POVERTA',
SFRUTTAMENTO E STUPIDITA'. di C.W. Brown
I Poveri non sono solo nei paesi del terzo mondo, ma in realtà ci sono anche tra di noi,
nei paesi ricchi, ma ovviamente ugualmente stupidi, e talvolta la loro solitudine e la
loro sofferenza non ha nulla da invidiare a chi sta in realtà anche molto più male, come
aveva già ben capito Madre Teresa di Calcutta.
Lo vediamo benissimo anche in Italia, l'inflazione continua a crescere, la precarietà del
lavoro avanza, i consumi ristagnano, e lo stato sociale a poco a poco va a farsi fottere.
Il tenore di vita di tante famiglie scende, quello di alcune è già al limite, il costo
della vita invece sale e nel frattempo si impoverisce drasticamente il ceto medio.
Nasce così una nuova figura di quasi emarginato sociale in perenne bilico tra indigenza e
sicurezza economica. Nella fascia dei quasi poveri si trovano oggi ben 11 milioni di
italiani, infatti uno su cinque vive con un reddito inferiore a 988 euro mensili. (Tra
questi abbiamo 4.574.000 persone che vivono con un reddito mensile tra 823 e 988 euro;
3.373.000 persone che vivono con un reddito tra 659 e 823 euro; 2.916.000 persone che
vivono con un reddito mensile che non raggiunge i 659 euro). Certo questa soglia è ben
distante dall'indice mondiale usato dall'Onu per misurare la povertà, infatti
l'Organizzazione dell'ONu che si occupa delle politiche sul lavoro considera povera la
popolazione mondiale che vive con redditi inferiori ai 30 dollari al mese, ma pian piano
ci avviciniamo. In questa fascia vivono oggi un miliardo di individui, ma se raddoppiamo
la soglia scopraimo che circa ben tre miliardi, ovvero la metà della popolazione mondiale
vive con 60 dollari al mese. In ogni caso da noi di certo aumenta il malessere sociale e
anche i disagi. Per esempio nel 1997 solo lo 0,3% delle case non aveva un wc, nel 2001 la
percentuale è più che raddoppiata ed è salita allo 0,8%.
E questi sono i rischi di un capitalismo troppo disinibito sollevati persino
dall'Economist. In un saggio pubblicato sul numero di ottobre di Argomenti Umani Silvano
Andriani riprende e commenta questo messaggio allarmato. Non è di certo colpa della
globalizzazione, infatti questa nell'insieme ha promosso lo sviluppo mondiale al ritmo del
2,8% del prodotto procapite nei paesi occidentali e del 2,2% in tutti gli altri,
allargando così il gap tra il West e il Rest del mondo. Ma i veri guai si verificano
proprio all'interno del West e soprattutto nel suo cuore, gli Usa. Qui le diseguaglianze
sono diventate clamorose e politicamente pericolose. Ci sono in pratica due fenomeni
critici. Il primo è lo scandaloso arricchimento di una nuova plutocrazia di manager, di
fatto liberati da ogni controllo interno da parte di una proprietà "passiva" e
- aggiunge opportunamente Andriani - di un contro potere sindacale fiaccato dalla
globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica. Gli stratosferici guadagni di questa
plutocrazia gridano al cospetto di Dio, soprattutto dopo che l'ondata discandali sulla
manipolazione criminale delle gestioni di tante gigantesche imprese ha spazzato un
prestigio "pompato" dalla compiacenza servile di media opportunamente
addomesticati. Il secondo è strettamente legato al primo: ed è la invasione di questa
plutocrazia nell'area pubblica, che ha assunto, con l'avvento di Bush, proporzioni
indecenti. Basti pensare che dei duecento finanziatori e promotori del presidente,
quaranta sono stati piazzati in posti governativi e paragovernativi di comando.
Dice l'Economist "...le ineguaglianze possono essere tollerate nella misura in cui
producono
vantaggi sociali, ma ci sono dei limiti." E inoltre: "nelle democrazie, i
governi devono agire da arbitri e da contrappesi ai potenti gruppi privati. Se essi
consentono, o addirittura incoraggiano aziende e individui particolarmente ricchi alla
manipolazione delle pubbliche istituzioni, essi rischiano di tendere la pubblica fiducia
nella demograzia fino al punto di rottura".....Il fatto è che il problema del
"Vuoto di controllo" non sta nelle debolezze delle norme, ma nello squilibrio
strutturale dei poteri; specificatamente nel divario che si è creato tra la politica e
l'economia: tra la potenza del capitalismo e il potere della democrazia. Ci vorrebbe
quindi un vero ed onesto riformismo che possa correggere questa morale impazzita del
potere e della stupidità delle istituzioni che invece per il momento stanno disperdendo
la loro volontà nelle paludi della corruzione.
La "grande malata" è l' Europa sociale. Una società di piena occupazione deve
rispecchiare i valori anziché adattarsi a un ipotetico modello ideale L' ascesa della
precarietà ha fatto perdere di vista questa dimensione essenziale degli ordinamenti
sociali
I Governi d' Europa sono in cerca di un progetto che permetta di sottolineare la
dimensione sociale della costruzione europea, sì da mettere finalmente in evidenza una
delle più nobili tra le ragioni che li hanno spinti a imbarcarsi in quest' avventura. La
presidenza portoghese dell' Unione ha compreso perfettamente quest' esigenza, come
testimonia il numero di colloqui, vertici, seminari che ha organizzato su questo tema nel
primo semestre del 2000. Giuristi, economisti, sociologi, politologi sono stati chiamati
al capezzale dell' Europa sociale, in un coraggioso tentativo di fare del sociale un
obiettivo prioritario della costruzione europea. LA politica economica deve essere
"robusta", ossia ricercare la stabilità dei prezzi e (almeno) il pareggio del
bilancio: obiettivi cui ci obbliga la tutela dei mercati finanziari. Un secolo di sviluppo
della macroeconomia per arrivare a questo punto? O questa prima raccomandazione è
banalmente ovvia ? chi infatti potrebbe preconizzare l' inflazione e il disavanzo? Oppure
maschera un certo malcontento riguardo agli obiettivi naturali della politica economica,
che sono la piena occupazione e l' aumento del tenore di vita? In fatto di salari, la
parola d' ordine è "moderazione". è ormai quasi pleonastico affermare che le
dinamiche salariali devono essere moderate. Una tale proposizione significa forse che i
salariati non debbono più partecipare ai frutti della crescita? E, in caso di risposta
positiva, in nome di quale principio economico? In questa materia, le sole proposte
ragionevoli sono quelle che si rapportano alla distribuzione del reddito tra profitti,
salari, occupazione e rendita finanziaria. Altrimenti dovremmo riconoscere che viviamo in
società davvero bizzarre, che si fanno prendere dall' angoscia ogniqualvolta i salari
aumentano, ma applaudono freneticamente ogniqualvolta crescono i profitti. Le rimanenti
raccomandazioni rispecchiano bene l' atmosfera dominante: la flessibilità, ovviamente; la
trasformazione dei sistemi fiscali e di protezione sociale affinché diventino più
efficaci nell' "incentivare al lavoro"; la necessità di contenere gli esborsi
per spese sociali, a causa della concorrenza internazionale e della resistenza dei
contribuenti. Il messaggio è inquietante, giacché l' esigenza di flessibilità, che
risulterebbe dalla combinazione degli effetti della globalizzazione e del progresso
tecnico, è sinonimo di precarietà. Bisogna dunque, prosegue il programma, compensare
questo supplemento di flessibilità con un supplemento di sicurezza. Siamo insomma alla
flexicurity. Questo barbarismo, che ha l' aspetto di un concetto nuovo, designa una serie
di misure, alcune delle quali rappresentano progressi potenziali (i diritti di prelievo
sociali), e altre dei regressi certi. Per esempio, una delle esigenze della solidarietà
è di accrescere la protezione dei deboli, e lo strumento privilegiato per ottenere questo
risultato consisterebbe nel ridurre la protezione del posto per i "possessori"
di un contratto di lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato, ossia i
"garantiti". Al contempo, occorrerebbe aumentare le spese attive per l'
occupazione, ma restringere l' accesso all' indennità di disoccupazione inasprendone le
condizioni, ecc. Qui m' interessa la filosofia generale del programma, e soprattutto ciò
che essa rivela della diagnosi delle cause degli attuali squilibri. Il duplice trionfo
dell' individualismo e del mercato costringe a ridurre le pretese redistributive delle
società (in nome della resistenza del contribuente) e le pretese interventiste dei
governi. Bisognerebbe dunque riformare le istituzioni del mercato del lavoro per
sopprimere le sue rigidità. Si tratta di ingredienti propri del liberalismo standard. Ma
il liberalismo deve essere l' oggetto di una scelta esplicita, assunta in sede politica. E
tale scelta è generalmente presentata come un obbligo che s' imporrebbe inesorabilmente
all' insieme dei governi dell' Europa continentale. Il capitalismo s' è dimostrato
opportunista quanto basta per adattarsi a una spiccata diversità degli ordinamenti
sociali nei singoli paesi. Ciò nondimeno, la persistenza della disoccupazione di massa in
Europa produce un certo sgomento intellettuale, che conduce non di rado a erigere in
modello l' esperienza di altri paesi. è così che gli europei avrebbero guadagnato dall'
essere, di volta in volta, francesi negli anni Sessanta, svedesi nei Settanta, tedeschi
negli Ottanta, americani o olandesi nei Novanta! La nazione di riferimento degli anni 2000
è ancora indeterminata. Sarebbero - si dice - gli stessi salariati a portare la
responsabilità più grande nell' evoluzione della disoccupazione: l' egoismo dei
"garantiti" condurrebbe a dinamiche salariali eccessive a spese di coloro che si
trovano al margine del mercato del lavoro. Questo discorso di colpevolizzazione dei
salariati è troppo caricaturale per essere credibile: bisognerebbe infatti pensare che
nelle nostre società il classico conflitto distributivo tra salariati e imprenditori sia
scomparso, e sia stato soppiantato da un conflitto interno al mondo del lavoro. La
"lotta di classe" opporrebbe ormai i "possessori" di un posto a coloro
che sono costretti ad accettare un lavoro precario! è chiaro che le cose sono molto più
complesse, e che questo "conflitto" tra lavoratori è il frutto di una visione
superficiale della società. Il modello dell' economia di mercato è anche un modello
culturale: il modello dell' individualismo. In quanto rappresentano fonti di rigidità, le
strutture sociali, e perfino antropologiche, sono giudicate inefficienti. Numerosi autori
pensano allora che ciò che è culturale, e dunque relativo, possa costituire un ostacolo
alla piena occupazione. E in particolare affermano che la protezione del posto di lavoro
(la questione del diritto di licenziare) conduce alla disoccupazione. E' invece vero che
la protezione del posto di lavoro incide sulla struttura della disoccupazione a vantaggio
degli adulti maschi e a scapito dei giovani. Nei paesi in cui la protezione del posto è
debole le probabilità di finire disoccupati sono distribuite tra le classi d' età in
maniera più uniforme. è possibile interpretare queste differenze come il risultato di
scelte intertemporali diverse delle varie società. Nel caso di una forte protezione del
posto, i salariati preferiscono minimizzare i rischi di disoccupazione quando
costituiscono una famiglia e allevano dei figli, accettando invece una maggiore
precarietà quando sono giovani. Si tratta generalmente di società in cui la famiglia
svolge un ruolo importante. Ebbene, questa scelta non è meno razionale di quella della
flessibilità. Essa permette infatti ai figli di crescere in migliori condizioni di
stabilità, e ai giovani lavoratori in una situazione precaria di beneficiare più a lungo
dell' aiuto della famiglia. Inoltre, in questo tipo di società esiste un forte incentivo
a innalzare il livello d' istruzione dei giovani, affinché possano evitare il periodo
transitorio di precarietà che accompagna di solito l' ingresso nel mercato del lavoro.
