LIBERO FORUM SULLA STUPIDITA'

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L'IMBECILLITA' PUO' SOLO AUMENTARE di Pino Aprile

Un grande studioso sovietico, Jury Lotman, aveva definito la cultura il cervello della società. E intendeva quell'insieme di conoscenze teoriche e pratiche che possediamo in condominio con gli altri membri della comunità.......Le idee e le scoperte di poche menti illuminate entrano a far parte di questo bagaglio e si ritrovano, così, a disposizione di tutti, anche di chi non le capisce.......Un colpo di genio portò un uomo eccezionale a scoprire il fuoco; ma a quel falò si scaldarono pure i cretini. Queste considerazioni conducono verso la Terza Legge sulla fine dell'intelligenza, che ha forma articolata. L'intelligenza opera a beneficio della stupidità e ne alimenta l'espansione.

Un gurù dell'antropologia, Claude Lévi-Strauss, cita una teoria molto suggestiva. In epoche remote, le donne più accorte e astute compresero che, in determinati periodi, potevano "farlo" senza il pericolo di restare incinte, mentre in altri giorni (e proprio quelli fertili, in cui il loro corpo emetteva i richiami sessuali che attiravano l'uomo), era meglio lasciar perdere. Le ragazze meno sveglie non facevano queste sottili distinzioni e continuavano a sfornare un figlio dopo l'altro.
Le più furbe trovarono dei sistemi artificiali (culturali, direbbero gli antropologi) per suscitare l'attenzione degli uomini: inventarono la cosmetica; nei giorni "sicuri" si truccavano, si profumavano e imitavano i segnali dell'estro. Così, senza rischiare gravidanze indesiderate, potevano lo stesso legare sessualmente a sé i maschi e trarne i vantaggi conseguenti. Le altre dovevano continuare a fare affidamento su quei richiami naturali che, purtroppo, venivano emessi solo durante i giorni fecondi.
Il risultato di questa situazione sarebbe stato che le donne stupide avrebbero avuto più figli di quelle furbe. La selezione naturale e quella culturale combinate insieme avrebbero così operato, anche tramite il sesso, per una diffusione massiccia dell'imbecillità.

L'imbecillità può solo aumentare

"Devo confessare che le sue argomentazioni mi hanno colpito. Lei ha espresso, nel suo stile paradossale, alcune delle idee che hanno ispirato tutta la mia riflessione attorno ai problemi dell'etica sociale. Come lei sa, ho dedicato molti anni di studio e di insegnamento ad alcune questioni che mi sembravano e mi paiono tuttora fondamentali. Una domanda, in particolare, ho sempre ritenuto di vitale importanza: qual è il ruolo dell'individuo nella società umana? Come è possibile per le singole persone vivere insieme, in una comunità, e conservare la libertà, l'autonomia, l'indipendenza? Che influsso ha la società sugli individui?
Ho raggiunto alcune conclusioni, dei punti fermi. Sono anch'io profondamente persuaso che la società tenda sempre, necessariamente, a reprimere l'individuo, a mortificarne le capacità. Come lei afferma, le strutture burocratiche sono organizzate in modo da obbligare tutti a comportarsi secondo regole prestabilite e uguali per tutti. Al contrario, l'individuo dovrebbe poter essere libero di sviluppare le proprie qualità, senza costrizioni.
Ecco quindi il conflitto tra il singolo e la società; tra l'esigenza della libertà personale, e la necessità di stare assieme agli altri. Non siamo fatti per vivere isolati, ma in comunità. L'uomo solo, l'eremita, è una contraddizione vivente; abbiamo bisogno dei nostri simili per soddisfare esigenze primarie. Ma essere parte di una comunità influenza pesantemente l'individuo, lo condiziona, ne limita la libertà.
É possibile fare in modo che la vita sociale non mortifichi la personalità e i talenti del singolo? Non costringa le persone a uniformarsi a quanto è già codificato? Esiste una via di mezzo tra il bisogno di vivere in comunità e l'esigenza di libertà dell'individuo?
Nella ricerca della risposta a queste domande, mi guidano due convinzioni. La prima: sarà l'intelligenza a salvarci dal conformismo. Solo esercitando in continuazione lo spirito critico l'uomo potrà reagire a forze e strutture sociali che cercano di appiattire la sua identità.
La seconda è che il tentativo messo in atto da parte di pochi, isolati individui, di opporsi alla massificazione si tradurrà nella salvezza per tutti. Le grandi innovazioni, nel pensiero, nelle arti, nelle scienze e in tutti i campi in cui l'essere umano si è cimentato, sono state raggiunte perché qualcuno ha rifiutato le soluzioni obbligate. E ha preferito, magari con rischio e fatica, tentare il nuovo, affidarsi alla sua libertà e all'intelligenza.
Forse è vero: la società umana ha bisogno, come lei afferma, di una buona dose di imbecillità. Ma senza l'intelligenza saremmo ancora all'età della pietra."
"E lei cos'ha contro l'età della pietra?", avrei voluto rispondere. La passione con cui il professore difendeva le sue certezze e il limpido senso morale che da esse traspariva erano ammirevoli. Ma ero convinto che queste sue difese non intaccassero la mia tesi.
Anzi, proprio nel corso del nostro scambio epistolare, per la necessità di ribattere alle sue argomentazioni, approfondii quella che era stata solo un'intuizione, ed ebbi ulteriori prove della fondatezza delle idee che ormai andavo sviluppando.
Ero pronto a concedere che la società possa tollerare una circolazione limitata di intelligenza, ma solo fino a quando questa non rischia di bloccare l'attività del sistema. Nel suo insieme, la struttura resterà comunque e necessariamente stupida, perché solo un tale stato di cose ne garantisce il funzionamento.
Se non è trasformata in utensile, alla portata di qualsiasi cretino, la gerarchia non può esistere né resistere.
Ma cosa accade se in una burocrazia si fissano compiti con un grado di difficoltà troppo alto? In questi casi, se non si autodistrugge, la struttura dimostrerà una sorprendente capacità di adattamento verso il basso.
Quasi sempre, alle origini delle gerarchie vi sono uomini d'eccezione, che creano qualcosa di irripetibile. Cavour, Bismarck, De Gaulle concepiscono l'Italia unita, l'Impero tedesco, la Francia contemporanea e riescono nel loro progetto, in virtù delle proprie doti. Le grandi aziende, quasi tutte, sono parimenti sorte per l'energia e la capacità (anche visionaria) di persone di valore.
Ma il genio muore (va in pensione, passa alla concorrenza), portandosi appresso i suoi talenti. La struttura sociale, invece, una volta messa in piedi, deve continuare il proprio cammino. L'Italia ha dovuto fare a meno di Cavour, la Germania di Bismarck, la Walt Disney di Walt Disney. Si pone il problema della successione: dopo di lui, chi manderà avanti la baracca? Si può cercare di sostituire il genio con qualcuno capace di assicurare uno standard elevato di comportamenti. Ma è un tentativo destinato al fallimento. Per due motivi. Prima di tutto, le grandi doti intellettuali non si prestano a venir
tradotte in un insieme di regole: si esprimono con la creatività, l'originalità, non solo con il metodo. E poi, anche se fosse possibile codificare le azioni geniali, sarebbero necessarie persone di straordinario talento per garantirne l'esecuzione.
E una burocrazia che dovesse dipendere, per il proprio funzionamento, da una merce così rara
come il genio, sarebbe spacciata in partenza.
L'organizzazione deve poter sopravvivere senza le doti del cervelluto padre fondatore. Può farlo solo se scende alla misura dell'imbecille, in modo da non avere alcuna difficoltà nel reperimento della materia prima. Questo intendeva Stalin, quando disse che persino una cuoca può sostituire un capo di stato (sconsiglierei il contrario). Se l'organizzazione sociale funziona, non c'è alcuna possibilità di errore: è a portata di cretino (e chi la
guida, o ci fa, o ci è).
A ridurla così è, normalmente, il genio che le dà vita. Egli sa che se disegnasse una gerarchia a sua immagine e somiglianza, la condannerebbe a morte. E, infatti, dopo aver creato gl'imperi (economici, militari, politici), i fondatori dedicano tutto il loro impegno a renderli scemi. Se sono onesti. (È un'altra dimostrazione del fatto che la maggior produttrice di stupidità è l'intelligenza).
Capita, anche, che alcuni leader mantengano artificiosamente alti i compiti richiesti all'interno della struttura che guidano. Lo fanno per rendersi indispensabili, insostituibili (se anche uno stupido fosse in grado di svolgerne i compiti, rischierebbero il posto). Di norma, si tratta di manager di primo piano, bravissimi, ma deleteri, perché, a questo modo, tengono sotto ricatto le aziende a essi affidate e le condannano a traballare o a sfaldarsi, quando le lasceranno. Violano, e non possono non saperlo, la regola fondamentale per il consolidamento e l'efficienza di ogni burocrazia: sminuire continuamente il livello delle qualità minime richieste per farne parte, in modo da espanderla, abbassando il vertice e allargando la base.
La soluzione più frequente per sostituire l'ingegnoso fondatore è, di solito, questa: dividere i suoi compiti fra più persone, per supplire con la quantità al calo di qualità. C'è la divertente convinzione che si possa ottenere un genio sommando due mezzi geni. Appare logico che quello di cui era capace un grande, da solo, possa riuscire a una coppia di mediocri. Ma non è così: ci si accorge ben presto che l'intelligenza non cresce con l'addizione. Come la non sommabilità della luce è il limite del nostro universo (più rapidi di 300 mila chilometri al secondo non si può andare), la non sommabilità dell'intelligenza si rivela essere il limite della nostra specie. Con la stupidità, al contrario,
l'addizione funziona. Lo si evince dai risultati. E quando i ruoli che una persona di talento svolgeva da sola vengono parcellizzati, al posto del creatore della gerarchia (azienda o altro), sale una miriade di co-presidenti, amministratori, responsabili tecnici e commerciali, sottosegretari, funzionari, capi sezione... Ciascuno con il proprio ambito ben definito, con la sua minuscola funzione, da curare secondo norme catalogate.
La suddivisione parossistica dei compiti è la salvezza delle strutture sociali, perché, a forza di sminuzzarli, si arriverà al punto in cui, a ogni livello, si richiederà di attenersi a comportamenti e regole così semplici, che chiunque sarà in grado di osservarli. A questo punto, l'organizzazione è diventata un utensile e può sfidare il tempo.
