche Barbados, Grenada, Antigua e Barbuda, Anguilla, Belize, El Salvador,
Costa Rica e Panama. In Oceania e nell' Estremo Oriente l' esotismo si coniuga con l'
anonimato dei capitali, almeno stando alle indagini dell' Ocse: oltre alla tradizionale
piazza finanziaria di Hong Kong, figurano nella lista anche le Filippine, Hainan, Labuan,
Vanatu, Figi, Tonga, Samoa, Nauru e Marshall.
N.B. La Svizzera e il Lussemburgo non hanno aderito
all'invito dell'Ocse, nel timore di vedere annullato il diritto a mantenere il segreto
bancario. Ora l'Ocse presenterà la lista nera dei paradisi fiscali: 14 sono in Europa, 16
in America e Caraibi e 10 in Asia e Oceania. Belize, El Salvador, Costa Rica, Panama,
Caimas, San Kitts, San Vincent, Giamaica, Bermuda, Bahamas, Turks E Caicos, Isole Vergini,
Barbados, Anguilla, Aruba, Grenada, Antigua e Barduba, Santo Domingo, Santa Lucia, La
Dominique, Jersey, Guernesey, Alderney, Isola di Man, Sark, Lichtenstein, Lussemburgo,
Svizzera, Cipro, Vaticano, Malta, Monaco, Gibilterra, Andorra, Libano, Israele, Hainan,
Labuan, Vanuatu, Figi, Tonga, Mauritius, Samoa, Nauru, Marshall, Cook, Niue, Hongkong,
Filippine. Articolo apparso su la Repubblica - Martedì, 20 giugno 2000
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Monti: pagano loro per i paradisi fiscali
"SENZA SEGRETO BANCARIO LAVORATORI PIÙ TUTELATI" di Federico
Rampini
Gli Stati europei hanno spostato la pressione fiscale dal capitale al lavoro spingendo
così il tasso di disoccupazione Più si riducono le nicchie di privilegio sulle rendite
finanziarie, più si allarga la base imponibile e si consente di ridurre le imposte. Per
l' Italia questo è molto importante Il Commissario europeo spiega la filosofia dell'
accordo di Feira sul coordinamento tributario IL RETROSCENA
"Per difendere il gettito minacciato da evasioni ed elusioni, negli anni Ottanta e
Novanta gli Stati hanno spostato la pressione fiscale dal capitale al lavoro. In quel
periodo l' aliquota media sul lavoro dipendente in Europa è salita dal 34,7% al 42%.
Mentre sugli altri fattori produttivi, in particolare sul capitale, è scesa dal 42,8% a
meno del 35%. Questo maggiore carico fiscale sul lavoro spiega quattro punti percentuali
del tasso di disoccupazione europeo". Parola di Mario Monti, che su questa diagnosi
ha costruito la sua battaglia per il coordinamento fiscale, sfociata nella storica intesa
di Feira sull' abolizione del segreto bancario. Una battaglia in difesa del lavoro,
perché il conto salato dei paradisi fiscali lo hanno pagato proprio i lavoratori. Nell'
èra della libera circolazione dei capitali, le ricchezze fuggono dove sono meno tassate.
Il lavoro no: la manodopera è molto più stanziale dei capitali. Mentre gli Stati
blandivano il risparmio con una gara al ribasso sui prelievi fiscali, si rifacevano su chi
non poteva scappare all' estero. è durata quattro lunghissimi anni la guerra di Monti per
superare le resistenze inglesi, lussemburghesi, austriache. Londra difendeva il suo status
di paradiso fiscale, dove le rendite finanziarie sono esentasse; nella City londinese si
è concentrato l' immenso mercato degli Eurobonds, i titoli obbligazionari il cui volume
d' affari ormai supera quello del mercato americano. Vienna e Lussemburgo si sono
arricchite in quanto paradisi del segreto bancario, dove gli ispettori del fisco degli
altri Stati non possono ottenere informazioni sui capitali esportati dai propri residenti.