Nei paesi in cui il ruolo della famiglia ha un rilievo minore, sembra che anche la
protezione del lavoro degli adulti sia minore (e il costo della disoccupazione più
elevato). In una condizione di piena occupazione i due sistemi si equivalgono, ma poggiano
su valori diversi. A ciò si deve se nei nostri sistemi la politica sociale non dovrebbe
essere una semplice appendice della politica economica; essa è infatti consustanziale
alla democrazia. In una società di piena occupazione, verso la quale l' Europa sociale
non può non tendere, le istituzioni debbono innanzitutto rispecchiare i valori, anziché
adattarsi a un ipotetico modello ideale. L' ascesa della disoccupazione e della
precarietà ha fatto perdere di vista questa dimensione essenziale degli ordinamenti
sociali, a vantaggio di una visione apparentemente tecnica, ma nella sostanza ideologica.
(Jean Paul Fitoussi)
Il mondo tuttavia sembra andare sempre di più verso un futuro incerto, e così povertà,
sfruttamento, ignoranza e stupidità generano fenomeni del tutto tragici. Per esempio a
New York si dichira guerra ai bulli nelle scuole e così arriva il poliziotto in classe,
ma anche in Europa le cose non vanno meglio. In Germania esiste per i ragazzi sotto i 14
anni il divieto di uscire da soli da casa dopo le 20 e questo per evitare il baby crimine.
Nel Regno Unito nel 2003 un minore su 4 ha compiuto reati e in Francia la legge del
settembre 2002 prevede la reclusione in centri di rieducazione per i ragazzini fra i 10 e
i 13 anni. Vi sono poi le prede indifese dei trafficanti di bambini e di schiavi, una
realtà che riguarda anche i nostri paesi. Infatti sono 1 milione e 200 mila i bambini che
ogni anno sono vittime del traffico di esseri umani. Vi sono poi le donne, circa 400.000,
di età inferiore ai 18 anni che provengono dai paesi dell'est e sono costrette a
prostituirsi in Europa. e Si potrebbe continuare a lungo, anche se sarà difficile
raggiungere la cifra di 16 milioni e mezzo di bambini sfruttati in Africa. Insomma anche
se siamo nel 2004 la stupidità continua a mietere le sue vittime e a governare il mondo.
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POTERE,
SCHIAVISMO E STUPIDITA'. di C.W. Brown
I paesi in cui la schiavitù è legale non esistono, tuttavia quasi in tutto il mondo
vengono comprati e venduti esseri umani seguendo la ferrea legge non scritta della
stupidità.
Carl William Brown
Oggi nel mondo circa 27 milioni di persone vengono comprate e vendute, tenute prigioniere,
brutalizzate e sfruttate. Ma il numero ovviamente è fortemente in difetto.
I proprietari dei bordelli di Israele possono comprare una giovane della Moldavia o
dell'Ucraina per circa 3500 euro. Con una decina di prostitute a disposizione, anche una
piccola attività ne può fruttare 900.000 l'anno. I trafficanti individuano le loro
vittime nelle città dell'Est europeo e le attirano all'estero con la promessa di un
lavoro. Le ragazze vengono poi consegnate ai compratori che le picchiano, le violentano e
le terrorizzano per piegarle al loro volere. Non sempre però accade questo. Per esempio
molte delle prostitute giunte in Italia dall'Albania, dall'ex unione sovietica, o
dall'Africa sanno perfettamente la vita che andranno a condurre, sanno anche perfettamente
che loro con alcune marchette, salvo casi di feroce sfruttamento, potranno guadagnare
persino molto di più di quanto guadagna in un mese un lavoratore medio nei propri paesi
di origine e in alcuni casi vedranno perino più soldi in un giorno di quanti non ne
vedano i propri connazionali in un anno o addirittura in tutta una vita. E' ovvio quindi
che tutto il pianeta è un grande bordello e sin dai tempi più antichi è chiaro che il
nostro mondo va sempre di più a puttane. "Davvero è un delitto vendere donne? Ma
scusa, non si vendono anche i calciatori?" Milorad Milakovic, dopo le incursioni nei
suoi bordelli di Prijedor, si è lamentato: le donne che erano state liberate gli erano
costate un sacco di soldi...e voleva un indennizzo. Il problema tuttavia non riguarda solo
i paesi del terzo mondo, infatti l'Associazione Children of the Night nella California
meridionale si occupa da 24 anni di ragazzine che vanno dagli 11 ai 17 anni e che sono
costrette a lavorare come prostitute in Oregon, Washington, Idaho e Nevada o in altri
stati. In Usa infatti lo sfruttamento sessuale dei bambini è presente a ogni livello
economico e in tutti i gruppi etnici e sociali. Ma a questo riguardo approfondiremo il
discorso in un altro saggio.
A Falkland Road, a Mumbai, ogni donna presente nei vari bordelli vive in una gabbia di 1
metro e venti per 1 metro e ottanta. le donne più giovani e carine stanno appunto in
mostra in queste gabbie sulla strada per attirare i clienti giorno e notte. Molte vengono
portate in questi alveari dai trafficanti; altre sono vendute dai genitori o dai mariti.
Nella metropoli indiana circa 50 mila donne lavorano come prostitute: quasi la metà di
loro proviene dal Nepal e ha percorso più di 1500 chilometri attraverso l'India.
Violenza, malattie, malnutrizione e assenza di cure mediche riducono la loro speranza di
vita a meno di 40 anni. Da ricordare a questo proposito che nella Roma antica, su una
popolazione di circa 400.000 persone, almeno in 200.000 persone erano dedite alla
prostituzione. Il trafficante di esseri umani Chandra Gautam, riconsociuto colpevole è
stato condannato a trascorrere 16 anni in una prigione del nepal. Questo paese ha
ingaggiato una dura lotta contro il commercio di schiavi con indagini a tappeto e dure
pene detentive. In Bosnia, il serbo Milorad Milakovic è stato arrestato con l'accusa di
comprare e vendre donne attraverso i bar e i bordelli di sua proprietà: un vero impero,
con il quale è diventato ricco. Milakovic sostiene che alcuni membri del contingente
dell'Onu e funzionari bosniaci dell'ufficio immigrazione erano tra i suoi migliori
clienti. "Il legame tra schiavitù e corruzione del governo è chiaro", dice
Corbin Lyday, un ex funzionario dell'Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Usa.
"Funzionari governativi assistono, sovrintendono e colludono apertamente con i
trafficanti in decine di paesi".
In altre zone del mondo intere famiglie sono costrette dai debiti a lavorare per i
creditori. In una fornace dell'India sudorientale le madri e le figlie trasportano i
mattoni fatti a mano; padri e figli alimentano il fuoco. I proprietari delle fornaci si
procurano i lavoratori prestando i soldi alle famiglie povere che devono affrontare spese
al di sopra delle loro possibilità, come cure mediche e funerali. Pur lavorando anni per
restituire il denaro, gli interessi esorbitanti perpetuano il debito, che passa da
genitore in figlio. Circa due terzi degli schiavi nel mondo - tra i 15 e i 20 milioni di
persone - sono assoggettati per debiti in India, Pakistan, Bangladesh e Nepal. Chiaramente
nel mondo più civilizzato le cose sono un poco diverse, ma lentamente stanno peggiorando
un po' ovunque. E ai poveri schiavi non resta che lavorare e basta, almeno però nel mondo
occidentale alcuni riescono a pagarsi le spese. Noi siamo infatti abituati a pensare che
la schiavitù sia morta e sepolta da anni, dove gli schiavi incatenati lavoravano nei
campi. "A quei tempi la schiavitù dipendeva dalla mancanza di manodopera",
spiega Mike Dottridge, ex direttore dell'organizzazione Anti Slavery International,
un'ente fondato nel 1839 per estendere la campagna che aveva già abolito la schiavitù
nell'Impero britannico. Secondo le ricerche dello storico della schiavitù Kevin Bales,
nel 1850 uno schiavo veniva venduto per una cifra equivalente a 40 mila euro di oggi. Una
volta gli schiavi venivano rapiti e costretti a lavorare, oggi invece i diseredati sono
attirati nel vortice della schiavitù per debiti contratti nella speranza di una vita
migliore. Gli uffici di questa organizzazione sono tappezzati di immagini della schiavitù
contemporanea: lavori forzati in Africa occidentale, bambini pakistani di cinque o sei
anni venduti nel Golfo Persico per fare i fantini nelle corse di cammelli, prostitute
bambine thailandesi. Gli schedari sono zeppi di relazioni: bande di schiavi brasiliani
nell'Amazzonia che tagliano alberi da cui si ricaverà carbone per la siderurgia,
braccianti indiani legatoi ai proprietari terrieri da debiti che hanno ereditato dai loro
genitori e che a loro volta trasmetteranno ai figli.
La stima del contributo annuo degli schiavi all'economia globale è di 13 miliardi di
dollari. Le attività che impiegano degli schiavi sono numerose, tra le principali abbiamo
in Brasile schiavi che lavorano il carbone di legna usato per l'acciaio delle automobili e
di altre macchine. Nel Myanmar gli schiavi raccolgono la canna da zucchero e i prodotti
agricoli. In Cina i bambini schiavi costruiscono i fuochi d'artificio. In Sierra Leone
lavorano nelle miniere di diamanti. Nel Benin e in Egitto producono cotone (un rapporto
del governo egiziano del 1999 stimava che nel settore cotoniero del Paese fossero
costretti a lavorare un milione di bambini "perché sono più economici e più
obbedienti degli adulti e hanno l'altezza giusta per ispezionare le piante di
cotone.") In Costa d'Avorio circa 12 mila bambini schiavi raccolgono il cacao che si
esporta per fare il cioccolato. nel mondo è stato segnalato lavoro di schiavi anche nelle
produzioni di caffè, thè, tabacco e tappeti.