Fra i costruttori di gerarchie, il vero genio è colui che mette le cose in modo da rendere superflue le proprie, strepitose capacità. Se l'impresa "riduzione a utensile" non riesce, la struttura muore. È quello che accade tutti i giorni. Quante aziende sono fallite appena dopo la morte del fondatore? I figli del capitano d'industria, i vicepresidenti, quei personaggi di secondo piano che la figura del capo lasciava nell'ombra, non sono sempre all'altezza del Numero 1. E se, quando lo sostituiscono, il sistema non è già alla portata di un cretino", finiscono per distruggere quanto l'altro aveva creato.
Dopo la morte di Cavour, l'Italia non riuscì a risolvere i tanti problemi posti dall'unificazione e ne paghiamo ancora le conseguenze; la Germania, quando il Kaiser decise di poter fare a meno di Bismarck, si avviò verso un delirio di onnipotenza che la portò alla rovina della prima guerra mondiale. E gli unni dopo Attila, i mongoli dopo Gengis Khan e suo figlio?
La gerarchia che ha bisogno, non diciamo di geni, ma anche solo di persone troppo capaci, si estinguerà per mancanza di rifornimenti. Pertanto, le strutture sociali più stupide prosperano, quelle più intelligenti, muoiono. Ne consegue che: L'imbecillità può solo aumentare.
Questa è la Quarta legge sulla fine dell'intelligenza.
Non ci sono apparentemente limiti alla parcellizzazione delle funzioni che porta qualsiasi società umana alla misura del cretino. La sapienza popolare sostiene che, una volta toccato il fondo, si possa solo risalire. Ma le cose non stanno così, nel nostro caso (qualcuno ha ricordato che, toccato il fondo, si può ancora scavare). Una struttura, pur pregna di imbecilli, tenderà comunque a espandersi, a sminuzzare ulteriormente i compiti, ad abbassare, fin che può, i requisiti minimi per farne parte.
Ma c'è un limite? Sì: è zero. Il numero sta a indicare sia il livello di intelligenza, che la quantità di mansioni da svolgere per riuscire a diventare membro della gerarchia. Detto in altro modo: la società perfetta è quella in cui l'unico talento richiesto per potervi entrare è... entrarvi. E non fare, assolutamente, nulla.
La cosa è dimostrata, una volta per tutte, dalle conclusioni cui giunse, a suo tempo, uno dei più acuti studiosi di sistemi organizzativi umani, l'inglese Lord Northcot Parkinson (niente a che fare col famoso morbo. Anche se ...). Egli divenne. giustamente famoso per aver scoperto che qualsiasi burocrazia, per il semplice fatto di esistere, tende
a crescere secondo un tasso minimo del 5 per cento annuo. Questa non è che una diversa formulazione della Quarta legge sulla fine dell'intelligenza (che è stata appena enunciata), ma ha il pregio di quantificare il gradiente di sviluppo delle società a misura di cretino. Attenzione: la struttura moltiplica il numero delle persone necessarie al suo funzionamento, senza che ci sia alcuna necessità di aumentare anche la mole e la qualità del suo lavoro. In altre parole: la folla di imbecilli richiesta per fare le stesse cose, cresce continuamente.
Il cinque per cento annuo è tanto: vuol dire che, in meno di vent'anni, nella società-utensile, le funzioni che prima erano curate da uno solo diventano competenza di due. Il personale è raddoppiato e ogni membro di quella burocrazia farà la metà di prima, poi un quarto, poi un ottavo... Questo, pur sempre nel caso di una struttura sociale che qualcosa faccia. Perché non è affatto necessario che essa abbia un lavoro (pur minimo) da svolgere. Può tranquillamente non averne, senza che la sua tendenza al gigantismo ne soffra. Lord Parkinson ha dimostrato che ogni organizzazione umana, indipendentemente dalla sua natura, continuerà a espandersi anche nel caso che non abbia nulla, ma proprio nulla, da fare.
Tale spinta interna all'accrescimento contemporaneo delle strutture sociali (in numero e dimensione) e della loro imbecillità è caratteristica della nostra specie. La stupidità si muove nel mondo come un corpo vivo e vorace che conquista sempre nuovi spazi. L'aumento della quantità è considerato cosa buona, la conferma d'essere sulla giusta via. Tanto da essere accompagnato da una sensazione di piacere. "Solo di recente", ha scritto Eibl-Eibesfeldt in L'uomo a rischio, "si è scoperto che è negativo." Ma ancora nessun cretino è disposto ad ammettere a cuor leggero di essere tale; tantomeno se occupa una posizione di responsabilità. E quando un incapace giunge al vertice di una burocrazia, si pone il problema di mascherare o compensare la propria insufficienza. Il metodo cui ricorre ha tutta l'aria di essere una specie di "furbizia evolutiva", con cui le strutture sociali si assicurano un'ulteriore crescita di dimensioni e imbecillità. Ancora una volta, è stato Lord Parkinson a scoprire il principio moltiplicatore, che recita così: "L'incompetente tende a nascondere la propria incompetenza dietro l'aumento delle competenze".
Questa specie di scioglilingua descrive un comportamento osservabile in tutte le attività umane.
Chi non è capace di fare una cosa, cercherà di farne molte. Chi non riesce a svolgere con successo i compiti che ha, se ne procurerà altri (aggiuntivi, non sostitutivi). In questo modo potrà giustificarsi: "Se devo fare tutto io, non posso farlo anche bene. È già tanto che riesca a ... ". Va detto che tale modo di agire non è necessariamente consapevole. L'incapace che si comporta così, può farlo anche in buona fede: vede che le cose non marciano come vorrebbe e si dà da fare, si impegna, spende se stesso più di prima. Soltanto che è un darsi da fare catastrofico. (Apparentemente, perché il risultato più importante e non voluto, moltiplicare la stupidità, lo ottiene). Ormai ai vertici delle organizzazioni umane ci sono persone che cumulano su di sé una quantità di mansioni impressionante. Si tratta persino, a volte, di incarichi fittizi, del tutto ininfluenti sul funzionamento della struttura e moltiplicati per clonazione, al solo scopo di rendere più spessa la cortina dietro cui si cela un incompetente.
L'intero meccanismo è chiaro quando si sommano (curioso che nessuno lo abbia fatto sinora)
il principio di Peter (a) e la legge di Parkinson (b): "In una gerarchia, ogni uomo tende a salire sino a che si rivela incapace (a); da quel momento in poi, comincia a moltiplicare i suoi compiti, per nascondere la propria incompetenza (b)".
Tale sistema (potremmo chiamarlo moto ascendente delle gerarchie, perché porta i più stupidi dal basso in alto) ricorda molto da vicino quello che spinge ogni specie all'aumento della propria massa biologica.
Le società umane si comportano come esseri viventi. Dei quali mostrano di avere la stessa pulsione, quasi un istinto, ad accrescersi, a dilatarsi. È come se avvertissero che nella continua espansione c'è la sicurezza di sopravvivere.
La storia fornisce ottimi esempi di questo sistema nei suoi aspetti fondamentali. Uno dei migliori è la formidabile estensione dell'impero di Carlo V.
Il rampollo di casa d'Asburgo trovò concentrate sul suo capo, quando era ancora un bambino, le corone di mezza Europa, per via di oculati matrimoni contratti dai suoi antenati. Erede di Spagna, Borgogna, Austria, Boemia, Italia, e altro; destinato a divenire Imperatore del Sacro Romano Impero; ma assolutamente inadatto a un ruolo così impegnativo.
E come tutti coloro che, incapaci di affrontare un problema, lo ingrandiscono, Carlo V, dopo aver accumulato tutti questi domini, estese il suo impero al continente americano, del quale ampi territori divennero preda del colonialismo spagnolo. Ma le navi che portavano in Europa le favolose ricchezze delle terre appena scoperte non risolsero i problemi. Semmai li appesantirono. L'improvvisa abbondanza di metalli preziosi, oro e argento, ne fece
crollare il valore, determinando così un generale innalzamento dei prezzi. In Europa, e particolarmente nei possedimenti di Carlo V, si scatenò una devastante crisi economica, che fece peggiorare ancora la situazione, già drammatica.
Altrettanto si può dire della strategia di governo di Adolf Hitler. Il dittatore, giunto alla testa di un grande paese in pieno caos politico, sociale ed economico, non fu in grado di raddrizzarne le sorti; ubriaco di potere, esportò i guai del suo paese nel resto del continente, moltiplicandoli e aggravandoli, prima con l'annessione alla Germania
dell'Austria e dei Sudeti; poi provocando la più immane catastrofe della storia europea. Infine, incapace di sconfiggere la Gran Bretagna, si lanciò contro l'Unione Sovietica, e spinse gli Stati Uniti a intervenire anche nella guerra europea. Quando ormai l'epilogo era prossimo, l'Armata Rossa alle porte di Berlino, Hitler, chiuso nel suo bunker stendeva i piani per nuove invasioni.
Questi modelli macroscopici illustrano in modo esemplare quanto accade tutti i giorni sotto i nostri occhi. La cronaca degli ultimi anni, le vicende economiche in particolare, offrono un campionario inesauribile. Molte industrie, attività finanziarie che sembravano destinate a consolidare il proprio successo, sono state condotte al tracollo da disegni spansionistici di dirigenti che tentavano di mascherare la personale incapacità dietro l'aumento delle competenze.
Questo appare evidente soltanto quando provoca conseguenze drammatiche. Il che avviene di rado. Nelle situazioni normali, moltiplicare gli incarichi non fa danni; al contrario, garantisce il funzionamento delle strutture a misura di imbecille.
Il disastro causato dal gigantismo parossisticamente prova che le società umane sanno soltanto espandersi o perire; o espandersi e perire, perché lo sviluppo senza limiti può risultare distruttivo, paralizzante.
Anche in natura, l'incremento della massa biologica non è sempre vantaggioso.
Riporto qui uno scambio di battute che ebbi con Konrad Lorenz. Il professore mi spiegava che, per la specie umana, l'incontrollata spinta all'aumento è ormai un pericolo molto serio. "L'economia cresce in maniera esplosiva, da tutte le parti", mi diceva. "I sostenitori di questo modello di sviluppo affermano che le aziende devono continuare a ingrandirsi o falliranno. E, per giustificare questa tesi, aggiungono che anche gli alberi crescono continuamente. La crescita sarebbe insomma un fatto naturale."
"E non è vero?", gli chiesi. "Sì, ma solo fino a un certo punto. Le ricordo un detto popolare: "Gli alberi non crescono mai fino al cielo". Persino quelli secolari, più grandi, più alti, a un certo punto si fermano. Perché se continuassero a crescere senza limiti, il vento spezzerebbe i rami, la linfa non riuscirebbe a raggiungere la cima, e ben presto morirebbero." E nel dirlo, il grande scienziato indicò il bosco, sulla collina.