Gli inglesi hanno accusato Monti di puntare ad un "cartello" fiscale degli
Stati, di voler trasformare l' Unione in un Grande Fratello che violenterà la privacy
bancaria di ciascuno di noi. Con, al termine, l' inevitabile risultato di una pressione
fiscale allineata sui paesi più esosi e spendaccioni. Un' accusa che Monti ha sempre
respinto: "La concorrenza fiscale tra Stati non è di per sé un fattore negativo,
perché serve come disciplina per ridurre la spesa pubblica. Questo è vero quando si
tratta di concorrenza leale. La concorrenza sleale invece è nociva per tutti: per cercare
di attirare capitali si creano regimi speciali e facilitazioni che non solo comprimono il
livello generale delle entrate, ma aprono la via ad elusioni ed evasioni". Oggi Monti
raccoglie un successo parziale e...postumo. Con la nascita della Commissione Prodi nel '
99 lui è stato promosso commissario alla concorrenza, capo del potente Antitrust europeo.
Il portafoglio del mercato unico con il pacchetto fiscale è passato al liberale olandese
Frits Bolkestein. Ma l' eredità di Monti è stata raccolta dalla svolta di Feira. Fin
dall' inizio il commissario italiano aveva prospettato due alternative ai governi: o
mettersi d' accordo su una ritenuta alla fonte che colpisca le rendite finanziarie, oppure
sancire lo scambio di informazioni tra le amministrazioni fiscali dei paesi membri sui
capitali finanziari investiti all' estero. Cioè la fine del segreto bancario. Il
presidente della Confindustria D' Amato ha definito l' accordo di Feira come "una
cattiva notizia, se è il metodo per alzare il livello di prelievo". Ma per Monti il
traguardo è sempre stato l' opposto: "L' obiettivo è allargare la base imponibile
per ridurre le aliquote. Nel costruire l' Europa vera vogliamo anche distruggere un'
Europa impropria, vogliamo distruggere la facoltà di evadere le tasse avvalendosi della
libera circolazione dei capitali. Più si riducono le nicchie di privilegio sulle rendite
finanziarie, più si allarga la base imponibile e si consente di ridurre le imposte. Per
l' Italia questo è importante perché la grande massa del suo risparmio la rende
particolarmente esposta alla concorrenza fiscale sleale di altri paesi". L' accordo
di Feira non è perfetto. Monti avrebbe preferito tempi di attuazione più rapidi: il
problema del riequilibrio fiscale tra capitale e lavoro è immediato; c' è bisogno di
abbassare subito il prelievo per ridurre il "cuneo fiscale" sulle buste paga e
rendere meno costoso assumere manodopera. Poi rimangono le incognite: l' abile ricatto
dell' Austria sui vincoli della sua Costituzione, la condizione posta dall' inglese Gordon
Brown che Stati Uniti e Svizzera aderiscano all' intesa sul segreto bancario. Ma ciò che
Monti aveva seminato ha finalmente dato i primi frutti. Dai tempi di Maastricht, il
rischio da evitare era proprio quello di costruire l' Europa dei banchieri. Per combattere
il distacco delle opinioni pubbliche contro una integrazione tutta tecnocratica, un passo
è stato fatto. Articolo apparso su la Repubblica - Giovedì, 22 giugno 2000 Indice Pagina
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RICICLAGGIO
DI DENARO E STUPIDITA'. LA LISTA DELLA VERGOGNA NEL RAPPORTO DENUNCIA DEL GAFI,
LO SPECIALE ORGANISMO DELL' OCSE CONTRO IL "LAVAGGIO" DEL DENARO DI PROVENIENZA
ILLECITA di Giampiero Martinotti
Russia e Israele tra i paesi sotto accusa. Mosca accusata anche dagli Usa per le reticenze
nello scandalo del cosiddetto Russiagate "Declassato" in una fascia grigia il
principato di Monaco, additato ieri dal parlamento francese
C' è anche la Russia nella lista nera dei quindici paesi che non offrono nessuna garanzia
contro il riciclaggio del denaro sporco. Il Gafi, l' organismo creato dal G-7 che si