Ma accadono cose di pessimo gusto anche nel mondo ricco ed occidentale. Negli ultimi sei
anni, la Coalizione dei lavoratori di Immokalee formata in gran parte da immigrati
messicani, guatemaltechi e haitiani, ha liberato molti dei suoi oltre 2000 membri da
cinque grandi unità produttive della Florida basate sul lavoro degli schiavi. La Ciw
valuta che il 10 per cento dei braccianti statunitensi lavori in schiavitù. Gli altri
hanno salari irrisori. Queste sono le strane bizzarrie della nostra splendida realtà.
negli Stati Uniti, come in molte altre parti del mondo gli schiavi sono presenti in quasi
ogni settore dell'economia in cui sia preminente il lavoro manuale a basso costo. nel 1995
più di 70 donne thailandesi, prigioniere da anni, sono state liberate dalle forze di
polizia di Los Angeles, nel quartiere periferico di El Monte, dove confezionavano vestiti
per grossisti di abbigliamento. Secondo Kevin Bales oggi negli Stati Uniti sono rpesenti
fra i 100 e i 150 mila schiavi. Il traffico di persone negli Usa, secondo il dipartimento
di stato, coinvolge quasi 20 mila soggetti all'anno. Molte ragazze vengono costrette a
prostituirsi e un gran numero di uomini e donne finisce nei campi. Alcuni vanno a lavorare
nelle case di riposo, altri ancora presso qualche famiglia come schiavi domestici.
La compravendita di persone oggi è un'attività conveniente grazie a un paradosso tipico
dei nostri giorni: la globalizzazione consente alle merci e ai capitali di circolare nel
mondo con estrema facilità, mentre per le persone emigrare legalmente è sempre più
difficile, e coloro che vogliono andare nei Paesi in cui hanno maggiori probabilità di
procurarsi lavoro si trovano di fronte a impedimenti e restrizioni crescenti.
Chi non può emigrare legalmente, o non può permettersi di pagare le ingenti somme
richieste per essere trasportato illegalmente attraverso le frontiere, finisce quasi
sempre in preda alle mafie che gestiscono il traffico di persone. Un agente
dell'Immigration and Naturalization Service (Ins) degli Stati Uniti, con una lunga
esperienza sul campo, dice: "Il contrabbando di persone [cioè l'introduzione
illegale in un Paese di persone che poi trovano lavori pagati] e il traffico di esseri
umani [in cui la gente finisce schiava o viene venduta dai trafficanti] funzionano
esattamente nello stesso modo, usano le stesse vie. L'unica differenza è ciò che accade
alla gente alla fine del viaggio". L'inasprimento dei controlli alle frontiere ha
causato un notevole aumento delle tariffe del trasporto per gli immigrati illegali, ed è
quindi sempre più frequente che questi siano costretti a lavorare come schiavi per
ripagare il debito accumulato con i trafficanti che hanno organizzato il viaggio.
Grigoris Lazos, un professore di sociologia che si è dedicato anima e corpo allo studio
del traffico degli schiavi dal 1990 ha iniziato una lunga serie di interviste per una
ricerca sulla prostituzione in Grecia. Attraverso le prostitute è riuscito a entrare in
contatto con coloro che le avevano rese schiave. Nei dieci anni successivi Lazos si è
infiltrato all'interno delle organizzazioni criminali responsabili della tratta, riuscendo
così a delineare un quadro preciso delle connessioni fra prostituzione e schiavitù nel
suo Paese.
"Esistono differenze sostanziali fra le piccole bande di trafficanti e le grandi reti
criminali, che usano Internet e le banche", osserva. "In Grecia chiunque
possieda un bar o un locale notturno può inviare un uomo di fiducia nel Sud della
Bulgaria per comprare una donna. Il pagamento è in contanti. In quella zona una ragazza
costa sui 1000 euro, ma, contrattando un po' a volte per la stessa cifra se ne prendono
due. Se si vuole spendere poco, è meglio andare il lunedi, perché la maggior parte degli
affari si conclude durante i fine settimana. Il lunedì, quindi, è facile procurarsi le
rimanenze".
"Invece, una grande rete", continua Lazos, "è in grado di contrattare e di
perfezionare transazioni finanziarie anche da lontano. Basta alzare il telefono, chiamare
per esempio Mosca e chiedere delle donne: le ragazze verranno inviate in Romania e da qui,
attraverso la Bulgaria, proseguiranno il viaggio fino in Grecia. Non occorre neppure che
venditore e acquirente si conoscano. L'importatore dice semplicemente: "Ho bisogno di
tot donne di prima qualità, tot di seconda qualità, e tot di terza"".
Sfogliando il suo ricchissimo archivio, il professore snocciola i dati sul commercio di
esseri umani. "In Grecia fra il 1990 e il 2000 il traffico di donne, cioè la
prostituzione forzata, ha prodotto un reddito di circa 5,5 miliardi di euro. Nello stesso
periodo le prostitute volontarie, quelle che hanno scelto questo lavoro di loro spontanea
volontà e che sono per la maggior parte greche, hanno guadagnato solo 1,5 miliardi di
euro".
L'attività dei trafficanti greci studiata da Lazos, per quanto ampia ed efficiente, non
è affatto un caso isolato. A Trieste, la porta che dai Balcani immette nell'Italia
settentrionale, gli investigatori hanno ricostruito le attività di Josip Loncaric, un ex
conducente di taxi di Zagabria, in Croazia. Nel 2000, quando è stato arrestato, Loncaric
era proprietario di linee aeree in Albania e in Macedonia, ed era coinvolto negli
spostamenti di migliaia di persone destinate non solo alla prostituzione, ma a ogni sorta
di lavori umili e mal pagati nei Paesi dell'Unione europea. La moglie e socia d'affari,
cinese, gli garantiva un rapporto privilegiato con le Triadi (la mafia cinese) che con
Loncaric hanno fatto affari d'oro, facendo passare illegalmente le frontiere a cinesi,
curdi, iracheni, iraniani e altri diseredati disposti a ipotecare se stessi nella speranza
di un futuro migliore. Molti degli schiavi cinesi di Loncaric erano tenuti prigionieri e
costretti a lavorare 18 ore al giorno nei ristoranti o nei famigerati laboratori italiani
di pelletteria.
Anche in Italia dunque il fenomeno è abbastanza grave; la prossimità con i Balcani, la
grande estensione delle coste italiane e i legami con alcuni paesi dell'Est europeo e
dell'Africa ha fatto si che la nostra nazione sia da tempo alle prese con un forte flusso
di persone che arrivano, costrette con la violenza, dai paesi poveri come l'Albania, la
Nigeria e da altre zone. In gran parte si tratta di giovani donne costrette a
prostituirsi, circa 70.000 le vittime di questo sporco traffico secondo il governo
italiano. Ma sia in Italia, così come negli altri paesi, gli schiavi sono ancora troppo
indifesi, minacciati, e vivendo nel terrore di essere rimpatriati sono sempre alla mercè
di organizzazioni mafiose e criminali. Sono pedine confinate ad un universo di
emarginazione, che non hanno accesso alle informazioni né talvolta hanno possibilità di
contatti con il mondo esterno. Purtroppo, però, con la loro esistenza consentono ai
trafficanti di campare sin troppo bene concludendo ottimi affari. A fronte di questa
triste emergenza, l'Italia ha concluso accordi per ridurre il traffico di immigrati
illegali con Nigeria, Albania, Romania, e Ucraina e la commissione Giustizia della Camera
ha approvato una proposta di legge che prevede fino a 20 anni di carcere per il traffico
di persone. Se aggiungiamo alle prostitute coloro che lavorano sotto costrizione nei
laboratori illegali, nei cantieri, come collaboratori domestici, come mendicanti o
sfruttati in altri modi, in Italia, le vittime del traffico di schiavi potrebbero
facilmente raggiungere le 150.000 unità. www.nationalgeographic.com/ngm/0309
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POTERE,
BENEFICENZA E STUPIDITA' di C.W. Brown
I ricchi fanno la beneficenza, e la beneficenza fa i ricchi. Così accade che chi magari
costrusice armi o possieda azioni in multinazionali che sfruttano il mondo in lungo e in
largo, poi sia anche tra i maggiori artefici delle fondazioni che si occupano di pace nel
mondo, e di solidarietà tra i popoli. Niente di nuovo sotto il sole, lo aveva già detto
G.B. Shaw, solo che con il passar del tempo, il virus della stupidità muta sempre più e
sembra ormai resistente a qualsiasi forma di terpaia del buon senso. Ormai dobbiamo solo
sperare in una cura genetica! Già, sarebbe troppo semplice se la stupidità fosse una
malattia come sostiene appunto James Watson, lo scienziato che insieme a Francis Crick, un
collega dell'università di Cambridge, scoprì il DNA ben 50 anni orsono. Secondo James,
la stupidità non è causata né da bassi livelli di istruzione, né dall'assenza di
stimoli nell'infanzia: si nasconde proprio nel profilo genetico dell'uomo. Per questo
grazie alle nuove tecnologie genetiche tale imperfezione si può e si deve sconfiggere,
rimuovendo appunto il gene responsabile. Ma passiamo dalla teoria alla pratica.
Sono 2 miliardi i bambini nel mondo. 150 milioni soffrono la fame, 120 milioni non
frequentano la scuola, 10 milioni muoiono per malattie incurabili, 13 milioni sono orfani
a causa dell'aids, in 600.000 sono stati contagiati nel 2000 dal virus dell'hiv.
Negli ultimi 10 anni la mortalità infantile è fortemene diminuita in alcuni paesi poveri
del pianeta, dove si nutrono meglio che in passato, sono tutti vaccinati contro tetano e
morbillo e hanno finalmente accesso a fonti di acqua potabile. Non solo, nel 1988 i casi
di poliomielite sono scesi del 99 per cento e ci sono oggi più allievi nelle scuole che
in qualsiasi altro periodo della storia. Tuttavia assieme a questi dati buoni ve ne sono
altri invece molto più cattivi. Per esempio un bambino ogni dodici muore prima di aver
compiuto il quinto anno di età, nei paesi in via di sviluppo lavorano 250 milioni di
piccoli schiavi tra i 5 e i 14 anni, 150 milioni di piccoli soffrono la fame e un milione
e mezzo di ragazzi sotto i 15 anni è stato infettato dall'hiv. Ma non è finita qui,
infatti nel prossimo anno 26 bambini su 100 non riceveranno alcuna vaccinazione, 30
soffriranno di malnutrizione, 19 non avranno accesso all'acqua potabile, 17 su 100 non
frequenteranno mai la scuola e la nascita di 40 bambini su 100 non verrà mai registrata.
Il che equivale a dire che queste creature non esisteranno, non avranno quindi una
nazionalità, né dei documenti, né un'identità ufficiale.
A fronte di tutto questo l'Unicef ha promosso una sezione speciale sull'infanzia proprio
per fronteggiare queste emergenze, assieme all'Onu, a vari governi e a un migliaio di
associazioni che si occupano dell'infanzia nel mondo. Nel 1990 si svolse un sammit
dell'infanzia di storica importanza, durante il quale i leadres mondiali inserirono nei
loro programmi politici le questioni che riguradavano i bambini più diseredati. Furono
adottate una serie di misure che si prefiggevano traguardi precisi da realizzare in un
periodo di tempo determinato, destinati a garantire la salute e la sicurezza dei più
piccoli. In quell'occasione fu anche lanciata la campagna destinata a ratificare
l'attuazione della Convenzione dei Diritti dell?infanzia, approvata dall'Onu l'anno
precedente. La sessione speciale riunitasi quest'anno, e siamo alla fine del 2003, dovrà
stabilire quanti di questi impegni sono stati in raltà mantenuti. Sappiamo infatti sin
troppo bene che sia i governi sia le organizzazioni umanitarie talvolta non si comportano
nel migliore dei modi, e ovviamente quando si riuniscono per parlare dei problemi dei più
poveri spendono cifre enormi in pranzi e cene, per non parlare poi degli stipendi
astronomici degli stessi funzionari. Per cui....!