"Questo è vero", riprese, "per tutti gli esseri viventi. Diventare troppo grandi, vuol dire diventare vulnerabili, e condannarsi all'estinzione. Come dinosauri: di crescita si può morire." Quando visitai il Cremlino (ero a Mosca per intervistare l'ex ministro degli esteri, Shevardnadze), un collega russo mi fece da guida. Mi mostrò un cannone gigantesco: "Il più maestoso mai costruito al mondo", disse. "Pensa che sfracelli!", commentai. "Non ha mai sparato", mi spiegò. "Troppo grande per poter funzionare."
Poco più in là, su un prato, una ciclopica campana. "La più pesante del mondo?", chiesi. "Sì", assicurò la mia guida "ma non ha mai fatto udire i suoi rintocchi. E così grande che, issata su un campanile, si sgretolerebbe da sola."
E io cominciai a capire qualcosa in più dell'impero russo-sovietico. E di altro.
Lo sviluppo senza confini non esiste in natura, né per le società umane. Ogni organismo ha un suo limite e tende a raggiungerlo; se la crescita non si arresta e lo supera, arriva la catastrofe. E disastro, comunque, è solo l'eccezione dovuta all'eccesso; da un certo punto di vista, un semplice caso di cattivo funzionamento della stupidità (se persino l'intelligenza ha le sue défaillances... ).
Eppure, l'incapace, nella fase in cui dilata le sue competenze, esercita un fascino irresistibile. Le masse lo adorano, lo seguono acriticamente in qualsiasi avventura.
Qualche interessante osservazione viene dagli studi di un acuto ricercatore, Erich von Holts e da una sua indagine, semplice, ma di grande portata per le scienze del comportamento (non solo animale). Von Holts si interessò ai cabacelli, minuscoli pesci che si spostano in branco alla ricerca del cibo. Ogni tanto, uno di loro si stacca dal gruppo e nuota, da solo, in una direzione diversa. E non è detto che sia quella giusta: potrebbe non esserci cibo, di là, o persino nascondersi un predatore in agguato. Il cabacello indipendente si
volta a guardare cosa fa il branco; soltanto se gli altri, convinti della sua scelta, lo seguono in numero sufficiente, lui, confortato, prosegue.
Altrimenti, rientra nel mucchio. È il modo d'agire tipico degli animali che vivono in branchi, in stormi. Von Holts privò un esemplare della parte anteriore del cervello, quella che sovrintende alle attività di gruppo, alla vita sociale. Il pescetto continuò a comportarsi in tutto e per tutto come gli altri ma, quando si separava dal branco, non si girava più indietro per osservarne le reazioni. Lui tirava diritto, senza esitazioni.
E l'intero branco lo seguiva. L'unico pesce senza cervello era diventato il capo indiscusso. E proprio a causa del suo difetto. Nessuno è tanto determinato, come chi non sa dove sta andando. Lo ammise (parlava di sé) anche Oliver Cromwell, uno dei padri della potenza inglese.
Ma, prima o poi, il cabacello decerebrato porterà il branco in bocca al predatore. E sarà la strage. Eppure, troverete sempre qualcuno che commenterà: "Che condottiero, quel cabacello. Se non avesse fatto quell'unico, fatale errore...".
Tratto dal libro Elogio dell'Imbecille di Pino Aprile  - EDIZIONI PIEMME 1997  Indice Pagina    Indice Forum

SULLA STUPIDITA' di Robert Musil

[Conferenza tenuta a Vienna l'11 e il 17 marzo 1937 su invito della Lega austriaca del Lavoro]
Sulla stupidità. Signore e signori!
Oggi chi si azzarda a parlare della stupidità corre pericolo di rimetterci da più di un punto di vista. L'iniziativa può essere interpretata come presunzione, può addirittura essere interpretata come disturbo del progresso contemporaneo. Io stesso avevo scritto diversi anni fa: " Se la stupidità non assomigliasse tanto al progresso, al talento, alla speranza e al miglioramento che a malapena la possiamo distinguere, nessuno vorrebbe essere stupido". Allora era il 1931. E nessuno oserà dubitare che anche dopo di allora il mondo abbia visto progressi e miglioramenti! E così a poco a poco diventa, per così dire, sempre più indifferibile
chiedersi: ma che cos'è, in fondo, la stupidità?
E neppure vorrei trascurare il fatto che, come poeta, la stupidità è una mia vecchia conoscenza. Potrei anzi dire persino che più volte ho avuto con lei dei rapporti camerateschi! In campo letterario, per di più, non appena uno apre gli occhi si trova di fronte a una resistenza che non si può descrivere, che sembra in grado di assumere qualsiasi forma. Forme personali: per esempio la forma dignitosa di un professore di storia della letteratura, il quale, abituato a prendere di mira bersagli posti a distanze incontrollabili,
sul presente fa disastrosamente cilecca. Ma anche forme generali ed evanescenti, come la trasformazione subita dalla valutazione critica a causa della valutazione commerciale da quando Iddio, nella sua bontà che per noi è arduo comprendere, concesse la lingua dell'uomo anche ai produttori di pellicole col sonoro. Ho già descritto in più di un'occasione un certo numero di questi fenomeni, e non è necessario né ripetere, né completare la lista (e non sarebbe neppure possibile, a quanto pare, con la tendenza al gigantismo oggi universale). Basti sottolineare questo, come risultato certo: se un popolo non è fatto per intendere l'arte, ciò non apparirà soltanto nei tempi duri, e in modo brutale, ma anche nei tempi buoni, e in ogni sorta di modi.
Insomma: fra la persecuzione e il divieto di un'opera, da un lato, e il dottorato ad honorem, una nomina accademica, l'assegnazione di un premio, dall'altro lato, la differenza è solo di grado.
Ho sempre supposto che la resistenza multiforme opposta da un popolo, il quale si vanta del suo amore per l'arte, contro l'arte e le sottigliezze dello spirito non sia altro che stupidità. Forse una sua specie particolare, una forma particolare di "stupidità artistica"; e forse anche di "stupidità del sentimento". E, in ogni caso, supponevo che si manifestasse in questo modo: colui che di solito chiamiamo "un bello spirito" è, al tempo stesso, un bello stupido. Né oggi vedo molti motivi per recedere dalla mia opinione. Naturalmente non si deve addossare alla stupidità tutto ciò che sfigura un'aspirazione "pienamente umana" come l'arte. Bisogna lasciare un po' di posto anche per le diverse forme di mancanza di carattere, come insegnano, in particolare, le esperienze degli ultimi anni. Ma non si obietti che qui il concetto di stupidità non c'entra affatto, perché esso si riferisce all'intelletto, non ai sentimenti, mentre l'arte è cosa del sentimento. Sarebbe un errore. Persino il godimento estetico è giudizio e sentimento. E vi chiedo il permesso di non fermarmi a questa grande formula, che ho preso in prestito da Kant: ma di ricordare che Kant parla di una capacità di giudizio estetico e di giudizio di gusto, e riprendere ancora una volta le antinomie a cui ciò conduce.
Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, poiché altrimenti su di esso potremmo condurre una vera discussione (arrivando a una decisione attraverso delle prove).
Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti, poiché altrimenti su di esso non potremmo neppure litigare (né cercare un'intesa).
E adesso vorrei domandare se un simile giudizio e una simile antinomia non siano anche alla base della politica e, in generale, di tutta la nostra vita scombinata. Dove il giudizio e la ragione sono di casa, non bisogna aspettarsi anche la presenza delle loro sorelle e sorelline, le diverse forme di stupidità? Ma, sull'importanza della stupidità, tanto basti.
Nel suo incantevole e a tutt'oggi freschissimo Elogio della pazzia Erasmo da Rotterdam non ha forse scritto che senza certe stupidaggini l'uomo non sarebbe neppure venuto al mondo?
La stupidità ci domina con travolgente impudicizia. Quanto ciò sia vero si avverte anche dalla reazione di coloro, e sono molti, che, di fronte a una persona di loro fiducia che abbia deciso di evocare l'orrendo mostro chiamandolo per nome, rispondono con una sorpresa incoraggiante e cospiratoria." Ho potuto fare questa esperienza, all'inizio, innanzitutto con me stesso. Ma constatai presto che essa possiede validità storica, quando mi misi alla ricerca di predecessori nello studio della stupidità. (E ne ho trovati ben pochi, stranamente pochi: ma le persone savie, a quanto pare, preferiscono scrivere sulla saggezza!) Allora ricevetti, inviatomi, da un dotto amico, il testo stampato di una conferenza tenuta nel 1866 da Johann Eduard Erdmann, allievo di Hegel e professore a Halle. Questa conferenza, che si intitola Della stupidità, comincia subito dicendo che già il suo annuncio era stato salutato da grasse risate. Da quando so che una cosa del genere può capitare perfino a uno hegeliano, sono convinto che un simile comportamento degli uomini nei confronti di coloro che vogliono parlare della stupidità sia un caso del tutto particolare. E mi sento assai insicuro, nella convinzione di aver sfidato una forza psicologica immensa e profondamente contraddittoria.
Perciò voglio confessare subito che di fronte ad essa sono in una posizione d'inferiorità: perché non so che cosa sia. Non ho scoperto nessuna teoria della stupidità con cui
accingermi a salvare il mondo.. Anzi, entro i confini della riservatezza scientifica non ho trovato neppure una ricerca specificamente dedicata alla stupidità; e nemmeno nello studio di argomenti analoghi ho trovato il minimo accordo sulla definizione del suo concetto. Può darsi che sia colpa della mia ignoranza. Ma è più probabile che la domanda " Che cos'è la stupidità? " risponda tanto poco alle abitudini del pensiero attuale quanto le domande su "che cosa" siano la bontà, la bellezza o l'elettricità. E tuttavia il desiderio di dare una forma a questo concetto, e di dare la risposta più sobria possibile a questa domanda preliminare di tutta la nostra vita era molto forte. Così anch'io, un bel giorno, soggiacqui al fascino della domanda: "Che cos'è "realmente" la stupidità? ". Mentre i miei doveri e le mie capacità professionali avrebbero dovuto piuttosto indurmi a descrivere in che modo la stupidità "si mette in mostra". Non volendo affidarmi ai mezzi poetici, e non essendo in grado di basarmi su mezzi scientifici, cercai di cavarmela, nel modo più ingenuo, con un vecchio trucco sempre a portata di mano in simili casi: studiando semplicemente l'uso della parola "stupido" e derivati, andando alla ricerca degli esempi più comuni e tentando di mettere un po' d'ordine negli appunti che raccoglievo in questo modo. Tale procedimento, purtroppo, ha sempre qualcosa della caccia alle cavolaie. Credi di aver visto qualcosa, e lo insegui per un po' senza perderlo di vista; ma siccome da altre direzioni si stanno avvicinando, con identico volo a zig zag, tante altre farfalle assolutamente identiche, presto non sai più se stai inseguendo sempre la stessa. Neppure osservando gli esemplari della specie "stupidità" sarà sempre possibile distinguere se tra di essi esista realmente un legame originario, o se l'attenzione è passata inavvertitamente dall'uno all'altro in forza di una somiglianza meramente esteriore; e non sarà affatto semplice metterli tutti d'accordo sotto un cappello del quale si possa dire: questo appartiene realmente a uno stupido.
