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COMITATO PER L'AMBIENTE E IL RISPARMIO ENERGETICO DI BRESCIA


Da nord a sud, liberi di inquinare   SABATO 18 GENNAIO 2003  I veleni chimici da Marghera a Priolo.

E a Brescia, contaminata da diossine e Pcb, estesi i divieti Enichem e «le altre». Parlano Paolo Rabitti, consulente di Casson al processo di Porto Marghera, e Marino Ruzzenenti che due anni fa fece esplodere il caso Caffaro a Brescia

MILANO

«Questa volta non potranno dire che le leggi non c'erano ancora o che non si sapeva ancora che il mercurio fa male», commenta con un filo di sarcasmo il chimico Paolo Rabitti, consulente del pubblico ministero Felice Casson nel processo di Porto Marghera chiuso in primo grado con l'assoluzione in massa del gotha della chimica italiana. La «retata» che giovedì mattina ha portato in carcere diciotto tra dirigenti e tecnici dell'Enichem di Priolo sorprende persino uno come lui che, per lavoro, da un pezzo mette le mani nelle porcherie e nei misfatti della chimica: «Stando a quel che leggo sui giornali, si tratta di illegalità compiute adesso, non ai tempi che Berta filava». Mercurio «smaltito» nei tombini e finito in mare adesso, mezzo secolo dopo Minamata, il caso terribile dei pescatori giapponesi che fece capire che il mercurio non è una sostanza inerte, ma si trasferisce negli organismi viventi. La costanza nell'illegalità presuppone una certezza dell'impunità che l'assoluzione per Porto Marghera, afferma Rabitti, non basta a spiegare. Nonostante quella assoluzione, ci sono inchieste aperte in mezza Italia sui petrolchimici, «è inconcepibile che l'Enichem di Priolo non si sentisse sotto osservazione».

Marghera e le altre, era il sottotitolo delle Cronache della chimica, il libro di Rabitti sui petrolchimici, a partire da quello di Mantova, la sua città. Le ultime da Priolo confermano quanto quel «le altre» fosse azzeccato.

A sorprendere Marino Ruzzenenti, l'appassionato professore di lettere che con un libro e un esposto alla magistratura ha fatto emergere le dimensioni dell'inquinamento ereditato da Brescia in un secolo di attività della Caffaro, non sono i comportamenti dei dirigenti dell'Enichem di Priolo. «Mi meraviglia, in positivo, che li abbiano arrestati».

Dopo l'assoluzione per Porto Marghera, «la magistratura è diventata molto cauta e prudente». Dopo anni di studi e riflessioni, Ruzzenenti è arrivato a un'amara conclusione: «Fin che c'è un business da fare, le aziende perseverano nei comportamenti illeciti, anche se sono consapevoli di mettere a rischio l'ambiente e la salute delle popolazioni». Il rischio d'essere pizzicate in flagrante lo mettono nel conto. Fin che danno lavoro, sanno di poter far leva sul ricatto occupazionale. Il caso Caffaro è scoppiato, osserva, solo quando la fabbrica è per tre quarti dismessa.

Se nel mare di Priolo sono state trovate concentrazioni di mercurio 20 mila volte superiori ai limiti, arguiscono Rabitti e Ruzzenenti, significa che per il processo di elettrolisi nel ciclo del clorosoda si usano ancora le celle a mercurio, non quelle a membrana.

Il brevetto per togliere il mercurio dai reflui la Montedison ce l'ha dal 1976 e l'Enichem l'ha ereditato. Quella tecnologia, precisa Rabitti, è stata applicata a Marghera, «ma evidentemente non a Priolo». Di certo non fu usata al petrolchimico di Mantova che in vent'anni di ciclo del clorosoda ha riversato nei laghi formati dal Mincio 100 mila chili di mercurio.

I pesci del lago inferiore non sono ancora commestibile e i lavori per costruire un porto nel basso corso dei Mincio sono stati bloccati perché c'è troppo mercurio nei fondali. Greenpeace a livello internazionale e, in Italia, Medicina democratica si battono da tempo perché la chimica abbandoni la filiera del cloro. Le imprese la considerano una proposta eccessiva? «Facciano almeno il piacere d'eliminare le celle a mercurio», replica Ruzzenenti.

L'Enichem di Priolo butta il mercurio nei tombini. La Caffaro, ai suoi tempi, ha buttato nei fossi pcb e diossine. Nel terreno sotto la fabbrica ce n'è in quantità industriali. Ma anche nel terreno del quartiere Primo Maggio le concentrazioni sono altissime. Tanto che un'ordinanza del sindaco Corsini del 30 dicembre scorso ha confermato e ed esteso severe restrizioni su un'area abitata da 3.500 persone, con due scuole, un campo sportivo e un giardino pubblico. Bandite le coltivazioni agricole e vietato addirittura «giocare, muovere il terreno, sollevare polvere».