La gente comune nel frattempo dorme e segue le vicende dei vips o degli sportivi,
rabbonita e rimbecillita dai mass media e da qualche prete di turno. Così i potenti,
approfittando del sonno, gli sfilano il portafoglio di tasca. I politici. I sindacalisti.
I banchieri, e persino i bancari. I giornalisti, soprattutto. Gli imprenditori. I
funzionari del fisco. Quelli che contano, insomma, i quali, conta di qua, conta di là,
alla fine si contano allegramente i soldi della povera gente.
Per fare questi filantropici lavori e per amministrare il bene pubblico ci sono infatti
schiere di burocrati, di politici e di funzionari vari che in santa alleanza con la
chiesa, con le banche, con le organizzazioni non-profit e con gli imprenditori di ogni
settore guadagnano una marea di soldi alle nostre spalle e il più delle volte invece di
fare le cose per lo meno nel migliore dei modi, riescono a rovinare sia l'ambiente sia un
mucchio di persone, mandando come al solito tutto a puttane, categoria che del resto non
fa altro che aumentare.
Così spesso accade persino che i soldi dati in beneficenza vadano ad arricchire altre
persone, e che i bisognosi, quelli veri, magari son ancora lì che aspettano. I soldi
stanziati per i terremotati? Arrivano iper-ridotti dopo 5 anni. Gli alluvionati in
Bangladesh? Mai visto una lira. Gli aiuti per l'Iraq, e chi ne sa qualcosa. E allora, la
domanda nasce spontanea: dove finiscono 'sti soldi? Fatevi un giretto alla Fao: stanze e
stanzette con opere colossali. Le organizzazioni che fanno? Si spacciano come
infinitamente buone, ma il loro unico scopo è aiutare se stesse. Cene sontuose, convegni
con cartelle scopiazzate, missioni impossibili costate miliardi per risolversi con un buco
nell'acqua (magari era anche un'opera per combattere la sete). Ai poveri destinatari non
arriva niente, perché i soldi spariscono in bilanci supergonfiati e in voci degli
straordinari da brivido: "Mi scusi, ma in questo bilancio ci sono 5 miliardi che non
tornano... Mah, saranno le spese varie." Già, le spese varie negli atelier. E
ancora, avanti con le opere di spreco: si vuol costruire un ospedale in Ruanda? Ecco i
soldi. Ma, una volta terminato, ci si accorge che quei poveracci non possono utilizzare le
attrezzature troppo complicate, e che non sono in grado di aggiustarle... Tutti soldi
sprecati. Tutto questo e latro ancora è stato per esempio denunciato da un giornalista,
tale Mario Giordano che ne ha per tutti: non si salva nessuno! Pavarotti&Friends,
Missione Arcobaleno, la Fao, la Croce Rossa, le Ong e le imprese no profit. Organizzazioni
che aiutano esclusivamente loro stesse, pagando profumatamente i loro impiegati, che
vivono nel lusso più sfarzoso. Il convegno per la fame nel mondo? E' seguito da una mega
abbuffata con prelibatezze, e le varie fondazioni in fin dei conti spesso non sono altro
che artifici per scaricare le spese e farle rientrare dal buco della serratura come
rimborsi più che meritati per mantenere ad oltranza un solo e vero alibi, la stupidità
della specie, ovviamente. E così come i giullari di corte sono autorizzati a raccontare
l'imbecillità del loro re, così anche i sicofanti del potere fanno lo stesso,
guadagnando per l'impegno, svariati miliardi di lire, naturalmente. E la gente è
contenta, la maggior parte dorme, quelli un po' più svegli sono contenti perché c'è
gente che denuncia la triste realtà, già poi non cambia niente lo stesso, e infine per
quelli che hanno un minimo di genialità non resta che la speranza di un futuro migliore o
la scoperta di qualche cura genetica per eliminare il peggiore di tutti i virus, quello
della stupidità universale.
I casi di mal governo, mal affare, corruzione e impiego pazzoide delle risorse finanziarie
di un paese o di un'organizzazione non si contano di certo, ce ne offre un altro esempio
il politico Raffaele Costa che ha analizzato e raccolto 110 casi in cui è stato coinvolto
il ministero degli Esteri nell'ambito di spese ingiustificate, anche legali, interessi
maturati per mancati pagamenti e danni miliardari sborsati dallo Stato. Nel mirino
dell'onorevole di Mondovì la Cooperazione allo sviluppo e gli aiuti ai paesi del Terzo
Mondo. Qualcosa evidentemente è andato storto nei rapporti fra lo Stato e le ditte
operanti all'estero per costruire opere, vendere merce, offrire tecnologia e servizi. Ma
non è stato un caso, era la prassi. Lo dimostrano gli atti giudiziari della Farnesina nei
quali si vede uno Stato sommerso dalle vicende giudiziarie o arbitrali e costretto a
risarcire denari che si sarebbero potuti risparmiare. La denuncia è bi-partisan, tocca
cioé tutti gli schieramenti (dal 1993 a oggi si sono avvicendati nei palazzi del potere
centrosinistra, centrodestra e i governi tecnici) e non coinvolge direttamente ministri ma
soprattutto funzionari, per dirla con un eufemismo, poco attenti a risparmiare e anzi
dediti a male amministrare il denaro pubblico. Anche le leggi ci hanno messo del loro:
«Leggi burocratiche assurde, controlli complessi ma inutili, appalti sbagliati,
disinteresse che - spiega Costa - hanno generato un'alluvione di sprechi».
L'onorevole punta il dito su vicende di ordinaria amministrazione che a tratti sfiorano il
grottesco. Come quella donazione di aerei che il Governo italiano volle fare alla Somalia
nel 1986 e che le autorità locali rifiutarono chiedendone la rimozione. Un diniego
costato 110 milioni di cui 29 in interessi per l'affitto di hangar e spese varie. Sono
soltanto briciole se si considera la storia del mulino costruito in Guatemala il cui conto
arrivò dal 1987 al giugno 2002 a 6,2 miliardi di lire (di cui 4 soltanto di interessi
maturati in 15 anni). Le cifre salgono in Senegal dove un piano di sviluppo da 25 miliardi
ne costa 39 (13 per interessi e 1 per spese arbitrali) o ancora in Somalia dove un primo
pagamento di 18 miliardi di lire a un consorzio viene effettuato, ma la ditta richiede una
revisione dei prezzi che comporta un aggravio di spesa di 16 miliardi di cui 7 per la
revisione e 9 per i soliti interessi. E si potrebbe continuare con l'acquedotto
dell'Angola costato un terzo in più rispetto al previsto per i ritardi nei pagamenti, con
l'iniziativa di cooperazione e sviluppo in Camerun costata 6 miliardi sui 3 preventivati.
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RICERCA E
STUPIDITA'
Dedicato a tutti quei politici, industriali, burocrati e stupidi
intellettuali o artisti da strapazzo che non sostengono la ricerca scientifica e nemmeno
hanno tanto riguardo o rispetto per chi gli fa notare la loro vanitosa e insulsa
ignoranza. Dedicato a tutti quei personaggi che alimentano lo sfruttamento, le connivenze,
i privilegi e le diseguaglianze nel mondo.
Investimenti in ricerca scientifica in percentuale del PIL
Giappone 2,12 Stati Uniti 1,97 Germania 1,66 Francia 1,38 Regno Unito 1,22 Media Unione
Europea 1,19 Canada 1,06 Russia 0,72 Italia 0,53
Numero di Ricercatori
Giappone 644.208 Stati Uniti 1.148.271 Germania 238.944 Francia 156.004 Regno Unito
147.035 Media Unione Europea 784.006 Canada 90.245 Russia Italia 69.621
Pubblicazioni Scientifiche periodo 1997-2002
Stati Uniti 34,86 Citazioni 49,43 Unione Europea 37,12 Citazioni 39,30 Regno Unito 9,43
Citazioni 11,39 Germania 8,76 Citazioni 10,02 Giappone 9,28 Citazioni 8,44 Francia 6,39
Citazioni 6,89 Canada 4,58 Citazioni 5,30
La produzione scientifica mondiale proviene da soli 31 paesi su 193. Sono 200.000 i visti
Usa concessi a medici, scienziati e ricercatori nel 2003.
Nel mondo il sapere scientifico è concentrato al 98% in 31 paesi e all'84,5% nelle mani
delle nazioni del G7 (Più la Svizzera). Quanto ai finanziamenti il nostro paese è ultimo
tra quelli del G8. Per quanto riguarda il rapporto tra il PIL e ricerca scientifica - più
questo rapporto è alto più è efficiente il paese nel campo della ricerca - il primato
mondiale spetta alla Svizzera, seguita da Svezia ed Israele, con gli Stati Uniti
all'11esimo posto e l'Italia al 16esimo. Se analizziamo i paesi del G8 sui finanziamenti
dell'industria nella ricerca e nello sviluppo scientifico il primato spetta al Giappone,
al secondo posto troviamo gli Stati Uniti, seguiti da Germania, Francia, Gran Bretagna e
Unione Europea. L'italia è ultima dietro il Canada e la Russia. La nostra industria
spende lo 0,53% del PIL contro il 2,12 del Giappone, l'1,79 degli Usa e l'1,19 della media
europea. Dieci anni fa l'Italia spendeva il 3,4 per cento. In dieci anni i soldi per la
ricerca si sono ridotti a un quinto.