Da che parte cominciare? In queste condizioni, fa più o meno lo stesso. Cominciamo, dunque, in un modo qualsiasi. E tanto vale cominciare con questa difficoltà iniziale: chiunque voglia dire oppure ascoltare con profitto una cosa qualunque a proposito della stupidità, deve presupporre di non essere egli stesso stupido. Perciò egli ostenta la sua intelligenza, benché ciò sia generalmente considerato un segno di stupidità! Ma se ci domandiamo perché sia considerato da stupidi ostentare la propria intelligenza, la risposta che per prima s'impone sembra emergere dalla polvere di tempi andati. Perché tale risposta suona: è più prudente
non mostrarsi intelligenti. È probabile che questa prudenza, così malfidata e oggi, a tutta prima, addirittura incomprensibile, trovi la sua origine in una situazione nella quale, per il più debole, era davvero più intelligente non farsi passare per intelligente: la sua intelligenza avrebbe potuto minacciare la vita del più forte! La stupidità, al contrario,
sopisce la diffidenza, la "disarma ", come diciamo ancora al giorno d'oggi. Infatti tracce di questa furberia, di questa stupidità "astuta", si trovano realmente tuttora in alcune
situazioni di dipendenza. In esse le forze sono distribuite in modo così disuguale, che il più debole cerca la propria salvezza nel far finta di essere più stupido di quel che è. Pensiamo per esempio alla cosiddetta scaltrezza contadina; al comportamento dei domestici quando parlano con dei padroni colti e dalla lingua sciolta; ai rapporti del soldato con i superiori, dello scolaro con il maestro e del bambino con i genitori. Chi detiene il potere si sente meno provocato da un debole che non può, piuttosto che da un debole che non vuole. La stupidità lo riduce addirittura "alla disperazione": cioè innegabilmente in una condizione di debolezza!
A questo corrisponde in modo perfetto che l'intelligenza lo mette facilmente "sul chi vive"! Essa viene certamente apprezzata nei subordinati; ma solo finché è unita a un'incondizionata devozione. Nell'istante in cui questo certificato di buona condotta viene a mancare, quando non è più tanto sicuro se l'intelligenza serve ancora al tornaconto del padrone, essa di solito non viene più chiamata intelligenza ma presunzione, insolenza, o malizia. E spesso ne nasce un rapporto nel quale l'intelligenza sembra, se non altro, menomare l'onore e l'autorità del padrone, anche se in realtà non attenta alla sua sicurezza. In campo educativo la
stessa cosa si esprime nel fatto che un alunno intelligente e caparbio viene assai più strapazzato di un alunno indolente e ottuso. In campo morale ne è nata l'idea che una volontà
debba essere tanto più cattiva, quanto migliore è il sapere contro il quale essa agisce. Neppure la giustizia si è del tutto sottratta a questo pregiudizio personale, tanto è vero che
giudica per lo più con particolare sfavore, come "raffinata" e " crudele ", l'esecuzione intelligente di un delitto. E per trovare esempi nella politica ciascuno avrà solo l'imbarazzo
della scelta.
Ma anche la stupidità - non si potrà non obiettare a questo punto - può essere una provocazione. Non è affatto detto che abbia un effetto calmante in ogni circostanza.
Insomma, per farla breve, la stupidità di solito suscita impazienza, ma in qualche caso non comune anche crudeltà. Non è forse vero che spesso i ripugnanti eccessi della morbosa crudeltà comunemente chiamata sadismo ci mostrano degli stupidi nella parte della vittima? Evidentemente ciò avviene perché costoro diventano più facilmente degli altri preda degli uomini crudeli. Ma sembra entrare in gioco anche la circostanza che la loro incapacità di resistere, che si avverte da tutti i punti di vista, eccita selvaggiamente l'immaginazione, come l'odore del sangue eccita la voluttà della caccia. Essa li attira in un vuoto nel quale la crudeltà va "troppo oltre" quasi soltanto perché non incontra limiti da nessuna parte. Qui nell'aguzzino c'è un elemento di sofferenza, una debolezza implicita nella sua brutalità. Il sentimento privilegiato di indignazione davanti alla pietà offesa raramente permette di notarlo: ma anche per la crudeltà, non solo per l'amore, ci vogliono due persone fatte l'una per l'altra! Continuare questa discussione sarebbe certo importante, per un'umanità come quella dei giorni nostri, tormentata dalla propria "vile crudeltà verso i più deboli" (non è forse questa la perifrasi più usata del concetto di sadismo?). Ma se consideriamo la linea principale del problema di cui ci stiamo occupando, e torniamo alla nostra rapida raccolta di primi esempi, anche quanto ne è stato detto fin qui deve già essere considerato una
digressione. Tutto sommato, non ne potremo ricavare più di questo: vantare la propria intelligenza potrà anche essere stupido; ma non sempre è intelligente farsi la fama di stupidi. Non si può generalizzare. O, se non altro, l'unica generalizzazione consentita dovrebbe essere questa: la cosa più intelligente, a questo mondo, è farsi notare il meno possibile! Non è certo la prima volta, in effetti, che si dice così, tirando le somme di ogni saggezza. Ancora più spesso, tuttavia, questa conclusione misantropica viene utilizzata soltanto a metà, oppure solo in senso simbolico, sostitutivo; e allora siamo indotti a considerare la portata dei comandamenti che invitano alla modestia, e di comandamenti ancora più generali, senza per questo abbandonare del tutto la sfera della stupidità e dell'intelligenza.
Sia per paura di passare da stupidi, sia per paura di offendere la buona creanza, molti si considerano intelligenti ma non lo dicono. E se proprio si sentono obbligati a dire la
loro, usano delle perifrasi. Per esempio: "Non sono più stupido di un altro". Ancora più volentieri si osserva, con il tono più distaccato e oggettivo possibile: "Di me posso dire
che ho un'intelligenza normale". A volte la convinzione di essere intelligente viene alla luce sottobanco, come nella locuzione: "Non mi faranno passare per stupido!". Ancora più degno di nota è che non è soltanto il singolo individuo, nei suoi pensieri, a considerarsi intelligente e dotato in modo straordinario, senza dirlo a nessuno. Anche l'uomo che agisce nella storia dice o fa dire di sé, non appena ne ha il potere, che egli è intelligente, ispirato, degno, sublime, misericordioso, eletto da Dio e chiamato a segnare nella storia un'orma incommensurabile. E lo dice volentieri anche di un altro, quando sente che, di riflesso, un po' di lustro cade anche su di lui. Titoli e appellativi come Maestà, Eminenza, Eccellenza, Vostra Magnificenza, Vostra Grazia conservano queste tendenze allo stato fossile, quasi prive, ormai, del soffio della coscienza. Ma esse recuperano immediatamente tutta la loro vitalità quando l'uomo, oggi, parla come massa. Una sorta di ceto medio-basso dello spirito e dell'anima, in particolare, si abbandona del tutto spudoratamente al proprio bisogno di presunzione, non appena può farsi avanti dietro l'usbergo del partito, della nazione, della setta o della tendenza artistica e può dire "noi" invece di "io".
Con una riserva talmente ovvia che possiamo anche lasciarla da parte, questa presunzione potrebbe anche essere chiamata "vanità". Oggi l'anima di molti popoli e di molti Stati è dominata da sentimenti tra i quali la vanità è innegabilmente ai primi posti. Tra stupidità e vanità, poi, esistono da vecchia data rapporti strettissimi, da cui forse possiamo trarre qualche indicazione. Uno stupido, generalmente, sembra vanitoso già solo perché gli manca l'intelligenza di nasconderlo. Ma a dire il vero non ce n'è nemmeno bisogno, perché la parentela fra stupidità e vanità è diretta. Un uomo vanitoso suscita questa impressione: egli potrebbe fare più di quello che fa. Assomiglia a una macchina che perde vapore da una cattiva saldatura. E vecchio proverbio "Stupidità e disdegno son dello stesso legno" ha proprio questo significato. Come anche l'espressione che la vanità "acceca". Al concetto di vanità noi associamo l'attesa di una minor efficacia realizzativa, poiché il significato principale della parola "vaio" è quasi lo stesso che "inutile". E ci si aspetta un'efficacia minore anche là dove l'efficacia in fondo non manca. Non è raro che la vanità e il talento vadano di pari passo. Ma allora abbiamo l'impressione che il vanitoso avrebbe potuto fare ancora di più, se non si fosse ostacolato da solo. Questa idea, così tenace, di una minor efficacia si rivelerà, andando avanti, l'idea più generale che ci facciamo della stupidità.
Ma, com'è noto, non si rifugge da un contegno vanitoso perché può essere stupido; ma soprattutto perché contrasta con: la buona educazione. "Chi si loda s'imbroda", dice il proverbio. Che cosa vuol dire? Che vantarsi, parlare molto di sé, pavoneggiarsi non viene considerato soltanto una
mancanza d'intelligenza, ma anche una mancanza di buona educazione. Questi comportamenti, se non vado errato, violano alcuni precetti della buona creanza che fanno parte delle regole multiformi che prescrivono nei rapporti umani un contegno riservato e un certo distacco. Essi hanno lo scopo di non offendere la presunzione altrui, che, si presuppone, non sarà minore della propria. Tali norme prescrivono una "distanza". Esse condannano anche l'uso delle parole troppo franche, regolano il saluto e il modo di rivolgere la parola alla gente, non permettono di contraddire l'interlocutore senza scusarsi, né di cominciare una lettera coti la parola "Io". Impongono, in breve, determinati accorgimenti per non offendere gli altri con una "vicinanza" importuna. Il loro compito è appianare e livellare i contatti, facilitare l'amore del prossimo e l'amor proprio, mantenere una temperatura media, per così dire, ai rapporti umani.
Tali prescrizioni si ritrovano in ogni società; in quella primitiva, anzi, ancor più che in quella altamente "civilizzata".