occupa della lotta alla criminalità finanziaria, ha puntato il dito contro gli Stati
lassisti e complici, invitando i paesi occidentali a prendere misure contro di loro. Altri
quattrodici paesi, fra cui il principato di Monaco, sono stati invece inseriti in una
lista grigia, cioè sono sotto controllo perché il loro comportamento suscita molti
dubbi. E' la prima volta che il Gafi accusa in maniera così esplicita. Creato nel 1989
dai Sette Grandi e oggi allargato ai ventisei paesi dell' Ocse, l' organismo ha lanciato
un appello ai suoi membri : "Bisogna chiedere alle istituzioni finanziarie di
accordare un' attenzione particolare alle relazioni d' affari e alle transazioni con i
paesi o i territori identificati nel rapporto come soggetti che non collaborano alla lotta
contro il riciclaggio". La lista nera offre più di una sorpresa. Se la presenza
delle Bahamas e di altri paradisi finanziari non sorprende, più inquietante è l' accusa
contro altri paesi : la Russia, come abbiamo detto, ma anche Israele, il Libano, le
Filippine e il Liechtenstein. Il Gafi ha scelto sulla base di venticinque criteri, che
possono essere riassunti in quattro grandi categorie : assenza di controlli sull'
identità di chi effettua versamenti in contanti o su quella dei titolari dei conti
correnti ; rifiuto di rendere conto alle autorità delle transazioni sospette ; assenza di
procedimenti penali contro i riciclatori ; mancanza di cooperazione con la comunità
internazionale. Sulla lista grigia sono invece finiti quindici Stati o territori, fra cui
Monaco, Gibilterra, Cipro, Malta e le isole anglo-normanne di Jersey e Guernesey. Stupisce
che il principato dei Grimaldi sia trattato con moderazione, se non altro perché l'
altroieri un rapporto parlamentare francese ha definito Monaco "un luogo propizio al
riciclaggio". Il presidente del Gafi ha precisato che i paesi nella lista grigia
presentano "problemi e deficienze", che non sono però sufficienti a inserirli
nel gruppo delle pecore nere. La decisione del Gafi di mettere sotto accusa quindici Stati
è un passo avanti nella lotta al riciclaggio, ma le lacune sono molte. Il Gruppo, come l'
Ocse, deve decidere sempre all' unanimità e questo spiega alcune incongruità. La Gran
Bretagna, per esempio, ha difeso i suoi territori e rifiutato l' inserimento nella lista
nera di Gibilterra, Jersey, Guernesey, Man e le isole Vergini, mentre il Canada ha
protetto alcuni staterelli di cui è rappresentante ai vertici del Fondo monetario. Le due
liste, insomma, sono state anche il frutto di un compromesso diplomatico. Il Giappone ha
insistito affinché non si puntasse il dito solo contro le isole esotiche e ha tentato di
far inserire nella lista nera i territori europei, ma hanno raggiunto il loro obiettivo
solo in parte. Nel Vecchio Continente il Gafi accusa solo due Stati, il Lichtenstein - che
secondo un rapporto dei servizi segreti tedeschi sarebbe uno dei maggiori centri
internazionali per il riciclaggio - e la Russia, che secondo "Le Monde" sarebbe
stata inserita nella lista nera su richiesta degli Stati Uniti. Malgrado i suoi limiti, la
lista esiste e adesso bisognerà vedere quali saranno i gesti concreti della comunità
occidentale. Il primo a reagire è stato il ministro francese delle Finanze, Laurent
Fabius : "Faremo di tutto per introdurre sanzioni contro i paesi che non rispettano
le regole internazionali. Siamo pronti ad arrivare fino alla sospensione di tutte le
ralzioni finanziarie". Fabius ha aggiunto che la Francia porrà il problema al G-8 di
Okinawa ed ha annunciato la riunione in ottobre dei ministri delle Finanze, degli Interni
e della Giustizia dei Grandi "per esaminare le sanzioni finanziarie da prendere
contro i pardisi fiscali". Il problema russo sarà certamente il più spinoso, se non