L'Europa è al secondo posto dopo gli Stati Uniti per produzione di ricerca scientifica ma
il distacco è tale che non ha senso parlare di competizione.Il 62% degli articoli
scientifici più significativi, pubblicati tra il 1997 e il 2001, è targato Usa mentre
tutti insieme i quindici paesi della vecchia Unione Europea sono arrivati al 37%. La
seconda nazione più produttiva è stata la Gran Bretagna cori ìl 12,78% mentre l'Italia
si è posizionata solo al settimo posto con il 4,31%. Un tale distacco è il frutto di una
precisa strategia, vincente, perseguita da cinquant'anni: negli Stati Uniti i cosiddetti
"cervelli" vengono considerati unarisorsaperlacrescita del paese, una condizione
sine qua non per garantire progresso, tecnologia e sviluppo economico. Per questo hanno
intrapreso una politica volta ad attrarre medici, scienziati e ricercatori da tutti i
continenti (nel 2003 i visti concessi a stranieri altamente qualificati sono stati quasi
duecentomila) e così si
sono arricchiti, e continuano a farlo, mentre gli altri paesi perdono risorse preziose per
di più dopo averle formate. L'Italia è uno dei paesi che subisce l'esodo dei suoi
ricercatori e riduce, in modo lento ma inesorabile, la propria capacità di sviluppo. Gli
investimenti negli ultimi dieci anni sono diminuiti di cinque volte portando l'Italia
all'ultimo posto fra i paesi del G8, allo stesso livello della Polonia. Paradossalmente,
la qualità del lavoro degli scienziati è molto buona, soprattutto se analizzata in
rapporto agli scarsi investimenti. Vale a dire: i cervelli in Italia ci sono ma lavorano
in condizioni precarie, è facile così dedurre che se fossero finanziati adeguatamente
potrebbero eccellere. Eppure, a favore della ricerca si leva un coro di voci unanime, dal
governo ai centri di ricerca, alle università, fino ai rappresentanti degli industriali
sono tutti d'accordo servono maggiori investimenti per rendere l'Italia più competitiva e
per la modernizzazione del paese. A me sembra che per aspirare a questi ambiziosi
risultati bisognerebbe prima avere le idee chiare e una strategia in mente. Il Giappone,
per esempio, ha scelto la strada della fidelizzazione: si assumono ricercatori anche senza
una formazione di alto livello ma il posto di lavoro rimane lo stesso per tutta la vita,
così la formazione avviene internamente e il ritorno sull'investimento è assicurato sul
lungo periodo. Gli Usa hanno invece adottato l'atteggiamento opposto: si assume solo
personale altamente specializzato pronto a produrre, meglio se straniero e quindi già
formato nel paese d'origine, e in questo modo non si spende nemmeno un dollaro per i corsi
di formazione. In Italia, per il momento, l'unica strada che si segue è quella della
generosità: formare i ricercatori e poi lasciarli andare all'estero a tutto beneficio del
paese di destinazione. Per invertire questa tendenza sarebbe necessario aggioranre la
formazione universitaria e post-universitaria e modificare percorsi professionali e salari
dei ricercatori di maggior talento. Inoltre, sarebbe auspicabile suddividere la
responsabilità: le istituzioni dovrebbero occuparsi di stabilire le linee guida, in
accordo a quelle fissate a livello europeo, ma anche di porre fine agli inutili quanto
intoccabili feudi personali, refrattari al cambiamento e responsabili di tanta
stagnazione. Il settore produttivo, legato ai grandi gruppi industriali, dovrebbe
contribuire in modo consistente a finanziare la ricerca, come è accaduto in Gran Bretagna
dove, grazie alla partecipazione dei privati a favore della ricerca pubblica, negli
anni'90 il paese ha registrato il più elevato tasso diinvestimenti in ricerca del mondo.
L'Italia, a mio avviso, ha bisogno di un cambio di rotta radicale, di una cultura nuova,
da inventare. Non è un processo impossibile piuttosto è inevitabile dal momento che
facciamo parte di quel ristretto gruppo di nazioni ricche che vuole avere l'autorità di
guidare le scelte del mondo. Non si può appartenere al G8 e non mettere i nostri
scienziati nelle condizioni di studiare e proporre strategie per le sempre più urgenti
problematiche globali. La ricetta è semplice: delineare le aree strategiche, aumentare la
percentuale di investimenti pubblici ma anche incentivare i privati, sollecitare proposte
dai ricercatori e poi distribuire i finanziamenti sulla base di un processo di selezione
pubblico e trasparente.
Forse si dovrebbe rinunciare anche ad opere faraoniche di dubbia utilità come il ponte di
Messina ma certo si farebbe fare un bel saltò di qualità al paese.
Iganzio Marino Direttore del Dipartimento Trapianti d'Organo, Jefferson Medical College,
Philadelphia, Usa Da Repubblica del 24 luglio 2004 Indice Pagina
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IMPERO AZIENDE POLITICA POTERE GUERRA E STUPIDITA'
Premessa di Carl William Brown. Da tempo si sà che il mondo è in mano agli stolti e che la nostra
ignoranza è di gran lunga più inquietante delle nostre conoscenze, ma si può fare
sempre meglio e l'evoluzione della stupidità non deve arrestarsi, solo così infatti gli
imbecilli potranno riprodursi e governare al meglio il nostro pietoso pianeta, per cui
invito tutti a non lasciarsi prendere alla sprovvista e a prepararsi al meglio per votare
alle prossime elezioni. Per Dio, che vinca il migliore !!!!! (P.S. questo aforisma non è
così semplice da capire, ma sono sicuro che anche qui farete del vostro meglio)
La giustizia è per i ricchi e gli imprenditori. I "diritti
umani" sono per i poveri. È il modello di un mondo fatto di aziende e eserciti. E
non possiamo restare neutrali.
L'illusione della pace.
ARUNDHATI ROY, OUTLOOK, INDIA.
ORMAI É UFFICIALE: LA Sydney peace foundation è nel giro del gioco d'azzardo. Nel 2003,
con grande coraggio, ha scelto di assegnare il premio per la pace alla dottoressa Hanan
Ashrawi, palestinese. E come se non bastasse quest'anno ha scelto proprio me tra tutta la
gente del mondo!
Tuttavia vorrei presentare un reclamo. Le mie fonti mi dicono che la dottoressa Ashrawi ha
avuto un picchetto di protesta tutto per sé. È una discriminazione. Esigo lo stesso
trattamento per tutti i premiati. Posso chiedere formalmente alla fondazione di
organizzare una protesta contro di me dopo questo discorso? Non dovrebbe essere difficile.
Se il preavviso non è sufficiente, anche domani va benissimo.
Dopo l'annuncio del premio di quest'anno, chi mi conosce bene non ha risparmiato le
battute: perché l'hanno assegnato alla più grande rompiscatole del mondo? Nessuno gli ha
detto che non hai mai pace? Arundhati cara, cos'è il Sydney peace prize? A Sydney c'è
stata forse una guerra che tu hai criticato?
Per quanto mi riguarda, sono felice di ricevere il premio per la pace di Sydney.
Ma devo accettarlo come un premio letterario assegnato a una scrittrice per le sue opere,
perché - contrariamente alle molte virtù che mi attribuiscono erroneamente - non sono
un'attivista né la leader di un movimento di massa, e di certo non sono "la voce dei
senza voce" (sappiamo naturalmente che i "senzavoce" non esistono. Esistono
soltanto i "deliberatamente azzittiti" o i "preferibilmente
inascoltati").
Cambiamento allarmante
Sono una scrittrice che non rappresenta nessuno se non se stessa. Perciò, anche se mi
piacerebbe, sarebbe presuntuoso da parte mia dire che accetto questo premio a nome dei
cittadini senza potere e senza diritti che lottano contro i potenti. Posso comunque dire
che lo accetto come un'espressione di solidarietà della fondazione per una politica e una
visione del mondo condivisa da milioni di persone in tutto il mondo.
Può sembrare paradossale che una persona impegnata per buona parte del suo tempo a
elaborare strategie di resistenza e a complottare per turbare questa finta pace riceva un
premio proprio per la pace. Dovete ricordare che vengo da un paese sostanzialmente feudale
- e poche cose sono più inquietanti di una pace feudale. A volte c'è del vero nei luoghi
comuni. Non c'è pace senza giustizia. E senza resistenza non ci sarà giustizia.
Oggi non è soltanto la giustizia, ma l'idea stessa di giustizia a essere attaccata.
L'assalto ai settori vulnerabili e fragili della società è così totale, crudele e così
astuto - così globale eppure così calibrato, apertamente brutale eppure sottilmente
insidioso - che la sua sfacciataggine ha eroso la nostra definizione di giustizia. Ci ha
costretti ad abbassare il tiro e a ridimensionare le nostre aspettative. perfino tra chi
ha le migliori intenzioni, l'ampio e magnifico concetto di giustizia è gradualmente
sostituito dal discorso riduttivo e molto più fragile dei "diritti umani".
A pensarci bene, c'è un cambiamento nel modello d'analisi. Le idee di uguaglianza e di
parità sono state smontate e tolte dall'equazione. E' un processo di logoramento. Quasi
senza accorgercene cominciamo a pensare alla giustizia per i ricchi e ai diritti umani per
i poveri. Giustizia per il mondo delle multinazionali, diritti umani per le sue vittime.
Giustizia per gli americani, diritti umani per afghani e iracheni. Giustizia per le caste
superiori dell'India, diritti umani per i fuori casta e i senza casta. Giustizia per gli
australiani bianchi, diritti umani per gli aborigeni e gli immigrati (il più delle volte
neppure questo).
Ormai è evidente che la violazione dei diritti umani è una componente necessaria del
processo in corso per imporre al mondo una struttura economica e politica ingiusta. Senza
la violazione dei diritti umani su larga scala il progetto neoliberista non potrebbe
realizzarsi. Ma sempre più spesso le violazioni dei diritti umani sono presentate come il
risvolto sfortunato, quasi accidentale, di un sistema economico e politico per il resto
accettabile. Come se le violazioni fossero un piccolo problema che può essere eliminato
con un po' di attenzione in più da parte delle organizzazioni non governative. È per
questo che in zone di intensa conflittualità - per esempio in Kashmir e in Iraq - i
professionisti dei diritti umani sono accolti con una certa diffidenza. Tanti movimenti di
resistenza che nei
paesi poveri lottano contro grandi ingiustizie e mettono in discussione i principi
sottintesi nei concetti di "liberazione" e "sviluppo", considerano le
ong in difesa dei diritti umani come moderni missionari arrivati per alleggerire gli
aspetti peggiori dell'imperialismo. Per disinnescare la rabbia politica e mantenere lo
status quo.
Sono passate poche settimane da quando, il 9 ottobre, la maggioranza degli australiani ha
votato per rieleggere il primo ministro John Howard, che tra (l'altro ha spinto
l'Australia a partecipare all'invasione e all'occupazione illegali dell'Iraq. L'invasione
dell'Iraq passerà senza dubbio alla storia come una delle guerre più vigliacche mai
combattute. Una guerra in cui una banda di paesi ricchi, che dispone di tante armi
nucleari da
distruggere il mondo più volte, ha accusato ingiustamente un paese povero di avere armi
nucleari, ha usato le Nazioni Unite per costringerlo a disarmarsi e poi l'ha invaso, l'ha
occupato e ora è impegnata a venderlo.
II palcoscenico
Parlo dell'Iraq non perché ne parlano tutti (lasciando che altri orrori in altri luoghi
si consumino nel silenzio , ma perché è un'anticipazione del futuro. L'Iraq segna
l'inizio di un nuovo ciclo. Ci offre l'opportunità di vedere all'opera la cricca
multinazionali-militari che è ormai conosciuta con il nome di impero. Nel nuovo Iraq si
lavora senza guanti. Mentre la battaglia per controllare le risorse del pianeta si
intensifica, il colonialismo economico inscena il suo grande ritorno usando l'aggressione
militare. L'Iraq è il culmine del processo di globalizzazione delle multinazionali in cui
neocolonialismo e neoliberismo si sono fusi. Se trovassimo il coraggio di sbirciare oltre
il velo di sangue, vedremmo le spietate transazioni in corso dietro le quinte. Ma prima,
brevemente, parliamo del palcoscenico.