Neppure la società animale, alla quale manca la parola, le ignora, come si desume facilmente da molti dei suoi riti. Ma queste "prescrizioni di distanza" vietano di lodare con troppa insistenza non solo se stessi ma anche gli altri. Dire in faccia a qualcuno che è un genio o un santo sarebbe quasi altrettanto disdicevole che affermarlo di sé; come per la sensibilità dei nostri giorni imbrattare il proprio volto e strapparsi i capelli non sarebbe affatto meglio che insultare un'altra persona. Ci limitiamo a osservare che non siamo più stupidi né peggiori degli altri, proprio come si era già: detto! Evidentemente le espressioni smodate e indisciplinate
sono all'indice, nelle situazioni bene ordinate. Poco fa si parlava della vanità dei popoli e dei partiti, che si credono, particolarmente illuminati, e perciò superiori a tutti gli
altri. Aggiungiamo che la maggioranza, quando non incontra ostacoli (proprio come l'individuo megalomane nei suoi sogni a occhi aperti), è convinta di avere l'appalto non soltanto dell'intelligenza ma anche della virtù. Essa si trova; nobile, prode, invincibile, pia e persino bella. Nel mondo c'è una strana tendenza: quando gli uomini si trovano in gran numero, si permettono tutto ciò che è vietato ai singoli individui. Insomma, il "Noi" ingrandito ha tanti e tali privilegi che il crescente incivilimento e addomesticamento': dell'individuo sembra compensato da un imbarbarimento direttamente proporzionale ad esso, delle nazioni, degli
Stati, dei gruppi uniti dalla comunanza di idee. In ciò, evidentemente, si manifesta un disturbo della sfera emotiva, un disturbo dell'equilibrio emotivo che in sostanza precede la distinzione tra "Io" e "Noi", e anche ogni valutazione morale. Ma tutto ciò non si potrà non domandarsi - :é ancora stupidità? Ha ancora un riferimento qualsiasi con la stupidità? Egregi ascoltatori: e chi ne dubita? Ma, prima di rispondere, concediamoci un po' di respiro con un esempio non privo di amabilità! Tutti noi, benché in prevalenza noi uomini, e, in particolare, tutti gli scrittori di una certa notorietà che ci sono fra noi, conosciamo la signora che vuole a ogni costo confidarci il romanzo della sua vita. Si direbbe che la sua anima si sia sempre trovata in situazioni molto
interessanti, ma non abbia mai riportato un vero successo. E lei, appunto, se lo aspetta, per la prima volta, proprio da noi. È stupida questa signora? Di solito un non so che; lasciato in noi da tanta sovrabbondanza d'impressioni, ci sussurra: certo che lo è! Ma la cavalleria, non meno della giustizia, ci costringe ad ammettere che essa non lo è sempre né comunque. Quella signora parla molto di sé, e parla, molto, in generale. Dà giudizi con grande convinzione, e su tutto. E vanitosa e immodesta. Ci fa spesso la lezione. Nel la sua vita amorosa, di solito, c'è qualcosa che non va, e, in generale, tutta la sua vita non le riesce come dovrebbe. Ma non ci sono anche altri tipi di persone delle quali si possono dire le stesse cose, o almeno la maggior parte? Parlare molto di sé, per esempio, è anche una cattiva abitudine degli egoisti, degli irrequieti e persino di un certo tipo di depressi. E le stesse cose possiamo dirle soprattutto dei giovani,
nei quali fa addirittura parte dei fenomeni della crescita parlare molto di sé, essere vanitosi, fare la lezione, avere nella vita qualcosa che non va, in una parola mostrare le stesse identiche deviazioni dall'intelligenza e dalla buona educazione. Eppure i giovani non sono mica stupidi, O almeno non più stupidi di quanto naturalmente comporti il fatto che - non hanno ancora avuto il tempo di diventare intelligenti!
Signore e signori! I giudizi che nascono dalla vita quotidiana, e dalla conoscenza degli uomini che su di essa si basa, per lo più colgono certo nel segno; ma di solito colpiscono anche intorno al bersaglio, perché non sono nati da una teoria giusta, ma in realtà rappresentano soltanto delle reazioni psicologiche di approvazione o di difesa. Anche l'ultimo esempio, perciò, non insegna nulla più di questo: una cosa può essere stupida, ma non è detto che lo sia, il significato cambia a seconda del contesto in cui appare e la stupidità è fittamente intessuta con molte altre cose, senza che spunti da nessuna parte il filo da tirare per scucire con
un sol colpo questo tessuto. Persino genialità e stupidità sono indissolubilmente legate. Il divieto di parlare molto, e in particolare di parlar molto di sé, sotto pena di passare da
stupidi, viene aggirato dall'umanità con un espediente dei tutto particolare: per mezzo del poeta. Il poeta ha il permesso di raccontare a nome dell'umanità che il pranzo è stato di suo gusto, oppure che fuori c'è il sole; può svelare i moti del suo animo, propalare segreti, fare confessioni; può rendere conto di tutto se stesso senza riguardi (molti poeti, se non altro, ci tengono assai!). Tutto ciò ha proprio l'aria di essere un'eccezione con la quale l'umanità si concede una cosa che normalmente si vieta. In questo modo l'umanità parla ininterrottamente di se stessa! Con l'aiuto del poeta, essa ha già raccontato un milione di volte le stesse storie e le stesse esperienze, variando solo le circostanze, senza che da tutto ciò le sia venuto alcun progresso, né una maggior penetrazione nel suo significato. E allora non dovremmo insinuare il sospetto che anche l'umanità sia stupida, alla fin fine, per l'uso che fa della sua poesia, e per il modo con cui la poesia stessa si adatta a tale uso? Per quanto mi riguarda, non lo ritengo affatto impossibile! In ogni caso tra i campi di applicazione della stupidità e
dell'immoralità - diamo a questa parola un senso lato, oggi non molto usuale: che ha, più o meno, lo stesso significato di "insufficienza spirituale", ma non di "insufficienza intellettuale" - esiste un intricato rapporto, fatto di identità e di differenze. Questo rapporto è senz'altro simile a un concetto espresso da Johann Eduard Erdmann, in un punto importante della summenzionata conferenza, con queste parole: la rozzezza è "la prassi della stupidità". "Uno stato spirituale" disse Erdmann "non si manifesta soltanto con le
parole, ma si rivela anche nelle azioni. Così anche la stupidità. Non soltanto essere stupidi ma agire da stupidi, commettere delle stupidaggini "- insomma: la prassi della stupidità -" O, detto altrimenti, la stupidità in azione, noi la chiamiamo rozzezza. " Questa accattivante affermazione c'insegna dunque, nientemeno, che la stupidità è un difetto del sentimento - poiché la rozzezza per l'appunto lo è! E questo ci riporta dritti a quel "disturbo emotivo" e a quel
"disturbo dell'equilibrio emotivo" al quale si era già accennato senza trovare una spiegazione. Neppure la spiegazione contenuta nelle parole di Erdmann può essere del tutto veritiera. Prescindiamo anche dal fatto che essa ha di mira soltanto la rozzezza, la grossolanità del singolo individuo, in opposizione alla " cultura ", e non abbraccia tutte le forme di applicazione della stupidità ma la rozzezza non può essere ridotta a stupidità, né la stupidità a rozzezza. Pertanto nel rapporto tra emotività e intelligenza, quando si uniscono nella "stupidità applicata", restano parecchie cose da spiegare. Si tratta, per prima cosa, di metterle in luce, e il modo migliore sarà, ancora una volta, il ricorso agli esempi.
Se vogliamo che il concetto di stupidità risalti nella sua vera fisionomia è necessario, prima di tutto, temperare il giudizio che la stupidità sia esclusivamente, o prevalentemente,
un'insufficienza intellettuale. Si era già detto, appunto, che l'idea più generale che ce ne facciamo sembra essere questa: l'incapacità di far fronte a un'attività qualsiasi, una qualunque insufficienza fisica o spirituale. Un esempio assai eloquente lo possiamo trovare nei dialetti delle nostre parti: per indicare un uomo duro d'orecchio, cioè un difetto fisico, si usa la parola derisch o terisch, che sta naturalmente per torisch ed è vicina, pertanto, alla stupidità. Nell'uso popolare, inoltre, l'accusa di stupidità è frequente, proprio
nello stesso senso, anche in altri casi. In una gara, chi cede, o commette un errore nel momento decisivo dice in seguito "Ero come istupidito!", oppure "Non so dove avevo la
testa!", anche se non è molto chiaro dove comincia e dove finisce il contributo della testa nel nuoto o nella boxe. E così fra ragazzi o compagni di sport chi si comporta in modo
maldestro sarà chiamato "stupido" anche se è uno Holderlin. E ci sono dei rapporti d'affari nei quali una persona che non sia astuta e senza scrupoli passa per stupida. In fondo queste sono le stupidità corrispondenti a forme d'intelligenza più antiche di quella oggi pubblicamente riverita. Se non sono male informato, al tempo degli antichi Germani non soltanto le idee morali, ma anche i concetti che indicavano un comportamento esperto, abile e saggio, cioè i concetti intellettuali, sorsero in rapporto alla guerra e alla lotta. Insomma, ogni intelligenza ha la sua stupidità. Persino lo studio della psicologia animale, con le sue prove d'intelligenza, ha scoperto che a ogni "tipo di prestazione" corrisponde un "tipo di stupidità". Se volessimo cercare un concetto generalissimo di intelligenza, da questi paragoni emergerebbe forse il concetto di "abilità". E tutto ciò che è "inabile" potrebbe anche essere chiamato "stupido", all'occasione. In realtà è proprio così, anche quando l'abilità corrispondente a un certo tipo di stupidità non viene designata con la parola "intelligenza". Quale tipo di abilità sta in primo piano, determinando, con il proprio contenuto, il concetto di intelligenza e di stupidità di una data epoca? Dipende dalla forma della vita. Nelle
epoche in cui la vita dell'individuo è insicura saranno l'astuzia, la forza bruta, l'acutezza dei sensi e la destrezza del corpo a improntare di sé il concetto d'intelligenza. Nelle
epoche in cui la concezione della vita, invece, è più spirituale - con le limitazioni purtroppo necessarie si potrebbe anche dire: "più borghese" - il loro posto è preso dall'attività della mente. A voler essere esatti, questo posto spetterebbe alle attività spirituali superiori; ma con l'andar del tempo le prestazioni intellettuali hanno preso il sopravvento, e ora questa preponderanza è scritta sul volto inespressivo dell'umanità indaffarata, sotto la sua fronte dura. Così oggi l'intelligenza e la stupidità sono riferite, come se non potesse essere altrimenti, solo all'intelletto e ai diversi gradi della sua "abilità"; benché ciò, in misura maggiore o minore, sia unilaterale. Il legame originario della parola "stupido" con un'idea generale di scarsa abilità - sia nel significato di scarsa abilità in ogni cosa, sia nel significato di scarsa abilità in un'attività qualsiasi - ha poi una conseguenza di non poco momento: le parole "stupido" e "stupidità", denotando scarsa abilità in generale, possono sempre sostituire, all'occasione, le parole che designano una scarsa abilità specifica. Questo è uno dei motivi per cui l'accusa reciproca di stupidità è oggi così enormemente diffusa. (E, da un altro punto di vista, è anche la causa per cui è così difficile delimitare questo concetto, come i nostri esempi hanno mostrato.) Diamo un'occhiata alle annotazioni in margine a
più di un sussiegoso romanzo passato per un certo tempo fra le mani quasi anonime dei lettori di una biblioteca circolante. Qui, dove il lettore è a tu per tu con il poeta, il suo
giudizio si esprime di preferenza con la parola " Stupido! " O con espressioni equivalenti, come "Imbecille!", "Che assurdità! ", " Stupidità ineffabile! " e così via. Queste sono
anche le prime parole d'indignazione, quando l'uomo affronta in massa l'artista, nelle rappresentazioni teatrali o alle mostre di quadri, e ne viene scandalizzato. E qui bisognerebbe anche ricordare la parola "kitsch", che è di gran lunga la preferita, quale primo giudizio, dagli artisti che giudicano altri artisti. Anche se, almeno per quanto ne so, non si riesce a precisarne il significato, né a spiegare in quali casi è applicabile; se non, forse, mediante il verbo verkitschen. Nell'uso dialettale esso significa "svendere", "dar via sottocosto". Kitsch significa perciò "merce da poco", "roba in svendita"; e credo che abbia questo senso, naturalmente in senso spirituale, ogni volta che viene usata a proposito, anche se soprappensiero.