altro perché Mosca è membro del G-8. Articolo apparso su la Repubblica - Venerdì,
23 giugno 2000
I CONTI CIFRATI DI NAZARBAEV UN CASO
GLI INGREDIENTI sono simili a quelli del Russiagate, lo scandalo politico-finanziario che
ha travolto le figlie di Boris Eltsin: tangenti miliardarie e conti cifrati in Svizzera,
banche newyorchesi e paradisi fiscali caraibici, eredi della nomenklatura rossa e
familiari del presidente. Ma l' epicentro dello scandalo scoppiato ai primi di luglio è
il Kazakhstan, l' immensa repubblica ex sovietica che si affaccia sul Mar Caspio e che
nasconde giacimenti di greggio più generosi di quelli del Mare del Nord. Secondo un'
inchiesta del ministero della Giustizia Usa, alcune multinazionali petrolifere hanno
versato almeno 60 milioni di dollari, nei conti elvetici controllati dal presidente del
Kazakhstan, Nursultan Nazarbaev, dall' ex premier Akezhan Kazhegeldin e da Nurlan
Balgimbayev, capo della società petrolifera di stato. Indice Pagina
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HOLDING E
STUPIDITA' di Giovanni Pons
Premessa. Questo,
come gli articoli precedenti dimostra come il vero interesse delle grandi aziende sia
quello di fregare lo stato, ovvero i cittadini e come il servilismo dei politici sia un
comodo lasciapassare a tutte queste nefande operazioni che del resto, grazie alla
corruzione, non mancano di portare loro un certo interesse e ovviamente non mancano di
incentivare la stupidità di una nazione che fa pagare le sue colpe ai vari cittadini
sempre più schiavi e sempre più ignoranti. Carl William Brown
Il numero non è preciso al 100% ma è comunque considerato
attendibile dagli addetti ai lavori. Delle 6 mila holding domiciliate in Lussemburgo
almeno 6-700 sono riconducibili a capitali italiani. A fornirlo è la filiale inglese
della Webster Company, una società di consulenza specializzata nella costruzione di
strutture societarie estere. La difficoltà nello stilare una statistica sta nel fatto che
le holding lussemburghesi hanno azioni al portatore e dunque una mappatura precisa è
pressoché impossibile. Ma ora che la Guardia di Finanza e la magistratura hanno messo nel
mirino le operazioni fiscalmente rilevanti della Bell - la scatola costituita nel 1997 da
Emilio Gnutti per dare l'assalto all'Olivetti - il censimento
dell'"esterovestizione" torna improvvisamente d'attualità. Quante sono le
operazioni transitate dal Lussemourgo "senza valide ragioni economiche ma al solo
fine di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta" (art. 37 bis Dpr n.600 del
'29-9-1973)?"
Sono talmente tante che il ministro Giulio Tremonti ha deciso di eliminare la tassazione
delle plusvalenze anche in Italia in modo da disincentivare l'esodo verso il Lussemburgo e
l'Olanda. Il gettito sui passaggi di proprietà è sempre stato bassissimo - è il
ragionaento dei tecnici del ministero dell'Economia - per cui tanto vale liberalizzare e
cercare di recuperare le imposte per altra via, come l'abolizione del credito d'imposta.
In realtà nel febbraio 2002 Tremonti aveva chiesto alla Consob copia dei prospetti delle
Opv avvenute in Italia per appurare i casi di esterovestizione, ma probabilmente è
tornato sui suoi passi: In ogni caso nessuno, né Vincenzo Visco né Treonti, ha mai messo
sotto osservazione alcune operazioni chiave degli ultimi anni, per esempio il passaggio
della Seat dalla Telecom di Gnutti e Roberto Colaninno al gruppo di investitori che
l'aveva acquistata dal Tesoro. Uno di questi, la De Agostini, realizzò 3.500 miliardi di
lire di plusvalenza non pagando una lira di tasse al fisco italiano. Non male per un
passaggio di proprietà di una società con sede a Torino (Seat) e una con base a Novara
(De Agostini). Il tutto grazie alla costruzione delle holding Huit, società di comodo
lussemurghesi.