Nel 1991 il presidente americano George Bush senior organizzò l'operazione Tempesta nel
deserto. In quella guerra furono uccisi decine di migliaia di iracheni. Il territorio
iracheno fu bombardato con più di 300 tonnellate di uranio impoverito, quadruplicando i
casi di cancro tra i bambini. Da più di 13 anni, 24 milioni di iracheni vivono in una
zona di guerra priva di cibo, medicine e acqua pulita. Nella frenesia che si è scatenata
intorno alle elezioni statunitensi ricordiamoci che la presenza di inquilini repubblicani
o democratici alla Casa Bianca non ha mai determinato cambiamenti nei livelli di
crudeltà. Mezzo milione di bambini iracheni sono morti a causa del regime delle sanzioni
economiche nella fase preparatoria dell'operazione Shock and awe.
Fino a poco tempo fa avevamo una contabilità accurata dei soldati statunitensi morti in
Iraq, ma non c'erano cifre esatte sugli iracheni uccisi. Il generale americano Tommy
Franks ha detto: "Non ci interessa il conteggio dei cadaveri (intendendo il conteggio
dei cadaveri iracheni). Avrebbe potuto aggiungere: "Non ci interessano neanche le
Convenzioni di Ginevra". Un nuovo studio aprofondito, presentato dalla rivista medica
Lancet e ampiamente condiviso da altri esperti del settore, calcola che dall'invasione del
2003 siano morti centomila iracheni. Equivalgono a cento sale come questa, piene di gente.
Piene di amici, genitori, parenti, colleghi, innamorati. L'unica differenza è che qui non
ci sono molti bambini - non dimentichiamo i bambini iracheni. Tecnicamente questo bagno di
sangue si chiami bombardamento di precisione. Nella lingua di tutti i giorni si chiama
mattanza. Queste cose sono ormai note. Chi sostiene l'invasione e vota per gli invasori
non può rifugiarsi nell'ignoranza: devi veramente credere che questa brutalità sia
giusta, o quanto meno accettabil perché è nel suo interesse.
E così il mondo "moderno" e "civile" costruito laboriosamente su un
retaggio di genocidio, schiavitù e colonialismo oggi controlla gran parte del petrolio
del pianeta. E gran parte delle armi, dei soldi, e dei mass media. Quei docili mass media
delle multinazionali per i quali la dottrina della libertà di parola è stata sostituita
dalla libertà di parola consenziente.
Hans Blix, il capo degli ispettori delle Nazioni Unite per gli armamenti, ha detto di non
aver trovato prove della presenza di armi nucleari in Iraq. Ogni straccio di prova
prodotto dal governo americano e britannico è risultato falso - che fossero i resoconti
sull'acquisto di uranio in Niger da parte di Saddam Hussein, o il rapporto
dell'intelligence inglese che si è rivelato un plagio di una vecchia tesi di laurea.
Eppure alla vigilia della guerra, giorno dopo giorno la stampa e i canali televisivi più
"rispettabili" degli Stati Uniti hanno lanciato titoloni sulle "prove"
di un arsenale di armi nucleari iracheno. Ora si scopre che la fonte di queste
"prove" sulle armi atomiche irachene era Ahmed Chalabi che (come Suharto in
Indonesia, Pinochet in Cile, lo scià di Persia, i taliban e, ovviamente, lo stesso Saddam
Hussein) era stato assoldato per milioni di dollari dalla vecchia buona Cia. E così un
paese è stato ridotto all'oscurità a forza di bombe. E' vero che ci sono state delle
frasi di scusa. Ci spice per quella gente, ma dobbiamo veramente andare avanti. Cominciano
a circolare nuove voci sulla presenza di armi nucleari in Iran e in Siria. E indovinate
chi riferisce queste voci? Gli stessi reporter che avevano fatto gli "scoop"
fasulli sull'Iraq: la squadra dei giornalisti superembedded.
Il capo della BBC britannica si è dovuto dimettere e un uomo si è suicidato perché un
reporter della BBC aveva accusato l'amministrazione Blair di "gonfiare" i
rapporti d'intelligente sulle armi di distruzione struzione di massa irachene.
Ma il premier britannico resta in carica anche se il suo governo ha fatto ben di più che
"gonfiare" i rapporti di intelligenee. È responsabile dell'invasione illegale
di un paese e dello sterminio di massa del suo popolo.
Spremere la gente
Chi vuole entrare in Australia, come me, quando riempie il modulo del visto deve
rispondere a una domanda: ha mai commesso o è stato coinvolto in crimini di guerra contro
l'umanità o i diritti umani? George W. Bush e Tony Blair otterrebbero il visto per
l'Australia? Secondo i principi del diritto internazionale rientrano senza dubbio nella
categoria dei criminali di guerra.
Ma è ingenuo immaginare che il mondo cambierebbe se fossero rimossi dalla loro carica. La
tragedia è che i loro avversari non si oppongono realmente a queste politiche. I toni
apocalittici della campagna elettorale statunitense sono stati riservati alla discussione
su chi sarebbe stato un migliore comandante in capo e un manager più efficiente
dell'impero americano. La democrazia non offre più una vera scelta, agli elettori. Solo
una scelta apparente.
Anche se in Iraq non sono state trovate armi di distruzione di massa, ci sono nuove prove
sconvolgenti che Saddam Hussein stesse progettando il riarmo (come se io progettassi di
vincere un oro olimpico per il nuoto sincronizzato).
Grazie al cielo c'è la dottrina della guerra preventiva. Dio solo sa quanti altri
pensieri malvagi avesse Saddam - spedire Tampax per posta ai senatori
americani, o liberare coniglie in burqa nella metropolitana londinese. Senza dubbio tutto
verrà alla luce nel libero ed equo processo a Saddam Hussein che si terrà presto nel
nuovo Iraq.
Verrà alla luce tutto, tranne il capitolo in cui sapremmo che Stati Uniti e Gran Bretagna
l'avevano coperto di soldi e assistenza materiale all'epoca dei suoi criminali attacchi
contro i curdi e gli sciiti iracheni. Tutto tranne il capitolo in cui sapremmo che un
rapporto di dodicimila pagine presentato dal governo di Saddam Hussein alle Nazioni Unite
è stato censurato dagli Stati Uniti perché elenca 24 multinazionali americane che hanno
partecipato al programma di armi convenzionali e nucleari dell'Iraq prima della guerra del
Golfo (ci sono Bechtel, DuPont, Eastman Kodak, Hewlett Packard, International computer
systems e Unisys).
E così l'Iraq è stato "liberato". La sua gente è stata soggiogata e i suoi
mercati sono diventati "liberi". Questo è l'inno del neoliberismo. Liberate i
mercati. Spremere la gente. Il governo americano ha privatizzato e venduto interi settori
dell'economia irachena. Le politiche economiche e le eggi in materia fiscale sono state
riscritte. Le società straniere ora possono comprare il 100 per cento delle aziende
irachene ed esportare i profitti.
Questa è una palese violazione delle leggi internazionali ed è una delle ragioni
principali della farsa clandestina e frettolosa con cui il potere è stato
"consegnato" a un "governo provvisorio': Quando la consegna dell'Iraq alle
multinazionali sarà completa, una dose modesta di vera democrazia non farà alcun male.
Potrebbe essere una buona pubblicità per la versione aziendale della teologia della
liberazione, nota anche come nuova democrazia.
Farsa intrisa di Sangue
Non sorprende che la messa all'asta dell'Iraq abbia provocato una corsa verso la
mangiatoia. Grandi aziende come la Bechtel e la Halliburton - che un tempo era guidata dal
vicepresidente americano Dick Cheney - hanno ottenuto contratti colossali per le opere di
"ricostruzione"
Un breve curriculum di una di queste multinazionali può dare al profano l'idea di come
funziona il meccanismo - non solo in Iraq, ma in tutto il mondo. Prendiamo la Bechtel, per
esempio - solo perché la povera piccola Halliburton è sotto inchiesta con l'accusa di
aver gonfiato le fatture per le forniture di carburante in Iraq e a causa dei suoi
contratti per "ripristinare" l'industria petrolifera irachena, contratti che
hanno avuto un costo piuttosto alto: 2,5 miliardi di dollari.
Il gruppo Bechtel e Saddam Hussein sono vecchi compari. Molti dei loro affari furono
negoziati addirittura da Donald Rumsfeld. Nel 1988, dopo che Saddam Vussein aveva gassato
migliaia di curdi, la Bechtel firmò dei contratti con il suo governo per costruire un
impianto chimico a Baghdad.
Storicamente il gruppo Bechtel ha avuto e continua ad avere legami strettissimi con
l'establishment repubblicano. Potreste definire la Bechtel e l'amministrazione Reagan-Bush
una squadra. L'ex segretario alla difesa Caspar Weinberger è stato consulente legale
della Bechtel. L'ex vicesegretario per l'energia, W. Kenneth Davis, è stato il
vicepresidente
della Bechtel. Riley Bechtel, presidente della società, fa parte del consiglio per le
esportazioni del presidente degli Stati Uniti. Jack Sheehan, generale in pensione dei
marines, è un altro vicepresidente della Bechtel e membro della commissione per la
difesa. L'ex segretario di stato George Shultz, che fa parte del consiglio di
amministrazione del gruppo Bechtel, è stato presidente del consiglio consultivo del
comitato per la liberazione dell'Iraq.
Quando il New York Times gli ha chiesto se era preoccupato per un possibile conflitto
d'interessi tra i suoi due "lavori'; Shultz ha risposto: "Non mi risulta che
alla Bechtel gioverebbe particolarmente (invasione dell'Iraq. Ma se c'è un lavoro da
fare, la Bechtel è il tipo di società che può farlo". In Iraq la Bechtel ha
ottenuto contratti per più di un miliardo di dollari, tra cui ordini per ricostruire
impianti idroelettrici, reti elettriche e idriche, sistemi fognari e strutture
aeroportuali. Anche senza il gioco delle parti, sarebbe una farsa da camera da letto - se
non fosse così intrisa di sangue.
Tra il 2001 e il 2002 nove membri su 30 della commissione statunitense per la difesa
avevano legami con società che avevano rievuto contratti militari per 76 miliardi di
dollari. Un
tempo le armi erano prodotte per combattere le guerre. Ora le guerre si fanno per vendere
armi.
Tra il 1990 e il 2002 il gruppo Bechtel ha contribuito con 3,3 milioni di dollari alla
campagna elettorale finanziando sia repubblicani sia democratici. Dal 1990 ha ottenuto
più di duemila contratti pubblici per un totale di più di undici miliardi di dollari. E'
un investimento incredibilmente fruttuoso, no?
E la Bechtel ha lasciato tracce in tutto il mondo. È così che fa una multinazionale. Il
gruppo Bechtel ha attirato per la prima volta l'attenzione del mondo quando ha firmato un
contratto con Hugo Banzer, l'ex dittatore boliviano, per privatizzare i rifornimenti
idrici della città di Cochabamba. Per prima cosa fu alzato il prezzo dell'acqua.