La parola kitsch ha il senso di "merce in svendita", di "roba di scarto", soprattutto in base al senso primario, ad essa collegato, di merce "inservibile" e "inadatta". Ma questo significato è anche alla base dell'uso della parola " stupido ". Perciò non è esagerato affermare che noi siamo propensi a chiamare "in qualche modo stupido" tutto ciò che non ci va a genio (tanto più se, a prescindere dalla sua stupidità, facciamo finta di riverirlo come elevato prodotto dello spirito, o di un bello spirito!). Per precisare questo "in qualche modo", teniamo presente che l'uso delle espressioni in cui si lancia l'accusa di "stupidità" è strettamente connesso all'uso di quelle, altrettanto imperfette, che stigmatizzano le cose "volgari" e moralmente riprovevoli. Questo ci riconduce a un'osservazione precedente: al comune destino dei concetti "stupido" e "sconveniente". Non solo "kitsch" (espressione estetica di derivazione intellettuale), ma anche termini "morali", come "Ignobile!", "Ripugnante!", "Mostruoso!", "Morboso!", "Sfacciato!", sono piccole critiche d'arte, sono giudizi sulla vita umana ridotti all'osso, atrofizzati. Ma forse queste espressioni, anche se vengono usate alla rinfusa, contengono pur sempre uno sforzo intellettuale, una differenziazione di
significati. Possono tuttavia essere sostituite dall'ultima parola, dall'esclamazione ormai quasi neppure linguistica "Che volgarità!", che sostituisce tutto il resto e può spartirsi il dominio del mondo con l'esclamazione "Che stupidaggine! ". Insomma, evidentemente queste due parole possono sostituire, all'occorrenza, qualsiasi altra parola, perché "stupido" ha assunto il significato di "incapacità generica" e "volgare" quello di "generica offesa alla morale". Se si tende l'orecchio a ciò che gli uomini dicono oggi l'uno dell'altro, sembra che l'autoritratto dell'umanità che emerge inavvertitamente da queste reciproche foto di gruppo giochi soltanto sulle variazioni di queste due sgradevoli tinte verbali!
Può darsi che valga la pena di rifletterci. Non c'è dubbio che queste due parole rappresentino il gradino più basso di un giudizio non sviluppato, di una critica ancora del tutto articolata, la quale sente che c'è qualcosa che non va, ma non è in grado di dire che cosa. L'impiego di queste parole è l'espressione di rifiuto più semplice e più netta che ci sia, è l'inizio di una replica e al tempo stesso la sua fine. E un po' come un "corto circuito". E lo si capirà ancora meglio tenendo conto del fatto che "stupido" e "volgare", qualunque sia il loro significato, sono usati anche come insulti. Il significato degli insulti, si sa, non dipende tanto dal loro senso intrinseco, quanto dall'uso che ne viene fatto. Molti di noi ameranno senza dubbio gli asini, ma si offenderebbero se venissero chiamati così. L'insulto non rappresenta ciò che
dice, ma un misto di idee, di sentimenti e di intenti che l'insulto non può "esprimere" ma solo "segnalare". La stessa cosa, per inciso, vale per le parole alla moda e per le parole
straniere: ecco perché queste ultime sembrano insostituibili, anche se si potrebbero sostituire benissimo. Ed è anche la ragione per cui negli insulti c'è qualcosa di inesprimibilmente provocatorio, che certo corrisponde all'intenzione, ma non al senso specifico. Tutto ciò appare forse nel modo più chiaro dalle parole che dicono i giovani per prendersi in giro: un bambino grida " Busch! ", oppure " Moritz! ", e il suo coetaneo, in base a sottili rispondenze segrete, va su tutte le furie'.

Ma ciò che si può dire degli insulti, delle canzonature, delle parole alla moda e di quelle straniere si può dire anche delle battute di spirito, delle frasi fatte e delle parole
d'amore. L'elemento comune di tutte queste espressioni, altrimenti così diverse, è che sono tutte al servizio di uno stato emotivo. Proprio perché sono imprecise e inappropriate esse sono in grado di sostituirsi, nell'uso, a interi gruppi di parole più calzanti, più oggettive, più esatte. Evidentemente nella vita sentiamo di tanto in tanto il bisogno di servircene. E questo ha il suo valore, perché negarlo? Ma è stupido, non c'è dubbio, quel che avviene in tali casi. O almeno si può dire che segue le orme della stupidità.
Questa situazione si può esaminare nel modo più chiaro ricorrendo all'esempio più illustre di sbadataggine: il panico. Se una persona riceve un'impressione troppo forte, che sia uno spavento improvviso o una pressione psicologica permanente, può succedere che essa, tutto a un tratto, "perda la testa". Può mettersi a strillare, in sostanza proprio come un bambino; può fuggire "alla cieca" davanti al pericolo, oppure precipitarsi, altrettanto ciecamente, proprio in bocca al pericolo; può essere sopraffatta da un impulso irrefrenabile a spaccare tutto, o imprecare, o mettersi a piangere. In fondo essa compie, al posto di un'azione rispondente allo scopo (l'azione che la sua situazione esigerebbe), un gran numero di altre azioni apparentemente - ma troppo spesso anche in realtà - senza scopo, o addirittura contrarie allo scopo. Questa reazione paradossale è conosciuta soprattutto attraverso il "timor panico". Ma, se questa parola non viene intesa in senso troppo ristretto, si può anche parlare di un "panico" del furore, della bramosia e persino della tenerezza. E anche in tutti gli altri casi nei quali uno stato di eccitazione, non riuscendo a frenarsi, si esprime in modo violento, cieco, privo di senso. Che esista un panico del valore, il quale si distingue dal panico della
paura soltanto perché agisce in direzione opposta, è stato osservato, molto tempo fa, da un uomo valoroso quanto ricco di spirito.
Dal punto di vista psicologico quello che succede quando nasce una situazione di panico è visto come una sospensione dell'intelligenza e di tutte le funzioni spirituali superiori. Al loro posto emergono impulsi psichici più antichi. Ma vale la pena di aggiungere che in tali casi la paralisi e l'inceppamento dell'intelletto non conducono a una vera ricaduta nell'azione istintiva. Si ha piuttosto, attraverso l'azione istintiva, il recupero di un istinto dell'estrema necessità e di una forma estrema di azione dettata dalla necessità. Questo modo di agire ha la forma della confusione totale, non segue alcun piano, è apparentemente abbandonato sia dalla ragione, sia da ogni istinto di conservazione. Tuttavia il suo piano inconsapevole è quello di sopperire alle qualità delle azioni con il loro numero; e la sua non trascurabile astuzia si fonda sulla probabilità che fra cento tentativi alla cieca che fanno cilecca, uno per caso colpisca il segno. Una persona che ha perso la testa e un insetto che continua a sbattere contro la metà chiusa della finestra, finché, per caso, "finisce" fuori attraverso la metà rimasta aperta non fanno, nella loro confusione, niente di diverso da ciò che l'arte militare fa, in modo calcolato, quando "copre" un obiettivo con un fuoco a raggera o con un fuoco di sbarramento; anzi, già quando impiega uno shrapnel o una granata.
Ciò significa, in altre parole, sostituire a un'azione che mira a uno scopo preciso un gran volume di azioni. Nulla è più umano di surrogare il contenuto determinato delle parole o delle azioni con la loro quantità. Nell'uso di parole vaghe e imprecise c'è qualcosa di assai simile all'uso di molte parole. Infatti, quanto più una parola è vaga, tanto maggiore è il numero delle cose alle quali si può riferire; e la stessa cosa vale per le parole imprecise. Se le une e le altre, sono stupide, la stupidità si rivela, per loro tramite, imparentata con lo stato di panico. Perciò anche l'uso smodato: dell'accusa di stupidità e delle altre analoghe non sarà molto lontano da un tentativo di salvare se stessi, in senso spirituale, con metodi arcaici, primitivi - anzi (possiamo dire non senza ragione): morbosi. E infatti il ricorso massiccio
all'affermazione che questo o quest'altro è "stupido" o "volgare" rivela non soltanto una sospensione dell'intelligenza, ma anche un impulso cieco simile a quello di spaccare tutto
senza ragione, o di darsi alla fuga. "Stupido" e "volgare", infatti, non sono soltanto insulti, ma fanno le veci di una vera e propria salva d'insulti. Quando non resta altro mezzo per esprimersi, si è già vicini alle vie di fatto. Come quando, per ritornare a un esempio già fatto, si aggrediscono i quadri a ombrellate (al posto di colui che li ha dipinti, per di più), oppure si scaraventano i libri per terra, come se così perdessero il loro veleno. Ma c'è anche un'oppressione, un senso d'impotenza che precede tutto ciò; e si tratta per l'appunto di liberarsene. "Si soffoca quasi" per la rabbia; "le parole non bastano", se non, per l'appunto, le più generiche e le più povere di significato; si ha "perso la favella"; bisogna sfogarsi per non "scoppiare". A tal punto arriva lo smarrimento del linguaggio, anzi, del pensiero,
prima dello sfogo! Esso tradisce un grave stato di inadeguatezza. E alla fine lo sfogo viene per lo più introdotto da queste eloquenti parole: "Insomma, la cosa è veramente troppo stupida ". Ma la "cosa" troppo stupida è l'uomo che sta parlando. In tempi come questi, che apprezzano tanto l'energia "attiva e fattiva", non bisogna dimenticare alcuni atteggiamenti che, a volte, le assomigliano come due gocce d'acqua.