Ma se ora gli inquirenti riuscissero a dimostrare che la Bell era lussemburghese di nome
ma italiana "di fatto', in molti comincerebbero a tremare. Non sono poche, infatti,
le transazioni effettuate anche recentemente che hanno utilizzato un veicolo estero per
ottenere benefici fiscali. Molte di queste hanno per attori i fondi chiusi, quasi sempre
domiciliati in paradisi fiscali. Così la recente vendita della Fila al fondo americano
Cerberus è passata attraverso la Fila Nederland Bv; quando Vodafone vendette Infostrada
all'Enel di Franco Tatò fu costituita all'uopo una scatola olandese. Il passaggio del
controllo della Rinascente dalla famiglia Agnelli ai francesi di Auchan è transitato per
la lussemburghese Eurofind Sa e la stessa De Agostini dopo aver venduto la Seat si è
buttata sulla Lottomatica costruendo la solita catena di scatole partendo dalla Tyche. E
per tornare al passaggio Bell-Olimpia, i Benetton, per affiancare la Pirelli hanno
costituito la Edizione Sa. Ovviamente lussemburghese.
Milano in questo senso è una piazza molto esposta a reati del genere, per esempio in
passato una società esterovestita, la Philip Morris dopo essere stata indagata sia per
evasione fiscale, sia per frode fiscale ha deciso di uscire dall'inchiesta pagando un
condono di 256 milioni di Euro. Articolo apparso su La Repubblica del 14 ottobre
2003 Indice Pagina Indice Forum
STUPIDITA' E
CORRUZIONE ITALIA IN TESTA di Attilio Giordano
Macché Mani Pulite. Gli ultimi scandali (Anas, medici) e le cifre parlano chiaro. E il
governo? Pensa a un "controllore". Ma di sua fiducia... La corruzione?
Tranquilli: l'Italia è di nuovo in testa
Hit parade dei paesi più corrotti: Turchia, Grecia, Italia, Portogallo, Francia, Irlanda, Spagna, Belgio,
Germania, Austria, Svizzera, Norvegia, Gran Bretagna, Olanda, Lussemburgo, Svezia,
Islanda, Danimarca, Finlandia.
Hit Parade delle nazioni più corruttrici: Russia, Cina,
Taiwan, Corea del Sud, Italia, Hong Kong, Malesia, Giappone, Usa, Francia, Spagna,
Germania, Singapore, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Canada, Austria, Svizzera, Svezia,
Australia.
ROMA. II 16 gennaio, nell'indifferenza generale, il Parlamento ha approvato la legge che
istituisce un Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione. Il
quale sarà concretamente nominato "entro sei mesi". Si tratta di una vecchia
proposta parlamentare
molto osteggiata, giunta al suo epilogo per iniziativa del governo. Chi sarà il
commissario? Nessuno fa nomi, probabilmente perché non ce ne sono. E a pochissimi importa
(molti parlamentari, a richiesta, cadono dalle nuvole). "Non servirà a nulla",
prevede Sabino Cassese, docente di diritto amministrativo alla Sapienza oltre che ex
ministro della Funzione Pubblica ulivista. Perché professore? "Perché la corruzione
è come i topi che stanno nelle fogne. Si sa che ci sono, elimiminarli del tutto è
impossibile. Si deve ridurre
la possibilità di dilagare. Il commissario, senza alcun potere, rischia di essere solo
una foglia di fico, come già aveva sostenuto una commissione nata per la corruzione negli
anni passati e composta da studiosi di ogni orientamento".
Cassese, nell'ottobre dei '96, presentò un rapporto sulla corruzione in Italia, unico
studio fatto in proposito che mai ebbe seguiti. Erano anni in cui ancora si sentivano le
brezze di Mani Pulite, una stagione oggi commemorata o criminalizzata, a seconda delle
parti politiche, ma la cui immagine vive, certamente, un periodo d'ombra.