Una precedente ordinanza, contro la quale la Caffaro è ricorsa al Tar, imponeva all'azienda di bonificare 10 chilometri di fossi. Il sindaco tira dritto e prepara un'altra ordinanza per la bonifica dei terreni. Un'impresa, oltre che costosa, tecnicamente ardua perché diossine e Pcb si annidano fino a 35 centimetri di profondità.

Un anno e mezzo dopo lo scoppio del caso Caffaro, una cosa almeno è stata realizzata: l'azienda depura con filtri a carboni attivi le sue acque di scarico. Anche se la produzione di Pcb è cessata dal 1984, è necessario farlo perché la Caffaro continua a pompare acqua dai suoi pozzi privati, ovviamente inquinati dal Pcb.

Sorpresina finale. Il padrone della Caffaro è Emilio Gnutti, il raider bresciano che come il prezzemolo compare ovunque ci siano affari da realizzare. L'Hopa, la sua finanziaria, ha la maggioranza della Snia, padrona della Caffaro. Convincere un tipo come Gnutti a sborsare milioni di euro per bonificare la Caffaro e un pezzo di Brescia sarà un'impresa quasi disperata per il prossimo sindaco. Anche perché Hopa, è il maggior partner privato del comune nell'Asm, l'azienda dei servizi municipali che fa molti profitti con il megainceneritore.