Signore e signori! Oggi si parla molto di una crisi di fiducia dell'umanità. Di una crisi della fiducia che fino ad oggi avevamo riposto nella natura umana. Potremmo anche dire che si tratta di un panico, che sta per sostituire una vecchia sicurezza. Questa: noi siamo capaci di sbrigare le nostre faccende nella libertà e per mezzo della ragione. Ma non facciamoci illusioni! Questi due concetti etici, anzi, eticoestetici, la libertà e la ragione - che l'età classica del cosmopolitismo tedesco ci ha lasciato in eredità come le stimmate della dignità umana - è almeno dalla metà dell'Ottocento, o poco dopo, che non hanno più una bella cera. A poco a poco essi sono andati "fuori corso". La gente non sa più "che cosa farsene". Si è lasciato che avvizzissero. Ma questo non fu tanto un successo dei loro avversari, quanto un insuccesso dei loro amici. E non facciamoci un'altra illusione! Noi, o chi verrà dopo di noi, non torneremo a quelle idee così come sono ora. Il nostro compito, e il senso delle prove che lo spirito dovrà affrontare, sarà invece - questo è il compito dolorosamente promettente, e così raramente compreso, di ogni generazione - attuare il trapasso verso il nuovo - trapasso sempre necessario, e anzi ardentemente desiderato - con le minori perdite possibili! Ma il trapasso verso le nuove idee, le quali, pur trasformandosi, sappiano conservare quelle del passato, deve avvenire al momento giusto. Se non abbiamo saputo cogliere quel momento, a maggior ragione abbiamo bisogno dell'aiuto di idee che ci dicano che cosa è vero, razionale, ragionevole, significativo, intelligente; e anche, di riflesso, di idee che ci dicano che cosa è stupido. Ma quale concetto, sia pure parziale, potremo formarci della stupidità, se i concetti di intelletto e di saggezza vacillano? I punti di vista mutano con i tempi. Quanto mutino, vorrei chiarirlo con un piccolo esempio. In un manuale psichiatrico assai noto ai suoi tempi, si adduceva come esempio di imbecillità - alla domanda: "Che cos'è la giustizia?" - questa risposta: "Che sia punito l'altro!". Oggi invece questa è la base di una concezione del diritto discussa molto e seriamente. Temo perciò che non sia possibile concludere neppure un'esposizione così modesta senza fare almeno un accenno a un nucleo di verità indipendente da trasformazioni temporali. Dal che scaturiscono ulteriori problemi e considerazioni.
Non ho alcun diritto di spacciarmi per psicologo, e non voglio farlo. Ma uno sguardo almeno fuggevole a questa scienza è certo la prima cosa da cui possiamo sperare aiuto, nel caso nostro. La vecchia psicologia distingueva: sensazione, volontà, sentimento e capacità d'ideazione o intelligenza. Per essa era chiaro che la stupidità non era altro che un basso grado d'intelligenza. La psicologia di oggi ha spogliato della sua importanza la distinzione elementare tra le facoltà psichiche e ha riconosciuto la reciproca dipendenza e compenetrazione delle diverse attività psichiche - e così ha reso assai meno semplice rispondere alla domanda sul significato psicologico della stupidità. Anche l'odierna concezione, naturalmente, riconosce un'autonomia relativa all'attività intellettuale. Ma essa ritiene che, anche nella
situazione più tranquilla, l'attenzione, la comprensione, la memoria e anche altre, anzi, quasi tutte le facoltà che fanno parte dell'intelletto dipendano, presumibilmente, anche dalle qualità del temperamento. A ciò si aggiunge, nelle esperienze di vita intensamente emotive o intensamente spirituali, un'ulteriore compenetrazione, quasi indissolubile, di intelligenza e emotività. Questa difficoltà di tenere separati intelletto e sentimento nel concetto di intelligenza si rispecchia, naturalmente, anche nel concetto di stupidità. La psicologia clinica, per esempio, descrive il pensiero del le persone deboli di mente con parole come: povero, impreciso, incapace di astrazione, non chiaro, lento, facile a distrarsi, superficiale, unilaterale, rigido, prolisso, incostante, sconnesso. Qui si riconosce senz'ombra di dubbio
che tali qualità si riferiscono in parte all'intelletto, in parte al sentimento. Insomma, possiamo dire senz'altro che la stupidità e l'intelligenza dipendono tanto dall'intelletto quanto dal sentimento. Quale sarà "in primo piano"? È vero, per esempio, che nell'imbecillità prevale la debolezza dell'intelligenza, e che nel caso di alcuni celebri rigoristi prevale la paralisi del sentimento? A queste domande lasciamo rispondere gli specialisti. Noi profani dobbiamo cercare di arrangiarci alla buona.
Nella vita, di solito, per stupido intendiamo una persona "un po' debole di mente". Ma ci sono anche le più diverse anomalie spirituali e psicologiche, e da esse persino un'intelligenza nata in perfette condizioni può essere a tal punto impedita, intralciata, sviata, da ridursi, in complesso, a una condizione per la quale la lingua, ancora una volta, ha a disposizione soltanto la parola "stupidità". Questa parola, dunque, abbraccia due situazioni in sostanza assai diverse: una stupidità onesta e schietta e una stupidità che, un tantino paradossalmente, è addirittura un segno d'intelligenza.
La prima è dovuta a un intelletto debole. La seconda a un intelletto troppo debole, ma solo rispetto a una cosa determinata, qualunque essa sia. Questa è la forma di gran lunga
più pericolosa.
La stupidità onesta è un po'dura di comprendonio. È, come si dice, "lenta a capire". E povera d'idee e di parole, e maldestra nel loro uso. Predilige le cose abituali, perché, ripetendosi spesso, s'imprimono saldamente nella sua memoria, e lei, quando ha afferrato qualcosa, non ha molta voglia di farsela portar via troppo in fretta o di lasciare che qualcuno la analizzi; e neppure di mettersi a sottilizzarci su lei stessa. Insomma, questa stupidità ha molto in comune con le guance rosee della vita! E vero che spesso pensa in modo impreciso; ed è assai facile che i suoi pensieri siano completamente paralizzati dalle nuove esperienze. In compenso si attiene di preferenza a ciò che può sperimentare attraverso i sensi, a ciò che può, per così dire, contare sulle dita. Essa, in una parola, è la cara vecchia "stupidità solare". E se talvolta non fosse così credulona, così pasticciona e al tempo stesso così incorreggibile da ridurti quasi alla disperazione, sarebbe proprio una figura simpatica.
Non voglio negarmi il piacere di arricchire questa figura con alcuni esempi che la illustrano sotto altri aspetti. Li ho ricavati dal manuale di psichiatria di Bleuler. Un imbecille
esprime la situazione che noi liquideremmo sbrigativamente con la formula "medico accanto al letto del malato" con queste parole: "Un uomo che tiene la mano a un altro che sta nel letto, e poi c'è in piedi una suora". È il modo di esprimersi di un pittore primitivo! Una domestica non
eccessivamente sveglia pensa a uno scherzo di cattivo gusto, quando le raccomandano di depositare in banca i suoi risparmi, dove le frutterebbero un interesse: nessuno può essere così stupido da darle dei soldi per custodire il suo denaro! - è la sua risposta. In essa si esprime una certa cavalleria, un rapporto con il denaro che esisteva ancora, quando io ero giovane, in pochi casi isolati, nelle persone distinte di un'altra generazione! Nella cartella clinica di un terzo imbecille, per concludere, si registra fra i sintomi una sua affermazione: una moneta da due marchi vale meno di una moneta da un marco più due da mezzo marco, perché -
egli spiega - bisogna cambiarla: e allora se ne ricava troppo poco! Spero di non essere l'unico imbecille in questa sala ad approvare cordialmente questa teoria del valore. Almeno per coloro che non fanno attenzione quando cambiano! Ma, per tornare ancora una volta al rapporto con l'arte, spesso la stupidità schietta è una vera artista. Invece di rispondere a una parola-stimolo con un'altra parola, secondo una pratica una volta frequentissima in certi tipi di esperimenti, essa risponde subito con intere frasi. E, si dica quel che si vuole, queste frasi hanno in sé qualcosa che assomiglia alla poesia! Trascrivo, dopo aver indicato la parola
stimolo, alcune di queste risposte: "Accendere: Il fornaio accende la legna. Inverno: È fatto di neve. Babbo: Una volta mi ha gettato giù dalle scale. Nozze: Servono per passare il tempo. Giardino: In giardino il tempo è sempre bello. Religione: Quando si va in chiesa.
Chi era Guglielmo Tell: L'hanno rappresentato nel bosco; c'erano delle donne e dei bambini travestiti. Chi era Pietro: Ha cantato tre volte."
L'ingenuità e la grande corposità di queste risposte; la sostituzione di idee complesse con la narrazione di una storia molto semplice; il dare importanza nella narrazione a elementi superflui, a circostanze accessorie, oppure ornamentali; e poi ancora la concentrazione, oppure l'elisione, come nell'esempio di Pietro: questi sono antichissimi procedimenti della poesia. lo sono convinto che un ricorso eccessivo a questi metodi, adesso molto in voga, avvicini il poeta all'idiota; tuttavia non si può disconoscere che nell'idiota c'è un che di poetico. Adesso cominciamo a capire come mai la poesia raffigura l'idiota, compiacendosi del suo spirito in modo così particolare.