Centinaia di migliaia di persone che non potevano permettersi di pagare le bollette della
Bechtel scesero in piazza. Un enorme sciopero paralizzò la città. Fu subito dichiarata
la legge marziale. Anche se alla fine fu costretta ad abbandonare i suoi uffici, la
Bechtel sta ancora negoziando una buonuscita di milioni di dollari dal governo boliviano
per la perdita di potenziali profitti. E questo, come vedremo, sta diventando un popolare
sport aziendale. In India la Bechtel e la General Electric (Ge) sono i nuovi proprietari
del famigerato e fallito progetto energetico della Enron. Il contratto della Enron, che
legalmente vincola il governo dello stato del Maharashtra a pagare alla società la somma
di 30 miliardi di dollari, è il più grande mai firmato in India. La Enron non ha esitato
a vantarsi dei milioni di dollari che ha speso per "educare" i politici e i
burocrati indiani. Il contratto della Enron nel Maharastra - il primo progetto energetico
privato "agevolato" dell'India - è diventato famoso come la più grande frode
nella storia del paese (la Enron è stata un altro dei grandi finanziatori della campagna
elettorale del partito Repubblicano). In India l'elettricità prodotta dalla Enron aveva
un costo così alto che il governo di new Delhi ha ritenuto più economico non comprarla e
pagare alla Enron i compensi previsti dal contratto. Questo significa che il governo di
uno dei paesi più poveri del mondo pagava alla Enron 220 milioni di dollari statunitensi
all'anno per non produrre elettricità! Ora che la Enron ha chiuso, la Bechtel e la
General Electric hanno promosso un'azione legale contro il governo indiano chiedendo 5,6
miliardi di dollari. Non è neppure una parte del denaro che loro (o la Enron) hanno
realmente investito nel progetto. Ancora una volta, è una proiezione dei profitti che
avrebbero ricavato se il progetto, fosse stato realizzato.
Per darvi un'idea delle dimensioni, 5,6 miliardi di dollari sono poco più della cifra di
cui il governo dell'India avrebbe bisogno ogni anno per un progetto di tutela
dell'occupazione rurale capace di garantire un salario di sussistenza a milioni di persone
che vivono nella povertà più abietta, schiacciati dai debiti, dagli sfollamenti, dalla
denutrizione cronica e
dall'Organizzazione mondiale del commercio. L'India è un paese dove gli agricoltori
strangolati dai debiti sono spinti al suicidio - non a centinaia, ma a migliaia.
Il progetto di tutela dell'occupazione rurale presentato dal nuovo governo eletto a maggio
è deriso dalla classe imprenditoriale indiana che lo considera una richiesta
irragionevole e utopistica avanzata da una sinistra "pazzoide" ritornata al
potere. "Dove trovare i soldi?",
chiedono con disprezzo. Eppure, ogni volta che si parla di annullare un pessimo contratto
con una multinazionale notoriamente corrotta come la Enron, gli stessi cinici cominciano a
sproloquiare sulla fuga dei capitali e sul rischio terribile di "creare un clima
sfavorevole agli investimenti".
L'arbitrato tra la Bechtel, la General electric e il governo indiano è attualmente in
corso a Londra. La Bechtel e la Ge hanno motivi di speranza. Il ministro delle finanze
indiano che aveva avuto un ruolo centrale nell'approvazione del disastroso contratto con
la Enron è tornato a casa dopo aver passato qualche anno al Fondo monetario
internazionale. E oltretutto è tornato con una promozione in tasca. Oggi è
vicepresidente della Commissione per la pianificazione.
Pensateci. l profitti nazionali di un unico progetto sarebbero sufficienti per assicurare
un centinaio di giornate di lavoro all'anno a salario minimo per 25 milioni di persone.
Sono cinque milioni in più degli abitanti dell'Australia: questa è la scala dell'orrore
del neoliberalismo. E la storia della Bechtel è ancora più grave. In una vicenda che si
può definire solo scandalosa, scrive Naomi Klein, la Bechtel è riuscita a vincere una
causa contro l'Iraq lacerato dalla guerra per "risarcimenti di guerra" e
"profitti mancati". Le sono stati concessi sette milioni di dollari.
II nuovo Iraq
Perciò, tutti voi giovani laureati in management non preoccupatevi di Harvard e Wharton -
ecco la guida al successo aziendale per il manager pigro: primo, riempite il consiglio di
amministrazione di importanti funzionari pubblici. Secondo, riempite il governo
di membri del vostro consiglio d'amministrazione. Aggiungete petrolio. Mescolate. Quando
nessuno saprà dire dove finisce il governo e dove comincia la vostra azienda, mettetevi
d'accordo con il governo per equipaggiare e armare un feroce dittatore in un paese ricco
di petrolio.
Guardate da un'altra parte mentre uccide la sua popolazione. Fate bollire a fuoco lento.
Usate il tempo per procurarvi alcuni miliardi di dollari in contratti pubblici. Poi
accordatevi di nuovo con il vostro governo mentre rovescia il dittatore e bombarda i suoi
sudditi, prendendo specificamente di mira infrastrutture essenziali e uccidendo in corso
d'opera un centinaio di migliaia di persone. Incassate un altro miliardo di dollari circa,
in contratti per "ricostruire" le infrastrutture.
Per coprire le spese di viaggio e gli extra, intentate azioni legali chiedendo
risarcimenti per i profitti mancati nel paese devastato. Diversificate gli investimenti.
Comprate un'emittente televisiva, in modo che in occasione della prossima guerra possiate
mettere in mostra i vostri armamenti e la vostra tecnologia militare mascherati da servizi
e reportage. E infine, create un premio per i diritti umani con il nome della vostra
azienda. Potreste assegnare il primo riconoscimento postumo a Madre Teresa di Calcutta.
Non potrebbe rifiutarlo né controbattere.
L'Iraq invaso e occupato è stato costretto a pagare 200 milioni di dollari a titolo di
"risarcimenti" per profitti mancati a multinazionali come Halliburton, Shell,
Mobil, Nestlé, Pepsi, Kentucky Fried Chicken e Toys R Us. E questo oltre ai 125 milioni
di dollari di debito come stato sovrano che lo costringono a rivolgersi al Fondo monetario
internazionale, appostato in attesa come l'angelo della morte, con il suo programma di
aggiustamento strutturale (anche se in Iraq sembra che non siano rimaste molte strutture
da aggiustare. A parte l'oscura al Qaeda). Nel nuovo Iraq la
privatizzazione ha conquistato nuovi spazi. L'esercito statunitense recluta sempre più
spesso mercenari privati che collaborano all'occupazione. Il vantaggio dei mercenari è
che quando sono uccisi non rientrano nel calcolo dei soldati americani morti. Questo aiuta
a gestire l'opinione pubblica, cosa particolarmente importante in un anno elettorale. Le
prigioni sono state privatizzate. La tortura è stata privatizzata. Abbiamo visto a cosa
porta tutto ciò. Tra le altre attrattive del nuovo Iraq ci sono anche la chiusura dei
giornali, il bombardamento di emittenti televisive, i reporter uccisi. I soldati americano
hanno aperto il fuoco sui manifestanti disarmati uccidendo decine di persone. L'unico tipo
di resistenza che è riuscito a sopravvivere è folle e brutale come l'occupazione. C'è
spazio per una resistenza laica, democratica, femminista e non violenta in Iraq? Di fatto
no.
Pareti scivolose
per questo tocca a noi che viviamo fuori dall'Iraq creare una resistenza di massa laica e
non violenta all'occupazione statunitense. Se non lo facciamo, corriamo il rischio di
permettere che l'idea di resistenza sia sequestrata e confusa con il terrorismo, e sarebbe
un peccato perché non sono la stessa cosa.
E allora cosa significa pace in questo mondo selvaggio, aziendalizzato, militarizzato?
Cosa significa pace in un mondo dove un radicato sistema di appropriazione ha creato una
situazione in cui le nazioni povere che per secoli sono state saccheggiate dai regimi
coloniali affondano nei debiti con gli stessi paesi che le hanno saccheggiate, e devono
ripagarli al ritmo di 382 miliardi di dollari l'anno?
Cosa significa pace in un mondo in cui la somma della ricchezza dei 587 miliardari del
pianeta supera la somma del prodotto interno lordo dei 135 paesi più poveri? O quando i
paesi ricchi che pagano sussidi all'agricoltura per un miliardo di dollari al giorno
cercano di costringere i paesi poveri a rinunciare ai loro sussidi? Cosa significa pace
per le popolazioni dell'Iraq, della Palestina, del Kashmir, del Tibet e della Cecenia
occupati? O per gli aborigeni dell'Australia? O per gli Ogoni della Nigeria? O per i Curdi
in Turchia? O per i dalit e gli adivasi, i fuori casta e i senza casta, in India? Cosa
significa pace per i non musulmani nei paesi islamici, o per le donne in Iran, Arabia
Saudita e Afghanistan? Cosa significa per i milioni di persone sradicate dalle loro terre
dalle dighe e dai progetti di sviluppo? Cosa significa pace per i poveri derubati delle
loro risorse e per i quali ogni giorno la vita è una tetra battaglia per l'acqua, la
casa, la sopravvivenza e, soprattutto, una parvenza di dignità? Per loro la pace è
guerra.
Sappiamo benissimo a chi giova la guerra nell'età dell'impero? Ma dobbiamo anche
chiederci onestamente: a chi giova la pace nell'età dell'impero? Alimentare la guerra è
criminale. Ma parlare di pace senza parlare di giustizia potrebbe facilmente diventare un
discorso in favore di una ritirata. E parlare di giustizia senza smascherare le
istituzioni e i sistemi responsabili dell'ingiustizia è più che ipocrita.
E' facile dare ai poveri la colpa della loro povertà. E' facile credere che il mondo sia
intrappolato in una spirale di terrorismo e di guerra. E' quello che permette al
presidente americano di dire: "O siete con noi o con i terroristi". Ma noi
sappiamo che è una falsa alternativa. Sappiamo che il terrorismo è solo la
privatizzazione della guerra: i terroristi sono i sostenitori del libero mercato della
guerra, credono che l'uso legittimo della violenza non sia una prerogativa esclusiva dello
stato.
E' sbagliato fare una distinzione morale tra l'indicibile brutalità del terrorismo e la
carneficina indiscriminata della guerra e dell'occupazione. Entrambi i tipi di violenza
sono inaccettabili. Non possiamo sostenerne uno e condannarne un altro. La vera tragedia
è che la maggior parte della gente è intrappolata tra l'orrore di una pace finta e il
terrore della guerra. Sono le due pareti scivolose intorno a noi.
La domanda è: come possiamo uscire da questo burrone? Chi è benestante ma si sente
moralmente a disagio, deve chiedersi innanzitutto se vuole veramente uscirne. Fino a dove
siete disposti ad arrivare? Il burrone non è diventato troppo comodo? Se volete veramente
arrampicarvi fuori, ci sono notizie buone e notizie cattive.
La buona è che il gruppo di testa ha cominciato la scalata qualche tempo fa. Sono già a
metà strada. Migliaia di attivisti in tutto il mondo hanno lavorato sodo per costruire i
punti di appoggio per i piedi e per fissare le corde, in modo che per tutti noi la scalata
diventi più facile.