E, tuttavia, in silenzio, a partire dall'anno scorso, la corruzione in Italia ha
ricominciato a crescere. Ce lo dicono i titoli dei giornali e le inchieste
dei magistrati: sull'Anas, sui medici, sulle case farmaceutiche, sull'Inaf, sull'Inps, su
Malpensa e cosi via dicendo. Ma ce lo dice anche uno studio pubblicato ogni anno da
un'associazione internazionale dall'alta credibilità, Transparency, con sede a Berlino e
sezioni in moltissimi Paesi del mondo. Gli studi di questa associazione indipendente hanno
la consulenza dell'istituto Gallup, della World Bank, di Princeaterhause, World economic
forum, oltre che delle prestigiose università di Cambridge e Gottinga.
Sulla base di sondaggi, rapporti delle "centrali rischio" delle banche, e
soprattutto sondaggi tra uomini d'affari, anche stranieri, che vivono nel Paese esaminato,
Transparency redige due classifiche: una sulla percezione della corruzione nella pubblica
amministrazione di ogni Paese esaminato, la seconda sulla corruzione attraverso la quale
si ottengono appalti e vantaggi all'estero, soprattutto nei Paesi emergenti. Nella prima
classifica, l'Italia sta al 31° posto nel mondo (secondo una graduatoria che vede al
primo posto il Paese meno corrotto, all'ultimo il peggiore), scendendo dal 2001 al 2002 di
due posizioni; un 31° posto che, comunque, è tutt'altro che comodo se si considera che
corrisponde al 17° posto in Europa, meglio piazzati solo della Turchia e della Grecia. Il
voto italiano è di 5,2 su 10.
Peggiore il capitolo della corruzione esercitata dagli italiani all'estero: qui siamo, nel
mondo, il 5° Paese più corruttore e, davanti a noi, abbiamo realtà notoriamente molto
difficili: Russia, Cina, Taiwan, Corea del Sud. Per trovare un altro Paese europeo bisogna
scendere al 10° posto: la Francia, seguita da Spagna, Germania, Inghilterra. In questa
classifica il voto 2002 scende: 4,1 su 10.
Il relativo peggioramento della situazione italiana è commentato da Transparency con
parole che farebbero felice l'opposizione parlamentare nonché diverse Procure della
Repubblica. Scrive uno dei direttori responsabili dell'associazione, Jeremy Pope:
"L'Italia vive un indebolimento del potere giudiziario e dello stesso ruolo della
legge". E, più avanti nel rapporto: "La situazione in cui i businessmen devono
operare in Italia è sempre più difficile", e "non sembra che l'Italia possa
recuperare in fretta".
Spiega il presidente italiano di Transparency, che ha sede a Milano, Maria Teresa
Brassiolo: "Non siamo noi a fare i sondaggi, perché una delle garanzie di
Transparency è proprio che tutto fa capo a Berlino, per garantire imparzialità. Il
nostro archivio, tuttavia, registra i casi di corruzione pubblici, e testimonia una trend
in crescita. Ma, soprattutto, la caduta di tensione sul fenomeno. D'altronde, casi come i
furti alla Malpensa hanno un impatto terribile sull'opinione pubblica. Dieci anni fa erano
stati scoperti episodi identici, ma ciò non ha impedito che si ripetessero. Ma
soprattutto: tutti i dipendenti filmati a rubare, dopo una sospensione, sono stati
reintegrati e molti sono di nuovo ai loro posti. Che credibilità può avere,
complessivamente, uno Stato dove ciò può accadere?".
La presidente si rammarica poiché la stessa indagine "mette in risalto realtà
italiane sane, affidabili e moderne, che tuttavia vengono bilanciate negativamente da
altre che trascinano l'Italia verso il basso".
Creando una situazione anomala: le fonti dell'indagine danno risultati diversi, a seconda
dell'ambiente cui fanno riferimento. Da un voto di 3,4 su 10 ad uno di 7,2, decisamente
accettabile.
La media, tuttavia, ci fa perdere le due posizioni di cui si diceva, testimoniando il
ritorno di una corruzione diffusa e percepita come "normale". E consente a
Slovenia e Namibia di superarci in una classifica dove, comunque, ci trovavamo già
indietro rispetto a Paesi poveri come Botswana, Cile, Estonia. Tutti percepiti con una
amministrazione pubblica meno corrotta della nostra.