MANUELA CARTOSIO   Nota: Dal Manifesto del 18 Gennaio 2003


LEGGI LA PERICOLOSITA' DEL FLUFF E DEL PCB


Anatomia del caso Caffaro dal punto di vista della politica ambientale

Ho scritto la mia tesi di laurea (Master in Scienze Amministrative - Politica Ambientale) sul caso Caffaro a Brescia [1]. Ho cominciato ad interessarmene leggendo lo "scoop" de La Repubblica nell’agosto 2001: "A Brescia c’é una Seveso bis", scoprendo che la Caffaro era una fabbrica chimica che aveva inquinato l’ambiente di Brescia fin dall’inizio del secolo scorso, ma di cui solo in quel momento si stava cominciando a capire di cosa si trattasse veramente [2]. Cosi ho raccolto parecchio materiale di ricerca, soprattutto articoli dai quotidiani ed altri scritti sul caso, e ho svolto diverse interviste a Brescia, finendo il mio lavoro nell’autunno del 2003. Quello della Caffaro e un caso di politica ambientale molto interessante per vari motivi. Per una studiosa di politica ambientale, la storia della fabbrica come illustrata nel libro di Marino Ruzzenenti [3] e veramente sconcertante. L’inquinamento e cominciato negli anni ’30, e quello più pesante si e protratto fino agli anni ’80, quando e stata interrotta la produzione dei PCB. Gradualmente si e presa coscienza della pericolosità di questi PCB, delle diossine e di altre sostanze chimiche che venivano trattate nel sito e rilasciate nell’ambiente. Quasi altri 20 anni ci sono voluti prima di trovare la volontà oppure il coraggio di studiare quali fossero le conseguenze di questa produzione industriale a Brescia. La presenza di questi inquinanti nel terreno e stata scoperta per caso, in occasione della pianificazione per la costruzione dell’inceneritore a Brescia, pero prima che scoppiasse lo scandalo sulle pagine de La Repubblica non si avevano le risorse economi-che e la pressione politica per studiare la cosa fino in fondo. Anche per questo il caso Caffaro e particolarmente interessante: costituisce un caso esemplare di come i cittadini e gli ambientalisti riescano a sollevare la coscienza dei problemi, ed a sollecitare azioni costruttive per affrontarli, visto che finalmente l’inquinamento della Caffaro viene ora trattato con serieta, pur essendo attualmente ancora ai primi passi. La tesi di laurea si e occupata di svolgere uno studio particolarmente approfondito su un arco di tempo limitato; ho scelto infatti di studiare in dettaglio il caso Caffaro a partire dall’articolo de La Repubblica (13 agosto 2001) fino al novembre del 2002, pur tenendo certamente conto degli eventi nel loro complesso. La scelta e dettata dal fatto che, nonostante la storia centenaria della fabbrica, e nonostante alcuni studi di Asl, Arpa e Comune di Brescia, e lo studio di Marino Ruzzenenti fossero cominciati negli anni ’90, a far scoppiare il caso e a qualificarlo come disastro ecologico sono stati proprio l’articolo de La Repubblica e le successive denunce e polemiche degli ambienta-listi del Co.P.I.C. [4]. Nella mia tesi ho analizzato queste polemiche pubbliche, di cui la discussione sui rischi per la salute dei cittadini era quella più interessante [5]. Secondo il concetto sociologico e costruttivista del rischio, i rischi non sono qualcosa di oggettivo e facile da misurare o stimare in ogni caso; essi vengono invece costruiti in un processo sociale, comunicativo e collettivo. Il "rischio in se’" non esiste, e sempre costruito, calcolato e valutato dall’ uomo. Un obiettivo della mia tesi e stato cercare di capire come questa valutazione del rischio e stata fatta nel caso Caffaro. Subito dopo l’articolo di La Repubblica si e cercato di negare che l’inquina-mento della Caffaro costituisse un rischio per la popolazione. E stato detto che l’inquinamento era sotto controllo e che non c’era motivo di allarmarsi. Forse le autorità sarebbero state in grado di convincere la pubblica opinione (e se stesse) che i rischi non fossero poi così gravi. Ma il caso Caffaro non e stato solo discussione e polemica: ci sono stati studi e ricerche affidabili sul terreno, sulle acque, sulle rogge, sugli animali di allevamento, sulle coltivazioni e anche sul sangue degli abitanti. Ultimamente questi studi hanno pienamente confermato la gravita della situazione. Gli studi dell’Arpa di Brescia, considerati molto affidabili da tutti i coinvolti nel caso, hanno aggiunto l’autorevolezza scientifica necessaria perché le istituzioni potessero procedere con ordinanze sempre più severe e, anche se questo forse non e stato pubblicamente riconosciuto, hanno confermato le giuste intuizioni degli ambientalisti, e anzi hanno descritto una situazione persino peggiore di quella che loro stessi avevano ipotizzato. Gli studi ecologici su terreno, acqua e rogge fatti per il caso Caffaro hanno in un certo senso anche creato inedite rotture, divisioni e alleanze di opinione tra diversi attori del caso. I due medici, Panizza dell’Asl di Brescia e Ricci di quella di Mantova, hanno apertamente contestato le interpreta-zioni dei rischi date dall’Asl di Brescia stessa. Il consigliere regionale di Rifondazione Comunista Lombardi e l’ex-sindacalista Ruzzenenti sono stati attivi nel Co.P.I.C, mentre la Filcea-Cgil di Brescia, il sindacato chimici, non ne ha fatto parte. L’Arpa di Brescia e la fabbrica Caffaro sono invece rimaste sopra le parti. Qualcuno potrebbe chiedersi il perché di una divisione cosi peculiare: l’Asl, il sindaco di centro-sinistra, l’assesso-re all’ambiente dei Verdi e la Filcea-Cgil contro due medici, un ex-sindacalista e un consigliere regionale di sinistra... Perché le "linee di lotta" si sono formate cosi, e non invece ad esempio tutte le autorita contro la fabbrica? Secondo la mia tesi, ciò e avvenuto in conseguenza del fatto che gli ambientalisti hanno accusato le autorità di controllo e il sindacato di non aver fatto il loro dovere, gli accusati si sono naturalmente difesi, e le posizioni si sono cosi complicate fin dall’inizio. In questo modo, con una nuova rottura da un lato, e con dall’altro gli studi scientifici che nessuno contesta, si e creata abbastanza polemica per cominciare a studiare le cose fino in fondo. Secondo il sociologo Ulrich Beck le nuove cosiddette rotture ecologiche [6] possono aiutare a capire i nuovi rischi, e cosi sembra che effettivamente sia successo a Brescia. Tuttavia qualcosa mi sembrava man-care. Nel caso Caffaro si e discusso e studiato tanto i rischi sulla salute delle persone, ma si e parlato poco o nulla nelle discussioni pubbliche dei rischi ambientali, cioè i rischi per la natura, per 1’ecosistema. Forse ciò e accaduto perchè la fabbrica e insediata tra abitazioni e campi coltivati, o perchè né l’Arpa né Legambiente (o altre associazioni ambientali) sono state tra i più attivi nella discussione pubblica. Resta il fatto che a Brescia non ci si e preoccupati delle conseguenze sulla natura: si sono studiati attentamente i livelli di PCB e diossine nel sangue umano, come e giusto, ma si e forse dimenticato che queste sostanze danneggiano tutto 1’ecosistema? Si è scritto tanto sui giornali locali riguardo al caso Caffaro, ma quasi tutta la discussione (fatto rilevato anche nelle interviste) ha riguardato questioni per il futuro: dove ottenere i fondi per disinquinare, quali rischi ci saranno, a cosa si potrà adibire il terreno inquinato. Guardare solo le conseguenze nasconde un pericolo: se si giunge alla conclusione che alla fine gli effetti sulla salute dell’uomo sono molto difficili da verificare, si può arrivare a pensare che in fin dei conti l’inquinamento non fosse poi tanto grave ... Invece, guardare al passato e individuare gli errori che hanno portato a questo inquinamento e un lavoro costruttivo. Naturalmente il futuro della fabbrica, della popolazione e del terreno, e ancora la cosa piu urgente da capire e da risolvere, ma forse e anche vero che non c’é volontà di discutere pubblicamente un passato cosi "scottante". Leggendo il libro di Ruzzenenti tuttavia non si può fare a meno di chieder-si come e perchè sia stato possibile che una fabbrica abbia potuto inquina-re impunemente per anni ed anni, nonostante le voci degli ambientalisti, degli abitanti locali, degli scienziati, e anche nonostante i casi di inquinamento e disastro ambientale come Seveso. Perchè si e aspettato fino alla fine del 1990 prima di studiare il terreno e procedere con le ordinanze? [7]. Negli anni ’30 si era convinti di sapere bene come controllare le sostanze chimiche in produzione nel settore, ma questa convinzione esiste tuttora riguardo alle tecnologie e all’industria del presente. Siamo sicuri di stare ascoltando gli avvertimenti in tempo? Non sempre e facile capire quali avvertimenti ascoltare, ma cercare di capire gli errori del passato e sicuramente un modo di imparare a non ripeterli.