Non c'è una sola strada per salire. Ci sono centinaia di modi per farlo. Ci sono
centinaia di battaglie combattute in tutto il mondo e che hanno bisogno delle vostre
capacità, delle vostre menti, delle vostre risorse. Nessuna battaglia è irrilevante.
Nessuna vittoria è troppo piccola.
La cattiva notizia è che le manifestazioni colorate, le marce del fine settimana e i
viaggi annuali al Social forum mondiale non bastano. Servono azioni mirate di concreta
disobbedienza civile con conseguenze concrete. Forse non possiamo premere l'interruttore e
accendere una rivoluzione. Ma ci sono varie cose che potremmo fare. Per esempio, potremmo
compilare un elenco delle società che hanno tratto profitti dall'invasione dell'Iraq e
hanno una rappresentanza qui in Australia. Potremmo fare i loro nomi, occuparle, occupare
i loro uffici e costringerle ad abbandonare l'attività. Se è successo in Bolivia, può
succedere in India. Può succedere in Australia. Perché no?
Questo è solo un piccolo suggerimento. Ma ricordate che se la lotta dovesse ricorrere
alla violenza, perderebbe lungimiranza, bellezza e immaginazione. E, cosa più pericolosa
di tutte, finirebbe con l'emarginare e sacrificare le donne. E una lotta politica che non
ha le donne al centro, sopra, sotto e dentro di sé, non è neppure una lotta. Il punto è
che bisogna partecipare alla battaglia. Come ha detto lo storico americano Howard Zinn:
non si può restare fermi su un treno in movimento.
INTERNAZIONALE 571, 23 DICEMBRE 2004
Questo articolo è tratto dal suo discorso alla Sydney peace foundation che il 4 novembre
2004 le ha assegnato il premio per la pace. Indice
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INTERNET, STUPIDITA' E
DIRITTI D'AUTORE
Pretendere soldi sotto forma di pagamento per i
diritti d'autore per l'utilizzo di fotografie di opere artistiche in siti
didattici, culturali, scolastici, di privati e di associazioni no profit
senza fini di lucro che operano nello spirito del "cooperative learning" non
è morale, non è economico, non è intelligente, non è legale, ma è da stupidi
e da ignoranti. Queste pagine internet infatti esaltano la creatività degli
stessi autori, e di coloro che ne divulgano l'arte, e aiutano tutti i
cittadini di buona volontà ad approfondire la propria conoscenza estetica e
quindi etica del mondo in cui vivono, ed è inutile dire che questo processo
oltre che ad essere didattico e pedagogico aiuta inevitabilmente ad
incrementare la sensibilità degli esseri umani e quindi ne stimola il loro
progresso e la loro evoluzione. In questa ottica la legislazione americana
prevede il "fair use", istituto prettamente statunitense che sancisce la
possibilità di utilizzare le immagini protette da copyright senza
autorizzazione del proprietario, questo però, a determinate condizioni,
ossia, per finalità di promozione "del progresso della scienza e delle arti
utili".
Impedire o richiedere il pagamento di esose somme di denaro per l'utilizzo
senza scopi di lucro di immagini di vari quadri da parte della Siae impone
quindi la nascita di un ampio dibattito sulla moralità e la validità
giuridica di un tale comportamento e sulla necessità di interpretare al
meglio la legge sui diritti d'autore, che mina gravemente il diritto alla
diffusione libera del sapere, della cultura, della conoscenza e che al tempo
stesso mira a lasciare i cittadini nell'ignoranza più totale e si accanisce
contro quei poveri intellettuali che con grande fatica ed impegno cercano di
divulgare e di diffondere una certa sensibilità artistica, letteraria e
sociale, ovvero che cercano in pratica di migliorare la sensibilità etica ed
estetica di tutta l'umanità del nostro pianeta. Ma questo accade solo in
Italia dove la stupidità e la rigidità del nostro sistema bloccano la
creatività e la crescita dei siti culturali e quindi al tempo stesso
inibiscono la promozione del nostro territorio, del nostro genio, delle
nostre imprese e allontanano i navigatori stranieri e locali dalla nostra
realtà, la qual cosa costituisce un gravissimo danno per tutto il paese.
Questa situazione richiede dunque non solo l'intervento immediato di tutti
gli intellettuali di buona volontà che abbiano un minimo a cuore le sorti
culturali, sociali, economiche e scientifiche del nostro paese, ma anche di
tutti quei naviganti che di questo passo diventeranno sempre più succubi di
una cultura straniera, non sempre amicale nei nostri confronti, e che
vedranno di pari passo impoverirsi a grandi falcate le loro già misere
finanze.
Su internet ormai si può trovare di tutto e soprattutto immagini di opere
d'arte, fotografie, filmati, musica, ipertesti didattici, articoli, corsi, e
via dicendo, il web sta in pratica trasformando molti principi culturali e
la filosofia di fondo che ne sta alla base è quella rivoluzionaria della
condivisione e della libera comunicazione di idee, di sentimenti, di
pensieri, di testi, di immagini, di critiche e di proposte. I links e gli
ipertesti, la multimedialità e la diffusione gratuita di tutto il sapere
online, sono i concetti basilari di questa enorme innovazione tecnologica e
culturale. Siamo entrati nell'epoca della rete e delle reti di reti. Tutto
il mondo del business, delle istituzioni e dell'educazione deve ormai
puntare su internet. L'innovazione più importante di questa rivoluzione è
che la premessa per lo sviluppo ed il successo della grande rete non è più
l'individualismo e l'egoismo, come nel mondo reale in cui viviamo, ma la
condivisione di interessi e bisogni. La messa in comune di conoscenze,
competenze e capacità. Solo così infatti la nostra umanità può crescere e
risolvere i problemi spinosi che la assillano.
Ma in Italia come al solito il "digital divide" aumenta implacabilmente
rispetto all’Europa. Aumenta insieme agli stipendi, al potere, e alle
risorse finanziarie dei manager di tantissime aziende pubbliche e private
che ostacolano e limitano lo sviluppo del paese e la crescita armonica della
nostra società. Negli Stati Uniti più del 50% delle famiglie ha la banda
larga. La banda larga, non l’ADSL, in Italia invece ci sono zone dove non è
coperto neppure il cellulare. Per non parlare poi dello stato della nostra
ricerca, delle nostre scuole, di tanti nostri ospedali, delle nostre
aziende, delle nostre città, sempre più caotiche e disorganizzate, della
nostra burocrazia e della nostra giustizia, e in mezzo a tutta questa
caotica imbecillità c'è anche chi si perde ancora a chiedere i diritti per
qualche misera foto a bassa risoluzione di autori ormai morti da tempo.
Inoltre il web significa libertà di espressione e se passa il concetto che
gli unici a poter fare critica o cultura sono solo le "testate registrate"
allora qualcuno mi spieghi cosa cavolo è stato inventato a fare il www,
Berners Lee non poteva dedicarsi a qualcosa di più utile? Poteva trovare un
vaccino contro l'AIDS, studiare un po' i tumori, pensare a qualcosa contro
le PM10, contro il surriscaldamento del pianeta o le catastrofi ambientali
che ci travolgeranno.
Certo le cose non sono semplici, infatti in questo settore la concorrenza è
spietata e tutti cercano di garantirsi il più alto numero di utenti,
causando così in parecchi casi la soppressione di molte realtà. E così
operando la Siae sta causando la morte dei nostri siti scolastici,
culturali, didattici, artistici e divulgativi. Ma una cosa deve essere
chiara, ormai è finita l'epoca in cui le grosse aziende riuscivano a
controllare l'accesso alle informazioni, e oggigiorno sono proprio i
consumatori, le loro associazioni e le grandi organizzazioni no-profit, non
governative e anti-globalizzazione la migliore risorsa di informazione per
il nostro mondo in fase di grande mutamento. Pensate che più di 23.000
scienziati nel mondo si sono impegnati a boicottare le riviste che non
renderanno i propri articoli accessibili gratuitamente su internet entro sei
mesi dalla pubblicazione. In pratica una vera e propria rivoluzione. Tutto
il sapere deve essere messo in rete e deve essere fruibile da parte di
tutti; solo così potremo migliorare la nostra umanità e diffondere il
pluralismo e la vera ricerca globale. Questo ovviamente contrasta con gli
interessi dei grossi editori che da soli riescono a controllare la
pubblicazione di migliaia di riviste, si pensi per esempio al colosso
anglo-olandese Reed Elsevier che gestisce con pochi altri un giro di affari
di 10 miliardi di dollari all'anno. E' evidente che queste situazioni di
monopolio devono alla lunga essere ridimensionate. Perciò se anche voi
credete che in questo mondo tutti debbano aver voce in capitolo, unitevi a
noi, e combattete con noi questa battaglia per la libertà di espressione
creativa e per la crescita del nostro web didattico, artistico e culturale,
infatti l'unione fa la forza e solo in questo modo le vostre idee, le vostre
iniziative e le vostre aspirazioni potranno crescere e contribuire al
miglioramento e alla piena realizzazione di tutta l'umanità.
Negli Stati Uniti già dalla fine dell'anno 2003 si stava costruendo una rete
di connessioni tra tutte le università e i laboratori del paese, questa
Internet Speciale chiamata e-science sarà in grado di collegare tutti i
ricercatori mediante fibre ottiche alla velocità di 10 mega bits al secondo.
Grazie a questo progetto, che si spera verrà poi allargato anche ad altre
realtà, sarà possibile trasferire e condividere enormi quantità di dati e di
ricerche, compreso la mappatura del genoma umano e sarà inoltre possibile
lavorare con grande velocità e nello stesso tempo su modelli tridimensionali
delle varie proteine. Purtroppo invece dobbiamo allo stesso tempo constatare
che nel nostro paese oltre a non favorire lo sviluppo della ricerca, delle
tecnologie e a non incentivare economicamente gli scienziati, si fa di tutto
per bloccare e limitare anche la buona volontà degli insegnanti che fanno
cultura in rete e che cercano di unire le due culture, umanistica e
scientifica, al fine di aumentare la creatività di tutti. E così mentre gli
altri paesi avanzano, da noi c'è un marciume stagnante che impedisce
qualsiasi progresso e questo è dovuto anche alle nostre stupide e ataviche
leggi e a chi le prende a pretesto per fare due soldi alle spalle del buon
senso, della logica, della creatività e del progresso scientifico e
culturale. Quindi senza far riferimento ai pietosi dati delle statistiche
sull'utilizzo di Internet e della banda larga in Italia, dobbiamo rilevare
che procedendo in questa direzione il nostro paese risulterà sempre più
abitato da un popolo tecnologicamente, scientificamente, culturalmente e
artisticamente analfabeta, stupido, violento, incolto, ignorante,
insensibile, cafone, infelice, chiuso, introverso, e che alla fine non
riuscirà più a rimanere al passo dei paesi più liberi e più civilizzati e
sarà quindi sempre più costretto a vivere in un paese squallido, triste,
cupo, misero, ingiusto, ridicolo ed ignobile.
Carl William Brown Indice
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