Secondo l'onorevole Giovanni Kessler, un magistrato dell'Ulivo che ha presentato un
disegno di legge sul tema, una delle possibilità di intervento sarebbe, intanto, la
semplificazione giuridica: "In Italia", spiega, "ci sono dieci fattispecie
di corruzione. Ne occorrerebbe una sola, la corruzione appunto, che si applichi a corrotti
e corruttori e renda tutto più facile e meno farraginoso". Kessler propone anche,
nella sua legge, Procure dedicate alla corruzione (come accade con la mafia, la droga) che
coordinino questo tipo d'indagini e l'estensione del reato alla corruzione tra privati,
come per altro imporrà presto l'Unione Europea. Del commissario da poco istituito ha una
pessima opinione: difficilmente una nomina politica può garantire autonomia. Soprattutto
in un Paese dove, come testimonia il rapporto di Transparency, la corruzione è
genericamente attribuita tanto alla "pubblica amministrazione" che alla
"politica". Per noi sono la stessa cosa. Da parte politica opposta, la questione
viene ribaltata. Secondo Giuseppe Di Federico, membro polista del Csm, "la questione
della corruzione, in Italia, è stata affrontata per estremi". Significa, secondo il
professore, che "si è passati da una magistratura volontariamente allineata con il
potere politico per decenni ad una esplosione di conflittualità che è arrivata, con Mani
Pulite, a mettere in forse diritti civili importanti quanto la stessa lotta alla
corruzione". Soluzione? "Una normale attività di direzione politica della
magistratura che fa le indagini, che oggi è autonoma e irresponsabile e, oltre tutto,
decide in totale anarchia su che cosa privilegiare, sprecando denari e tempo senza alcun
coordinamento".
Giudizio che non collima, tuttavia, con quello dato recentemente dall'Onu e circondato da
totale silenzio. II suo rapporto sulla giustizia in Italia (con sopralluoghi da marzo a
novembre scorso) descrive tutt'altro scenario. Pur ammettendo la legittimità della
separazione delle carriere in magistratura, l'ispezione rileva che "il modo in cui
vengono usati cavilli procedurali per ritardare lo svolgimento dei processi desta
preoccupazione. Così come la sensazione che si ricorra agli strumenti legislativi al fine
di approvare leggi da usare poi durante lo svolgimento dei processi, come accade al
Tribunale di Milano per imputati eccellenti". E più avanti: "Altra fonte di
preoccupazione è che uno degli avvocati del premier italiano (Gaetano Pecorella, ndr) è
anche Presidente della commissione giustizia della Camera". Fattori che, secondo
l'Onu, indurrebbero sfiducia del cittadino, corroborata dall'eternità dei processi.
Testimoniata anche da uno dei sondaggi di Transparency per valutare l'opinione degli
italiani sulla corruzione (con l'istituto Cirm, anno 2001, su un campione di 827
maggiorenni rappresentativi del Paese).
Il sondaggio non ha nulla a a che fare can le classifiche, ma delinea quello che i
commissari deli'Onu dichiarano di temere. Alla domanda: "Le istituzioni difendono
adeguatamente il cittadino da intimidazione e corruzione"?, il 76 per cento dice di
no e solo il 14 sì (il 10 non ha un'opinione). Alla domanda: "L'illegalità è
raramente punita?" il 95 per cento riconosce che è così (anche se il 49 per cento
dice di sì, ma ritiene la formulazione un po' esagerata). Alla domanda: "Ci sono
zone di corruzione ancora inesplorate, in Italia?", dice di sì il 93 per cento.
Infine, se si chiede dove è più presente la corruzione, la classifica degli italiani è
la seguente: in politica (34 per cento), nella pubblica amministrazione (27), negli affari
(21), nella società civile (9), nella magistratura (5). Un 4 per cento è senza opinione,
ma l'altro 96 per cento ce l'ha chiarissima. Articolo apparso sul Venerdì di
repubblica
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