Nina NYGREN (Researcher, Master of administrative sciences (environmental policy), Department of Regional Studies 33014 University of Tampere, Finland email: nn62585@uta.fi Cell, in Finlandia: +358-40-563 64 72)


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«VELENI, LA CAFFARO DEVE PAGARE»

Brescia, contaminazione da Pcb. Dodici cittadini presentano il conto: 8 milioni di euro, l'udienza fissata per il 26 gennaio


BRESCIA — Aveva sette ettari di campagna, e non coltiva più un fazzoletto di terra; aveva venti mucche, galline, conigli e li ha dovuti sopprimere; stava mediamente bene e si è ritrovato con con 330 microgrammi di Pcb ogni 100 millilitri di sangue.
I pareri sono discordi, ma quando si parla di medie accettabili si varia da 7,5 a 15 microgrammi.
Persino il suo nipotino, nato dopo la scoperta del disastro della Caffaro — l'azienda chimica bresciana che, fondata nel 1906, ha prodotto i policlorobifenili fino al 1984, quando la statunitense Montesanto, che aveva concesso il brevetto, già aveva abbandonato da un decennio quella produzione pericolosa — ha il sangue avvelenato: certo ha due anni, mentre il caso Caffaro è scoppiato nel 2001, ma il Pcb sa aspettare.
Per lui, come per altri piccoli, è arrivato attraverso il latte materno.
Sarà anche per questo che Pierino Antonioli torna in prima fila: negli anni Sessanta fu tra i primi ad accorgersi che nei campi bagnati con l'acqua della roggia Franzagola («che ha origine presso lo scarico delle industrie chimiche Caffaro» certificherà nel 1997 un rapporto dei Nas) le piante seccavano.
Oggi presenta il conto, insieme con altri 11 degli oltre 10 mila danneggiati dalla contaminazione di oltre 700 ettari: oltre 8 milioni di euro, messi insieme i danni patrimoniale, esistenziale e biologico.
Un calcolo fatto dai loro avvocati, Riccardo Vinetti e Francesco Borasi, con un occhio all'altro disastro, quello di Seveso (10 luglio 1976) quando l'esplosione di un reattore provocò la contaminazione da diossina del territorio e degli abitanti della zona.
«L'ipotesi giuridica è analoga» spiega Francesco Borasi, che ha seguito e segue numerose cause contro l'Icmesa.
Le sentenza pronunciata in proposito nel 2002 a sezioni unite dalla Corte di Cassazione è un presupposto importantissimo: stabilì che anche il danno morale — la paura di ammalarsi, il disagio di sottoporsi a controlli — va risarcito in casi di disastro ambientale, e non solo quelli biologico e patrimoniale.
«E dopo quello di Porto Marghera, questo è il caso di contaminazione più serio che abbiamo in Italia» dice Edoardo Bai, medico del lavoro e componente del Comitato scientifico di Legambiente.
Ora che l'udienza al tribunale di Brescia è fissata per il 26 gennaio, il Comitato della zona Caffaro, rappresentato da Marino Ruzzenenti, insieme con Legambiente, rappresentata da Mario Capponi e Andrea Poggio — presidente bresciano e lombardo — lanciano un appello al Comune: perché si costituisca a sua volta in giudizio e chieda a sua volta il risarcimento, come per Porto Marghera fece a suo tempo il ministero.
«Sarebbe un modo di sostenere i cittadini senza compromettere alcuna possibilità di mediazione». Una porta, quest'ultima, che va tenuta aperta anche per evitare il rischio che eventuali passaggi di mano della Caffaro, portando a un fallimento, mettessero i titolari dei terreni contaminati dall'azienda nella paradossale situazione di dover pagare la bonifica.
Come dire, rovinati e beffati.


COMITATI PER L'AMBIENTE DI BRESCIA E PROVINCIA

 

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