Il contrasto fra la stupidità onesta e la stupidità sostenuta e piena di pretese è, anche troppo spesso, a dir poco stridente. Quest'ultima non è vera mancanza d'intelligenza. È
piuttosto un fallimento dell'intelligenza, che si è arrogata dei compiti che non erano i suoi. Essa può avere tutte le cattive qualità dell'intelletto debole, ma ha, in più, tutte le
cattive qualità causate da un carattere non equilibrato, mal sviluppato, incostante: da un carattere, insomma, che si è allontanato dalla salute. Ma poiché non esiste un carattere "normale", in questo allontanamento si esprime, più esattamente, un'insufficiente cooperazione tra le unilateralità del sentimento, da un lato, e un intelletto insufficiente a imbrigliarle, dall'altro. Questa stupidità sostenuta è la vera malattia della cultura. (Ma affrontiamo subito un possibile malinteso: essa significa incultura, falsa cultura, cultura che si è costituita su false basi, sproporzione tra il contenuto e il vigore della cultura.) Descrivere questa stupidità sostenuta è impresa quasi senza fine. Essa tocca i più alti valori dello
spirito. Infatti, se la stupidità vera e propria è, in segreto, un'artista, la stupidità intelligente contribuisce a vivacizzare la vita spirituale, ma soprattutto la rende incostante e sterile. Già qualche anno fa mi è capitato di scrivere sul suo conto: "Non c'è pensiero importante che la stupidità non sappia utilizzare. La stupidità è mobile in tutte le direzioni, e può indossare tutte le vesti della verità. La verità, invece, ha una sola veste e una sola via, ed è sempre in svantaggio". La stupidità alla quale mi riferisco non è una malattia mentale, eppure è la più letale delle malattie dello spirito: è una malattia pericolosa per la vita stessa.
Ciascuno di noi dovrebbe certamente stanarla innanzitutto in se stesso; non aspettare di riconoscerla dalle sue grandi epidemie storiche. Ma da che cosa possiamo riconoscerla? Come marchiarla in modo che ne conservi un segno inconfondibile? La psichiatria, per i casi che la riguardano, si serve oggi di questo contrassegno principale: l'incapacità di orientarsi nella vita, il fallimento di fronte a tutti i compiti che la vita ci pone, oppure il fallimento improvviso di fronte a un compito nel quale nessuno se lo sarebbe aspettato. Anche la psicologia sperimentale, che ha prevalente mente a che fare con l'uomo sano, definisce la stupidità in modo analogo. "Chiamiamo stupido un comportamento che non riesce a ottenere un risultato per il quale sono date tutte le condizioni, salvo quelle personali", scrive un noto
esponente di una delle scuole più recenti di questa scienza. Questo contrassegno della capacità di agire in modo adeguato all'oggetto, dell"abilità", dunque, non lascia nulla a desiderare quando dobbiamo affrontare dei "casi" univoci, come; quelli della pratica clinica o della stazione sperimentale, di studio sul comportamento delle scimmie. Ma i "casi", che se ne vanno a spasso liberi richiedono qualche considerazione supplementare, perché in essi non è sempre così evidente quando si riesce a "ottenere il risultato" giusto, oppure no. Innanzitutto la "capacità" di comportarsi sempre come farebbe, in circostanze date, un uomo "abile", che sa destreggiarsi nella vita, è altamente ambigua: contiene tutta l'ambiguità dell'intelligenza e della stupidità stessa. Infatti ci sono due comportamenti "appropriati" all'oggetto, due modi di "tener conto" dell'oggetto: quello di chi sfrutta l'oggetto per il proprio vantaggio, e quello di chi fa il vantaggio dell'oggetto stesso: di solito chi fa una delle due
cose giudica stupido chi fa l'altra. (Dal punto di vista medico; tuttavia, "stupido" è soltanto chi non è in grado di fare nessuna delle due. In secondo luogo, non si può negare che spesso è necessario un comportamento "inadeguato"; e persino controproducente. Infatti oggettività e impersonasilità, da un lato, soggettività e inadeguatezza, dall'altro; sono imparentate tra loro. La soggettività spensierata è certo ridicola; ma un comportamento completamente oggettivo, naturalmente, è impossibile sia viverlo, sia pensarlo. Raggiungere un buon equilibrio fra l'una e l'altra cosa. è una delle principali difficoltà che la nostra cultura si trova di fronte. Infine si dovrebbe obiettare che non c'è nessuno che si comporti sempre con tutta l'intelligenza necessaria. Perciò ognuno di noi, se non sempre almeno una volta ogni
tanto, è stupido. Quindi bisogna distinguere anche tra fiasco e incapacità, tra stupidità "occasionale" o "funzionale" da una parte e stupidità "costante" o "costituzionale" dall'altra,
tra errore e dissennatezza. Questo è uno dei punti più importanti, perché oggi le condizioni della vita sono tali - così complesse, difficili e confuse - che le stupidità occasionali dei singoli possono diventare facilmente stupidità costituzionale della collettività. E ciò, alla fine, induce l'osservatore a andare oltre l'ambito delle qualità personali e a considerare i difetti spirituali della società. Naturalmente non si possono trasferire pari pari alla società i processi psicologici reali che si verificano all'interno dell'individuo, perciò nemmeno le malattie mentali, né la stupidità. Eppure oggi si potrebbe parlare da più di un punto di vista di un'"imitazione sociale dei vizi spirituali". Gli esempi sono anche troppo vistosi.
Con queste considerazioni supplementari, naturalmente, l'ambito della spiegazione psicologica è stato superato ancora una volta. La psicologia c'insegna che il pensiero intelligente ha determinate qualità, come la chiarezza, la precisione, la ricchezza, una fluidità che non vada a scapito della solidità, e molte altre, che si potrebbero enumerare una per una. Tali qualità in parte sono innate, in parte acquisite: noi le acquisiamo, parallelamente alle conoscenze, come una sorta di agilità mentale. Infatti un intelletto acuto e una mente agile significano all'incirca la stessa cosa. Si tratta di vincere la pigrizia e le proprie disposizioni innate, nient'altro. E una forma di addestramento; e l'espressione "sport della mente", anche se è un po' ridicola, non esprime troppo male il nocciolo della questione.
L'antagonista della stupidità "intelligente", invece, non è tanto l'intelletto, quanto lo spirito. E anche il "carattere" (se non lo vogliamo ridurre soltanto a un piccolo fascio di
sentimenti). Pensieri e sentimenti si muovono di pari passo: è lo stesso uomo, del resto, che si esprime negli uni e negli altri. Perciò concetti come "angusto", "ampio", "mobile", "schietto", "fedele" si possono applicare sia al pensare, sia al sentire. Il rapporto che ne risulta, forse, non sarà del tutto chiaro: basta tuttavia perché si possa affermare che del
"carattere" fa parte anche l'intelletto, e che i nostri sentimenti non sono privi di punti di contatto con l'intelligenza e con la stupidità. Questa stupidità si combatte con l'esempio
e con la critica. La concezione che ho presentato qui si discosta dall'opinione corrente - che non si può assolutamente dire falsa, ma che tuttavia è estremamente unilaterale - per cui un
"carattere" profondo e genuino non avrebbe bisogno dell'intelletto; il quale, anzi, ne comprometterebbe soltanto la purezza. La verità è che in certe persone molto schiette alcune preziose qualità, come la fedeltà, la costanza, la purezza dei sentimenti, e altre simili, si presentano, per così dire, "allo stato puro". Ma ciò, in realtà, avviene soltanto perché le altre qualità sono troppo deboli per competere con esse. Un simile caso limite ci è capitato sotto gli occhi poco fa, con il volto della debolezza di mente amabile e gentile. Nulla è più lontano dalle mie intenzioni che sminuire, con questi giudizi, il valore di un carattere "buono e retto": la sua mancanza è per l'appunto una delle cause del la stupidità "sostenuta", e non la minore! Ma oggi è ancora più importante anteporre a un carattere "buono" un altro concetto: il concetto di "significativo". Ma so benissimo che sto aprendo un discorso del tutto utopistico. Il "significativo" unisce la verità che noi siamo in grado di percepire nel significativo stesso e le qualità del sentimento nelle quali abbiamo fiducia. In tal modo nasce qualcosa di nuovo: una nuova visuale, ma anche una decisione; un tener duro, ma allegramente; nasce qualcosa che possiede uno "spirito" ma anche un"anima' ed "esige", da noi o da altri, un comportamento. Potremmo dire (e in rapporto alla stupidità questo è il punto più importante) che il "significativo" è accessibile sia alla critica dell'intelletto, sia alla critica del sentimento. Il "significativo" è anche l'antagonista comune della stupidità e della rozzezza. Nel concetto di significativo si attenua persino, fino a sparire, la sproporzione generale a causa della quale oggi l'elemento emotivo schiaccia la ragione, invece di prestarle le sue ali. Ma basta di tutto ciò. Forse, anzi, ho già detto più di quanto sarei in grado di sostenere con argomenti, se fossi chiamato a risponderne! Se, però, dovessi ancora aggiungere qualcosa, potrebbe essere soltanto questo: con tutte le cose che ho detto, non ho dato neppure un segno sicuro in base al quale si possa distinguere e riconoscere ciò che è "significativo" da ciò che non lo è. Trovare un segno pienamente soddisfacente non sarebbe per nulla una cosa facile! E proprio questa considerazione mi conduce all'ultimo e più importante rimedio contro la stupidità: la modestia. Di tanto in tanto siamo tutti stupidi. Di tanto in tanto siamo addirittura costretti ad agire alla cieca, almeno in parte; altrimenti il mondo si fermerebbe. E se a qualcuno venisse in mente di dedurre questa regola, dai pericoli che la stupidità comporta: " In tutto ciò di cui ti manca una sufficiente comprensione, astieniti dal giudicare e dal decidere ", noi diventeremmo dei pezzi di legno! Eppure questa situazione, che oggi suscita tanto scalpore, assomiglia a un'altra situazione, che, nella sfera dell'intelletto, ci è familiare da tempo. Il nostro sapere e il nostro potere sono limitati; perciò, in sostanza, siamo costretti a emettere dei giudizi precipitosi in tutte le discipline scientifiche. Tuttavia, mettendocela tutta, abbiamo imparato a contenere questo errore entro limiti noti, e, se ci capita l'occasione, abbiamo anche imparato a correggerlo. E così le nostre azioni ritornano esatte. Perché non dovremmo trasferire questo modo di agire e di giudicare, esatto e orgogliosamente umile, anche in altre sfere della nostra vita? Credo proprio che
dovremmo seguire questo principio: "Agisci meglio che puoi e male quanto devi, e sii sempre consapevole del margine di errore delle tue azioni". E credo che allora saremmo già a metà strada, nel cammino verso una vita non priva di speranze. Ma con questi accenni sono giunto ormai da un pezzo alla fine della mia esposizione, la quale, come avevo messo bene in evidenza, mettendo le mani avanti, non voleva essere che un'indagine preliminare. E, con il piede sul confine, dichiaro: non sono più in grado di proseguire. Perché se facessimo ancora un passo, al di là del punto in cui ci siamo fermati, noi usciremmo dal regno della stupidità, che persino nella teoria è vario e gradevole, ed entreremmo nel regno della saggezza: una regione inospitale, dalla quale generalmente si fugge.
Tratto dal Libro Sulla Stupidità e altri Scritti di Robert Musil  Mondadori, Milano 1986   Indice Pagina    Indice Forum

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